domenica 12 maggio 2019

Dopo il '48


Dopo il ‘48

Gli anni successivi al 1948, furono anni davvero speciali per il nostro bel Paese.
La guerra era finita da qualche anno, la Resistenza pure, ma fino al ’48, l’Italia non si era ancora dotata di una nuova immagine, più vivace, moderna e capace di segnare la distanza necessaria a riprendere vita, per uscire dalla depressione che la guerra aveva portato, in termini di lutti e distruzione. Fino al 1948 le macerie delle case contenevano ancora l’eco delle bombe che le avevano demolite, spesso seppellendo sotto di esse gli occupanti.
Nei campi agricoli c’era ancora qualche mina di quelle disseminate dai tedeschi in ritirata e qualche volta i ragazzi che le trovavano giocando, ci rimettevano le mani le mani, gli occhi, le gambe e qualche volta la vita. Nei nostri paesini agricoli del sud, non c’erano ospedali o centri di pronto intervento, non c’era la protezione civile o satelliti e robot che potessero sminare i campi.
L’unico modo di scoprire una mina era, purtroppo, il capitarci sopra.
Poi risolsero la cosa i pastori abruzzesi che scendevano in Daunia in transumanza. In quei tempi le terre erano coltivate a cicli annuali che concedeva alla terra un riposo; un anno il grano, l’anno dopo la si lasciava in maggesa. Serviva a far sfogare le erbe e a renderle più produttive l’anno dopo. Quando le terre erano maggese, veniva concessa ai pastori il libero pascolo, che loro qualche volta ripagavano con una fruscella (un canestrino di giungo) di ricotta o una forma di pecorino, ma intanto le pecore la concimavano e, soprattutto, la rendevano sicura dalle mine. Difatti quando il gregge aveva pascolato in un campo, non rimaneva un centimetro di terra che non fosse stato pestato. Questo sacrificio di qualche ovino però, non aveva dato la completa certezza di una pulizia totale da quella terribile minaccia ed ogni tanto, fino agli anni ’50 s’era ancora sentita raccontare di qualche disgrazia.
Il ’48 segnò il passaggio storico della Repubblica, della Costituzione, del voto alle donne, della scuola dell’obbligo e di un Paese che stava guarendo le sue ferite e riprendendo il cammino per lo sviluppo industriale della meccanica e delle infrastrutture moderne. Almeno al nord.
Al sud invece, sembrava che il Medio Evo si fosse radicato troppo bene e non avesse fretta di lasciare il passo. Noi non ce ne rendevamo conto, non sapevamo che da altre parti fosse diverso; il mondo allora cominciava e finiva lì, dove vivevi, del resto non se ne sapeva niente. La radio non c’era nelle case, la televisione sarebbe arrivata oltre un decennio dopo, i giornali chi li leggeva? E poi, i giornali hanno sempre detto solo quello che poteva essere detto e quello che ci veniva raccontato al sud, non era certo che in Italia si attuassero due politiche differenti per il Paese: una per il Nord ed una per il Sud. Nel triangolo industriale si finanziava lo sviluppo e l’era moderna, al Sud si finanziavano politiche assistenziali e di mantenimento, affinché non si morisse di inedia (e di fame). Almeno così sarebbe dovuto essere, ma i soldi destinati al meridione, al “Mezzogiorno” erano gestiti comunque da associazioni e organizzazioni  governative del Nord che dragavano i finanziamenti e le tasse del povero meridione, per finanziare e ingrassare il nord.
Una delle cose che mi ha sempre meravigliato della politica di ogni Governo italiano, era che il Ministero dell’Agricoltura, quello della pesca, è sempre stato affidato ad un uomo del nord. L’attività agricola è sempre stata patrimonio del mezzogiorno, ma il ministro è sempre stato veneto o piemontese. Mi sono sempre chiesto il perché. Come il ministro della pesca, oppure i segretari del Partito Comunista o del sindacato di classe: la CGIL. I disoccupati sono al sud, ma i segretari dei partiti o dei sindacati degli operai, dei diseredati sono sempre stati piemontesi, lombardi o toscani. Perché? Quelli non erano anni in cui si sapesse niente dello sfacelo, delle distruzioni, delle ruberie, delle deportazioni ed omicidi di massa, che i sabaudi, con la scusa della “Giovane Italia” e dell’Unità del Paese, inflissero alle regioni del Regno delle Due Sicilie. Ancora oggi non se ne sa molto.  Sotto il dominio piemontese, il sud fu reso schiavo e derubato di ogni sua conoscenza, di ogni suo talento. Comunque, gli anni intorno al ’48, danno la misura anche nella nostra Alta Daunia, che le cose stanno cambiando. L’industrializzazione del nord Italia ha bisogno di braccia per la Fiat, l’Alfa Romeo, e le fabbriche di frigoriferi e lavatrici, televisori e nuove produzioni, per lo sviluppo delle città e al sud si aprono canali di migrazioni interne che sembrano concedere fiato a chi resta e un destino nuovo a chi parte. La vita, intesa come era stata fino ad allora, cede il passo e rompe gli schemi e i legami col passato. Ma ancora si sentono, per le nostre contrade gli ultimi echi di quello che era avvenuto prima del ’48. Ce le porta qualche Cantastorie che continua col suo cartellone a girare i paesi per cantare le gesta eroiche di qualche brigante locale e della loro strenua lotta, portata contro i piemontesi, con pochi sparuti amici e qualche fucile a tromba. I disegni dei cantastorie, ci mostravano uomini con calzari di pelli di agnello avvolti intorno ai piedi e le gambe, tenuti con lacci incrociati e pantaloni alla zuava di velluto, camicie larghe e merlettate e cappellacci a cono con nastrini e la schioppetta in spalla. Piuttosto simile ad un bucolico fauno, Nicola Morra o chiunque altro, non poteva avere nessuno scampo contro i Cialdini e i Bixio o Garibaldi, che la storia ufficiale ci rimandava come eroi. Ma altre figure strane hanno attraversato ancora a lungo le nostre strade nei paesi, figure che hanno popolato la mia infanzia e che io immagino ancora giro per i paesi come fossero eterni. Cristallizzati nella mia mente dalla mia partenza, li immagino ancora mentre attraversano le controre al paese, per vendere la calce bianca della “Procina” (Apricena), o il ghiaccio in blocchi delle grotte del Gargano, venduto a pezzi per rinfrescare l’acqua da bere nelle brocche (giarre o giarrone) di vetro, o per farne le granite, raschiando il blocco di ghiaccio con una pialla da falegname, condite col mosto cotto  o succo di lamponi e more. Risento ancora la voce dell’uomo che a primavera girava le strade di San Paolo con un albero triangolare fatto di canne alle quali erano legati mazzetti di ciliegie ( i ciàmpalun) “. Chiagnite chiagnite vuagliuni, cinq lire ‘u ciampaloneee!...esortava i bambini al pianto per costringere le mamme all’acquisto. Mi sono sempre chiesto come potevano mantenere le famiglie, dei figli, uomini che facevano un simile lavoro, mi chiedo ancora se si potesse perfino chiamare così, quella loro occupazione. Quell’uomo mi è sempre apparso come un regalo alla gioia dei bambini, una sorta di Babbo Natale primaverile al tempo delle ciliegie e d’estate coi fichi d’India. Un’altra figura ricorrente nei miei pensieri è ‘U Lliò. Il nomignolo non lo saprei tradurre, noi lo abbiamo sempre sentito lanciare il suo grido per le strade, mentre a frotte i bambini che lo seguivano, gli facevano l’eco: ‘U Liòòò, ‘u banchetell, i cuperchie…”questo uomo era piccolo, magro e sempre a piedi, con una coppola sdrucita in testa, vestiva di grigio scuro con un gilet nero ed una giacca lunga con grandi tasche.  Ricavava piccole sedioline o coperchi, da liste sottili di legno, che recuperava dalle cassette usate per trasportare pomodori o frutta. I grandi ci dicevano che veniva da San Severo, pare che fosse uno sbandato della seconda guerra. Allora, prima del ’48, ce ne erano tanti poveretti che, traumatizzati dalla guerra, persone costrette ad uccidere o che avevano visto morire i loro compagni d’arme, uomini che al ritorno dal fronte non aveva più ritrovato nessuno della sua famiglia e neppure la casa, frastornati, si aggiravano per i paesi sbarcando il lunario con quel poco che gli potevano dare le donne, in cambio di un banchetto per i bambini, un coperchio per la sàrola (grande anfora di terracotta che serviva da riserva d’acqua da bere in casa) o la riparazione di un ombrello. Era frequente sentire che in cambio dei suoi lavoretti, ‘u lliò venisse ripagato solo con un pezzo di tarallo dolce.

Il ricordo vivido di una mattinata infantile mi è rimasto così impresso che è proprio di lui che voglio raccontare.
La scena è quella di una normale mattinata di maggio, in una qualsiasi strade del paese, anno 1953/54. Quel mattino, una famiglia amica era emigrata per Torino ed io ero dispiaciuto perché Viviana, la mia amica coetanea era andata via e non l’avrei più rivista. Mia madre e le mie sorelle, avevano accompagnate la vedova e le sue sei figlie femmine alla corriera in piazza.
Un grido sottile si sentì all’angolo di via Siena e la donna fece un cenno con la mano all’omino che gridava “O Lliòòòò, ‘u banch-tell ‘u cuperchijeeee….” Un gruppo di bambini impolverati lo seguivano facendogli l’eco indispettendolo…’U Lliò!”


……………………………………………

La donna si tolse dal collo il filo di cotone blu con il quale stava elaborando un paio di calze per il marito e appoggiò la matassa con i ferri sulla sedia, mentre si alzò stiracchiandosi.
“Aspetta un attimo comare Filena che prendo un ombrello da farlo riparare al Lliò che sta arrivando, se no quello se ne va” entrò in casa zoppicando “ mi si è addormentata la gamba…” disse fregandosi la grossa anca destra.
“Fai..fai con comodo che i ragazzi stanno facendo i compiti, che devo fare...” Teresa era già in casa.
“ Parla comare, parla che ti sento...”
“...No, che dicevo...niente, Ntoniuccio è qui che gioca con Lucio, gli altri sono andati a giocare, non so dove sono, che devo fare...non so cosa gli devo fare da mangiare stasera..., si girò a dare un’occhiata ai ragazzi che giocavano in strada “...qualcosa farò...”
La povera vedova aveva sei bocche da sfamare, il più grande appena di diciassette anni, la più piccola di sei, Tonino era il quinto, ne aveva due di più.
“Dove hai lasciato la bimba?” Teresa stava facendo cenno con la mano al vecchio sbandato, per farlo avvicinare “...dov’è Alba?”
“L’ha presa con se Colomba. Meno male che c’è lei…”
“Si, hai una brava ragazza. La signora Teresina porse un ombrello nero con due raggi spezzati al girovago, che passava per le strade del paese in cerca di qualche lavoretto, in cambio di qualche soldo, ma spesso recuperava solo qualche tarallo, un pezzo di pane, un bicchiere di vino, in cambio delle sue piccole sedioline per i piccoli, coperchi per sarole, riparazioni di ombrelli e delle “scjkafareje “grosse tinozze di terracotta, smaltate di un verde brillante all’interno, nelle quali le donne lavavano i panni.
L'uomo arrivò seguito a distanza da un nugolo di piccoli scapestrati scalzi che lo seguivano per le strade di tutto il paese rifacendo il verso al suo grido “...'u lliò!” gridava lui per avvisare le donne in casa “'u lliò!” gridavano quegli scapestrati.
Ad ogni strada se ne ritirava qualcuno che si era allontanato troppo da casa ma, con lo stesso ritmo, se ne aggiungeva qualcun altro. Il vecchio artigiano ambulante si accovacciò con le spalle al muro della casa, cavò dal suo tascapane a tracolla una sotola, aghi e spago, una pinza e del fil di ferro, tirò fuori da una specie di feretra una manciata di raggi tolti a vecchi ombrelli, ne scovò quelli più simiglianti  alla necessità e cominciò il suo lavoro.
“ Che mi stavi dicendo comare Terè?..”
“Che ti stavo dicendo comare Filé..?
“ Il fatto di quella guagliona che ...”
“Ah sì! 'Mbehh...così si diceva...io poi non so se è tutta verità o cosa...” la donna prese in mano i ferri e la matassa e si riaccomodò sulla sua bassa seggiola “ la sorella minore della moglie di  Pasquale Corvino, quello viveva in nella casa dove abitate voi ora...”
“Si, il nipote di Corvino il vaccaro?
“Quale vaccaro...quello faceva la guardia campestre… aveva una mucca si, ma...macchè vaccaro...”
“Non era quello che abitava quaggiù, nel quartiere della Corea?” Filena indicò con la mano la direzione del quartiere più disgraziato del paese.
“Si proprio quello, quello è il fratello del padre di Maria, ora l’hai accompagnata, non sai che è una Corvino? È la nipote di Pasquale Corvino! Ora...quelli sono emigrati a Torino tanti anni fa...saranno una decina di anni...quasi...hanno lasciato tutto quello che avevano e si sono trasferiti.
La vedova sembrava non seguire bene tutto quel discorso “...E questi qua, cosa c’entrano con le ragazza che dice mio figlio?”
“La sorella piccola della moglie, si chiamava Lucia, stava sempre qui, a casa della sorella sposata. Quella, si racconta, che è morta dentro un pozzo, forse...”
“ Di questa casa?..” la povera vedova era diventata bianca dallo spavento. Nel contrasto col suo vestito nero diventò cadaverico. “ ...è terribile!”
“Nooo, in un pozzo di campagna, intorno al paese, ma io non so dirti quale.”
“ Madonna , mi hai fatto tremare comare Terè...noi facciamo tutto con quell’acqua...per carità di Dio...e allora?..”
“Niente, qui in strada la gente diceva che quella poveretta se n'è dovuta andare perchè rivedeva la sorella in casa.”
“Madonna, che spavento mi hai fatto prendere comare, ma la vedeva perché era abituata ad averla sempre in casa...sarà stata  quello.”
“Noo-o...” la signora Teresa, bassina e di taglia piuttosto forte, si accorse che il vecchio Lliò stava sbirciando sotto la sua gonna di cotonina azzurra che si accorciava parecchio da seduta, aiutata dalle cosce piuttosto grassocce e si alzò.
“Quella la vedeva proprio...”
“Ma tu ci credi a queste cose?..Io no!”
“Comare Filena...L'hanno vista anche altre persone”
“Chi?”
“ Comare Iduccia, quella che abita all'angolo, ad esempio...”
“Ma dai comare Terè...quella è...” evitò di fare inutilmente il nome, ormai s'erano capite “...ma se dicono che quella è sempre ubriaca.”
Teresa scosse la testa in un cenno di disaccordo.
“Non è vero che è sempre ubriaca...chi te lo ha detto che è sempre ubriaca…quella l’ha vista proprio”
L'omino aveva finito il suo lavoro, lo consegnò alla donna che prima di prenderlo in consegna già si lamentava per come lo aveva fatto.
“Ma se non l'hai ancora visto...” reclamò il poveretto “...lo fai per non pagarmi.”
“ No, lo faccio perché so come lavori tu. Fai schifo. La rovini la roba che dici di aggiustare. Ti do più di quando meriti.” tornò fuori con un pezzo di pane, un mezzo tarallo dolce, tre centimetri misurati di salsiccia ed un bicchiere di vino.
“Ma non puoi darmi dei soldi?” chiese il poveretto.
“Soldi...e chi li vede quelli? Ti pago più di quanto do a mio marito, anzi, bevi in fretta che, se quello vede che ti ho dato il suo vino, mi mena pure.”
La vedova fece un gesto di saluto e si ritirò.
Il vecchio ambulante riprese il suo giro col suo chiassoso codazzo di scugnizzi, che si era messo a giocare con gli amici della strada. Ma, come fossero pagati per quello che facevano, riprese a far eco al grido del girovago: “ U Lliò!...'U banch tell!...I cuperchije!…i siggjtelle!….’o Lliò! …”

Dopo il ‘48

Gli anni successivi al 1948, furono anni davvero speciali per il nostro bel Paese.
La guerra era finita da qualche anno, la Resistenza pure, ma fino al ’48, l’Italia non si era ancora dotata di una nuova immagine, più vivace, moderna e capace di segnare la distanza necessaria a riprendere vita, per uscire dalla depressione che la guerra aveva portato, in termini di lutti e distruzione. Fino al 1948 le macerie delle case contenevano ancora l’eco delle bombe che le avevano demolite, spesso seppellendo sotto di esse gli occupanti.
Nei campi agricoli c’era ancora qualche mina di quelle disseminate dai tedeschi in ritirata e qualche volta i ragazzi che le trovavano giocando, ci rimettevano le mani le mani, gli occhi, le gambe e qualche volta la vita. Nei nostri paesini agricoli del sud, non c’erano ospedali o centri di pronto intervento, non c’era la protezione civile o satelliti e robot che potessero sminare i campi.
L’unico modo di scoprire una mina era, purtroppo, il capitarci sopra.
Poi risolsero la cosa i pastori abruzzesi che scendevano in Daunia in transumanza. In quei tempi le terre erano coltivate a cicli annuali che concedeva alla terra un riposo; un anno il grano, l’anno dopo la si lasciava in maggesa. Serviva a far sfogare le erbe e a renderle più produttive l’anno dopo. Quando le terre erano maggese, veniva concessa ai pastori il libero pascolo, che loro qualche volta ripagavano con una fruscella (un canestrino di giungo) di ricotta o una forma di pecorino, ma intanto le pecore la concimavano e, soprattutto, la rendevano sicura dalle mine. Difatti quando il gregge aveva pascolato in un campo, non rimaneva un centimetro di terra che non fosse stato pestato. Questo sacrificio di qualche ovino però, non aveva dato la completa certezza di una pulizia totale da quella terribile minaccia ed ogni tanto, fino agli anni ’50 s’era ancora sentita raccontare di qualche disgrazia.
Il ’48 segnò il passaggio storico della Repubblica, della Costituzione, del voto alle donne, della scuola dell’obbligo e di un Paese che stava guarendo le sue ferite e riprendendo il cammino per lo sviluppo industriale della meccanica e delle infrastrutture moderne. Almeno al nord.
Al sud invece, sembrava che il Medio Evo si fosse radicato troppo bene e non avesse fretta di lasciare il passo. Noi non ce ne rendevamo conto, non sapevamo che da altre parti fosse diverso; il mondo allora cominciava e finiva lì, dove vivevi, del resto non se ne sapeva niente. La radio non c’era nelle case, la televisione sarebbe arrivata oltre un decennio dopo, i giornali chi li leggeva? E poi, i giornali hanno sempre detto solo quello che poteva essere detto e quello che ci veniva raccontato al sud, non era certo che in Italia si attuassero due politiche differenti per il Paese: una per il Nord ed una per il Sud. Nel triangolo industriale si finanziava lo sviluppo e l’era moderna, al Sud si finanziavano politiche assistenziali e di mantenimento, affinché non si morisse di inedia (e di fame). Almeno così sarebbe dovuto essere, ma i soldi destinati al meridione, al “Mezzogiorno” erano gestiti comunque da associazioni e organizzazioni  governative del Nord che dragavano i finanziamenti e le tasse del povero meridione, per finanziare e ingrassare il nord.
Una delle cose che mi ha sempre meravigliato della politica di ogni Governo italiano, era che il Ministero dell’Agricoltura, quello della pesca, è sempre stato affidato ad un uomo del nord. L’attività agricola è sempre stata patrimonio del mezzogiorno, ma il ministro è sempre stato veneto o piemontese. Mi sono sempre chiesto il perché. Come il ministro della pesca, oppure i segretari del Partito Comunista o del sindacato di classe: la CGIL. I disoccupati sono al sud, ma i segretari dei partiti o dei sindacati degli operai, dei diseredati sono sempre stati piemontesi, lombardi o toscani. Perché? Quelli non erano anni in cui si sapesse niente dello sfacelo, delle distruzioni, delle ruberie, delle deportazioni ed omicidi di massa, che i sabaudi, con la scusa della “Giovane Italia” e dell’Unità del Paese, inflissero alle regioni del Regno delle Due Sicilie. Ancora oggi non se ne sa molto.  Sotto il dominio piemontese, il sud fu reso schiavo e derubato di ogni sua conoscenza, di ogni suo talento. Comunque, gli anni intorno al ’48, danno la misura anche nella nostra Alta Daunia, che le cose stanno cambiando. L’industrializzazione del nord Italia ha bisogno di braccia per la Fiat, l’Alfa Romeo, e le fabbriche di frigoriferi e lavatrici, televisori e nuove produzioni, per lo sviluppo delle città e al sud si aprono canali di migrazioni interne che sembrano concedere fiato a chi resta e un destino nuovo a chi parte. La vita, intesa come era stata fino ad allora, cede il passo e rompe gli schemi e i legami col passato. Ma ancora si sentono, per le nostre contrade gli ultimi echi di quello che era avvenuto prima del ’48. Ce le porta qualche Cantastorie che continua col suo cartellone a girare i paesi per cantare le gesta eroiche di qualche brigante locale e della loro strenua lotta, portata contro i piemontesi, con pochi sparuti amici e qualche fucile a tromba. I disegni dei cantastorie, ci mostravano uomini con calzari di pelli di agnello avvolti intorno ai piedi e le gambe, tenuti con lacci incrociati e pantaloni alla zuava di velluto, camicie larghe e merlettate e cappellacci a cono con nastrini e la schioppetta in spalla. Piuttosto simile ad un bucolico fauno, Nicola Morra o chiunque altro, non poteva avere nessuno scampo contro i Cialdini e i Bixio o Garibaldi, che la storia ufficiale ci rimandava come eroi. Ma altre figure strane hanno attraversato ancora a lungo le nostre strade nei paesi, figure che hanno popolato la mia infanzia e che io immagino ancora giro per i paesi come fossero eterni. Cristallizzati nella mia mente dalla mia partenza, li immagino ancora mentre attraversano le controre al paese, per vendere la calce bianca della “Procina” (Apricena), o il ghiaccio in blocchi delle grotte del Gargano, venduto a pezzi per rinfrescare l’acqua da bere nelle brocche (giarre o giarrone) di vetro, o per farne le granite, raschiando il blocco di ghiaccio con una pialla da falegname, condite col mosto cotto  o succo di lamponi e more. Risento ancora la voce dell’uomo che a primavera girava le strade di San Paolo con un albero triangolare fatto di canne alle quali erano legati mazzetti di ciliegie ( i ciàmpalun) “. Chiagnite chiagnite vuagliuni, cinq lire ‘u ciampaloneee!...esortava i bambini al pianto per costringere le mamme all’acquisto. Mi sono sempre chiesto come potevano mantenere le famiglie, dei figli, uomini che facevano un simile lavoro, mi chiedo ancora se si potesse perfino chiamare così, quella loro occupazione. Quell’uomo mi è sempre apparso come un regalo alla gioia dei bambini, una sorta di Babbo Natale primaverile al tempo delle ciliegie e d’estate coi fichi d’India. Un’altra figura ricorrente nei miei pensieri è ‘U Lliò. Il nomignolo non lo saprei tradurre, noi lo abbiamo sempre sentito lanciare il suo grido per le strade, mentre a frotte i bambini che lo seguivano, gli facevano l’eco: ‘U Liòòò, ‘u banchetell, i cuperchie…”questo uomo era piccolo, magro e sempre a piedi, con una coppola sdrucita in testa, vestiva di grigio scuro con un gilet nero ed una giacca lunga con grandi tasche.  Ricavava piccole sedioline o coperchi, da liste sottili di legno, che recuperava dalle cassette usate per trasportare pomodori o frutta. I grandi ci dicevano che veniva da San Severo, pare che fosse uno sbandato della seconda guerra. Allora, prima del ’48, ce ne erano tanti poveretti che, traumatizzati dalla guerra, persone costrette ad uccidere o che avevano visto morire i loro compagni d’arme, uomini che al ritorno dal fronte non aveva più ritrovato nessuno della sua famiglia e neppure la casa, frastornati, si aggiravano per i paesi sbarcando il lunario con quel poco che gli potevano dare le donne, in cambio di un banchetto per i bambini, un coperchio per la sàrola (grande anfora di terracotta che serviva da riserva d’acqua da bere in casa) o la riparazione di un ombrello. Era frequente sentire che in cambio dei suoi lavoretti, ‘u lliò venisse ripagato solo con un pezzo di tarallo dolce.

Il ricordo vivido di una mattinata infantile mi è rimasto così impresso che è proprio di lui che voglio raccontare.
La scena è quella di una normale mattinata di maggio, in una qualsiasi strade del paese, anno 1953/54. Quel mattino, una famiglia amica era emigrata per Torino ed io ero dispiaciuto perché Viviana, la mia amica coetanea era andata via e non l’avrei più rivista. Mia madre e le mie sorelle, avevano accompagnate la vedova e le sue sei figlie femmine alla corriera in piazza.
Un grido sottile si sentì all’angolo di via Siena e la donna fece un cenno con la mano all’omino che gridava “O Lliòòòò, ‘u banch-tell ‘u cuperchijeeee….” Un gruppo di bambini impolverati lo seguivano facendogli l’eco indispettendolo…’U Lliò!”


……………………………………………

La donna si tolse dal collo il filo di cotone blu con il quale stava elaborando un paio di calze per il marito e appoggiò la matassa con i ferri sulla sedia, mentre si alzò stiracchiandosi.
“Aspetta un attimo comare Filena che prendo un ombrello da farlo riparare al Lliò che sta arrivando, se no quello se ne va” entrò in casa zoppicando “ mi si è addormentata la gamba…” disse fregandosi la grossa anca destra.
“Fai..fai con comodo che i ragazzi stanno facendo i compiti, che devo fare...” Teresa era già in casa.
“ Parla comare, parla che ti sento...”
“...No, che dicevo...niente, Ntoniuccio è qui che gioca con Lucio, gli altri sono andati a giocare, non so dove sono, che devo fare...non so cosa gli devo fare da mangiare stasera..., si girò a dare un’occhiata ai ragazzi che giocavano in strada “...qualcosa farò...”
La povera vedova aveva sei bocche da sfamare, il più grande appena di diciassette anni, la più piccola di sei, Tonino era il quinto, ne aveva due di più.
“Dove hai lasciato la bimba?” Teresa stava facendo cenno con la mano al vecchio sbandato, per farlo avvicinare “...dov’è Alba?”
“L’ha presa con se Colomba. Meno male che c’è lei…”
“Si, hai una brava ragazza. La signora Teresina porse un ombrello nero con due raggi spezzati al girovago, che passava per le strade del paese in cerca di qualche lavoretto, in cambio di qualche soldo, ma spesso recuperava solo qualche tarallo, un pezzo di pane, un bicchiere di vino, in cambio delle sue piccole sedioline per i piccoli, coperchi per sarole, riparazioni di ombrelli e delle “scjkafareje “grosse tinozze di terracotta, smaltate di un verde brillante all’interno, nelle quali le donne lavavano i panni.
L'uomo arrivò seguito a distanza da un nugolo di piccoli scapestrati scalzi che lo seguivano per le strade di tutto il paese rifacendo il verso al suo grido “...'u lliò!” gridava lui per avvisare le donne in casa “'u lliò!” gridavano quegli scapestrati.
Ad ogni strada se ne ritirava qualcuno che si era allontanato troppo da casa ma, con lo stesso ritmo, se ne aggiungeva qualcun altro. Il vecchio artigiano ambulante si accovacciò con le spalle al muro della casa, cavò dal suo tascapane a tracolla una sotola, aghi e spago, una pinza e del fil di ferro, tirò fuori da una specie di feretra una manciata di raggi tolti a vecchi ombrelli, ne scovò quelli più simiglianti  alla necessità e cominciò il suo lavoro.
“ Che mi stavi dicendo comare Terè?..”
“Che ti stavo dicendo comare Filé..?
“ Il fatto di quella guagliona che ...”
“Ah sì! 'Mbehh...così si diceva...io poi non so se è tutta verità o cosa...” la donna prese in mano i ferri e la matassa e si riaccomodò sulla sua bassa seggiola “ la sorella minore della moglie di  Pasquale Corvino, quello viveva in nella casa dove abitate voi ora...”
“Si, il nipote di Corvino il vaccaro?
“Quale vaccaro...quello faceva la guardia campestre… aveva una mucca si, ma...macchè vaccaro...”
“Non era quello che abitava quaggiù, nel quartiere della Corea?” Filena indicò con la mano la direzione del quartiere più disgraziato del paese.
“Si proprio quello, quello è il fratello del padre di Maria, ora l’hai accompagnata, non sai che è una Corvino? È la nipote di Pasquale Corvino! Ora...quelli sono emigrati a Torino tanti anni fa...saranno una decina di anni...quasi...hanno lasciato tutto quello che avevano e si sono trasferiti.
La vedova sembrava non seguire bene tutto quel discorso “...E questi qua, cosa c’entrano con le ragazza che dice mio figlio?”
“La sorella piccola della moglie, si chiamava Lucia, stava sempre qui, a casa della sorella sposata. Quella, si racconta, che è morta dentro un pozzo, forse...”
“ Di questa casa?..” la povera vedova era diventata bianca dallo spavento. Nel contrasto col suo vestito nero diventò cadaverico. “ ...è terribile!”
“Nooo, in un pozzo di campagna, intorno al paese, ma io non so dirti quale.”
“ Madonna , mi hai fatto tremare comare Terè...noi facciamo tutto con quell’acqua...per carità di Dio...e allora?..”
“Niente, qui in strada la gente diceva che quella poveretta se n'è dovuta andare perchè rivedeva la sorella in casa.”
“Madonna, che spavento mi hai fatto prendere comare, ma la vedeva perché era abituata ad averla sempre in casa...sarà stata  quello.”
“Noo-o...” la signora Teresa, bassina e di taglia piuttosto forte, si accorse che il vecchio Lliò stava sbirciando sotto la sua gonna di cotonina azzurra che si accorciava parecchio da seduta, aiutata dalle cosce piuttosto grassocce e si alzò.
“Quella la vedeva proprio...”
“Ma tu ci credi a queste cose?..Io no!”
“Comare Filena...L'hanno vista anche altre persone”
“Chi?”
“ Comare Iduccia, quella che abita all'angolo, ad esempio...”
“Ma dai comare Terè...quella è...” evitò di fare inutilmente il nome, ormai s'erano capite “...ma se dicono che quella è sempre ubriaca.”
Teresa scosse la testa in un cenno di disaccordo.
“Non è vero che è sempre ubriaca...chi te lo ha detto che è sempre ubriaca…quella l’ha vista proprio”
L'omino aveva finito il suo lavoro, lo consegnò alla donna che prima di prenderlo in consegna già si lamentava per come lo aveva fatto.
“Ma se non l'hai ancora visto...” reclamò il poveretto “...lo fai per non pagarmi.”
“ No, lo faccio perché so come lavori tu. Fai schifo. La rovini la roba che dici di aggiustare. Ti do più di quando meriti.” tornò fuori con un pezzo di pane, un mezzo tarallo dolce, tre centimetri misurati di salsiccia ed un bicchiere di vino.
“Ma non puoi darmi dei soldi?” chiese il poveretto.
“Soldi...e chi li vede quelli? Ti pago più di quanto do a mio marito, anzi, bevi in fretta che, se quello vede che ti ho dato il suo vino, mi mena pure.”
La vedova fece un gesto di saluto e si ritirò.
Il vecchio ambulante riprese il suo giro col suo chiassoso codazzo di scugnizzi, che si era messo a giocare con gli amici della strada. Ma, come fossero pagati per quello che facevano, riprese a far eco al grido del girovago: “ U Lliò!...'U banch tell!...I cuperchije!…i siggjtelle!….’o Lliò! …”Dopo il ‘48

Gli anni successivi al 1948, furono anni davvero speciali per il nostro bel Paese.
La guerra era finita da qualche anno, la Resistenza pure, ma fino al ’48, l’Italia non si era ancora dotata di una nuova immagine, più vivace, moderna e capace di segnare la distanza necessaria a riprendere vita, per uscire dalla depressione che la guerra aveva portato, in termini di lutti e distruzione. Fino al 1948 le macerie delle case contenevano ancora l’eco delle bombe che le avevano demolite, spesso seppellendo sotto di esse gli occupanti.
Nei campi agricoli c’era ancora qualche mina di quelle disseminate dai tedeschi in ritirata e qualche volta i ragazzi che le trovavano giocando, ci rimettevano le mani le mani, gli occhi, le gambe e qualche volta la vita. Nei nostri paesini agricoli del sud, non c’erano ospedali o centri di pronto intervento, non c’era la protezione civile o satelliti e robot che potessero sminare i campi.
L’unico modo di scoprire una mina era, purtroppo, il capitarci sopra.
Poi risolsero la cosa i pastori abruzzesi che scendevano in Daunia in transumanza. In quei tempi le terre erano coltivate a cicli annuali che concedeva alla terra un riposo; un anno il grano, l’anno dopo la si lasciava in maggesa. Serviva a far sfogare le erbe e a renderle più produttive l’anno dopo. Quando le terre erano maggese, veniva concessa ai pastori il libero pascolo, che loro qualche volta ripagavano con una fruscella (un canestrino di giungo) di ricotta o una forma di pecorino, ma intanto le pecore la concimavano e, soprattutto, la rendevano sicura dalle mine. Difatti quando il gregge aveva pascolato in un campo, non rimaneva un centimetro di terra che non fosse stato pestato. Questo sacrificio di qualche ovino però, non aveva dato la completa certezza di una pulizia totale da quella terribile minaccia ed ogni tanto, fino agli anni ’50 s’era ancora sentita raccontare di qualche disgrazia.
Il ’48 segnò il passaggio storico della Repubblica, della Costituzione, del voto alle donne, della scuola dell’obbligo e di un Paese che stava guarendo le sue ferite e riprendendo il cammino per lo sviluppo industriale della meccanica e delle infrastrutture moderne. Almeno al nord.
Al sud invece, sembrava che il Medio Evo si fosse radicato troppo bene e non avesse fretta di lasciare il passo. Noi non ce ne rendevamo conto, non sapevamo che da altre parti fosse diverso; il mondo allora cominciava e finiva lì, dove vivevi, del resto non se ne sapeva niente. La radio non c’era nelle case, la televisione sarebbe arrivata oltre un decennio dopo, i giornali chi li leggeva? E poi, i giornali hanno sempre detto solo quello che poteva essere detto e quello che ci veniva raccontato al sud, non era certo che in Italia si attuassero due politiche differenti per il Paese: una per il Nord ed una per il Sud. Nel triangolo industriale si finanziava lo sviluppo e l’era moderna, al Sud si finanziavano politiche assistenziali e di mantenimento, affinché non si morisse di inedia (e di fame). Almeno così sarebbe dovuto essere, ma i soldi destinati al meridione, al “Mezzogiorno” erano gestiti comunque da associazioni e organizzazioni  governative del Nord che dragavano i finanziamenti e le tasse del povero meridione, per finanziare e ingrassare il nord.
Una delle cose che mi ha sempre meravigliato della politica di ogni Governo italiano, era che il Ministero dell’Agricoltura, quello della pesca, è sempre stato affidato ad un uomo del nord. L’attività agricola è sempre stata patrimonio del mezzogiorno, ma il ministro è sempre stato veneto o piemontese. Mi sono sempre chiesto il perché. Come il ministro della pesca, oppure i segretari del Partito Comunista o del sindacato di classe: la CGIL. I disoccupati sono al sud, ma i segretari dei partiti o dei sindacati degli operai, dei diseredati sono sempre stati piemontesi, lombardi o toscani. Perché? Quelli non erano anni in cui si sapesse niente dello sfacelo, delle distruzioni, delle ruberie, delle deportazioni ed omicidi di massa, che i sabaudi, con la scusa della “Giovane Italia” e dell’Unità del Paese, inflissero alle regioni del Regno delle Due Sicilie. Ancora oggi non se ne sa molto.  Sotto il dominio piemontese, il sud fu reso schiavo e derubato di ogni sua conoscenza, di ogni suo talento. Comunque, gli anni intorno al ’48, danno la misura anche nella nostra Alta Daunia, che le cose stanno cambiando. L’industrializzazione del nord Italia ha bisogno di braccia per la Fiat, l’Alfa Romeo, e le fabbriche di frigoriferi e lavatrici, televisori e nuove produzioni, per lo sviluppo delle città e al sud si aprono canali di migrazioni interne che sembrano concedere fiato a chi resta e un destino nuovo a chi parte. La vita, intesa come era stata fino ad allora, cede il passo e rompe gli schemi e i legami col passato. Ma ancora si sentono, per le nostre contrade gli ultimi echi di quello che era avvenuto prima del ’48. Ce le porta qualche Cantastorie che continua col suo cartellone a girare i paesi per cantare le gesta eroiche di qualche brigante locale e della loro strenua lotta, portata contro i piemontesi, con pochi sparuti amici e qualche fucile a tromba. I disegni dei cantastorie, ci mostravano uomini con calzari di pelli di agnello avvolti intorno ai piedi e le gambe, tenuti con lacci incrociati e pantaloni alla zuava di velluto, camicie larghe e merlettate e cappellacci a cono con nastrini e la schioppetta in spalla. Piuttosto simile ad un bucolico fauno, Nicola Morra o chiunque altro, non poteva avere nessuno scampo contro i Cialdini e i Bixio o Garibaldi, che la storia ufficiale ci rimandava come eroi. Ma altre figure strane hanno attraversato ancora a lungo le nostre strade nei paesi, figure che hanno popolato la mia infanzia e che io immagino ancora giro per i paesi come fossero eterni. Cristallizzati nella mia mente dalla mia partenza, li immagino ancora mentre attraversano le controre al paese, per vendere la calce bianca della “Procina” (Apricena), o il ghiaccio in blocchi delle grotte del Gargano, venduto a pezzi per rinfrescare l’acqua da bere nelle brocche (giarre o giarrone) di vetro, o per farne le granite, raschiando il blocco di ghiaccio con una pialla da falegname, condite col mosto cotto  o succo di lamponi e more. Risento ancora la voce dell’uomo che a primavera girava le strade di San Paolo con un albero triangolare fatto di canne alle quali erano legati mazzetti di ciliegie ( i ciàmpalun) “. Chiagnite chiagnite vuagliuni, cinq lire ‘u ciampaloneee!...esortava i bambini al pianto per costringere le mamme all’acquisto. Mi sono sempre chiesto come potevano mantenere le famiglie, dei figli, uomini che facevano un simile lavoro, mi chiedo ancora se si potesse perfino chiamare così, quella loro occupazione. Quell’uomo mi è sempre apparso come un regalo alla gioia dei bambini, una sorta di Babbo Natale primaverile al tempo delle ciliegie e d’estate coi fichi d’India. Un’altra figura ricorrente nei miei pensieri è ‘U Lliò. Il nomignolo non lo saprei tradurre, noi lo abbiamo sempre sentito lanciare il suo grido per le strade, mentre a frotte i bambini che lo seguivano, gli facevano l’eco: ‘U Liòòò, ‘u banchetell, i cuperchie…”questo uomo era piccolo, magro e sempre a piedi, con una coppola sdrucita in testa, vestiva di grigio scuro con un gilet nero ed una giacca lunga con grandi tasche.  Ricavava piccole sedioline o coperchi, da liste sottili di legno, che recuperava dalle cassette usate per trasportare pomodori o frutta. I grandi ci dicevano che veniva da San Severo, pare che fosse uno sbandato della seconda guerra. Allora, prima del ’48, ce ne erano tanti poveretti che, traumatizzati dalla guerra, persone costrette ad uccidere o che avevano visto morire i loro compagni d’arme, uomini che al ritorno dal fronte non aveva più ritrovato nessuno della sua famiglia e neppure la casa, frastornati, si aggiravano per i paesi sbarcando il lunario con quel poco che gli potevano dare le donne, in cambio di un banchetto per i bambini, un coperchio per la sàrola (grande anfora di terracotta che serviva da riserva d’acqua da bere in casa) o la riparazione di un ombrello. Era frequente sentire che in cambio dei suoi lavoretti, ‘u lliò venisse ripagato solo con un pezzo di tarallo dolce.

Il ricordo vivido di una mattinata infantile mi è rimasto così impresso che è proprio di lui che voglio raccontare.
La scena è quella di una normale mattinata di maggio, in una qualsiasi strade del paese, anno 1953/54. Quel mattino, una famiglia amica era emigrata per Torino ed io ero dispiaciuto perché Viviana, la mia amica coetanea era andata via e non l’avrei più rivista. Mia madre e le mie sorelle, avevano accompagnate la vedova e le sue sei figlie femmine alla corriera in piazza.
Un grido sottile si sentì all’angolo di via Siena e la donna fece un cenno con la mano all’omino che gridava “O Lliòòòò, ‘u banch-tell ‘u cuperchijeeee….” Un gruppo di bambini impolverati lo seguivano facendogli l’eco indispettendolo…’U Lliò!”


……………………………………………

La donna si tolse dal collo il filo di cotone blu con il quale stava elaborando un paio di calze per il marito e appoggiò la matassa con i ferri sulla sedia, mentre si alzò stiracchiandosi.
“Aspetta un attimo comare Filena che prendo un ombrello da farlo riparare al Lliò che sta arrivando, se no quello se ne va” entrò in casa zoppicando “ mi si è addormentata la gamba…” disse fregandosi la grossa anca destra.
“Fai..fai con comodo che i ragazzi stanno facendo i compiti, che devo fare...” Teresa era già in casa.
“ Parla comare, parla che ti sento...”
“...No, che dicevo...niente, Ntoniuccio è qui che gioca con Lucio, gli altri sono andati a giocare, non so dove sono, che devo fare...non so cosa gli devo fare da mangiare stasera..., si girò a dare un’occhiata ai ragazzi che giocavano in strada “...qualcosa farò...”
La povera vedova aveva sei bocche da sfamare, il più grande appena di diciassette anni, la più piccola di sei, Tonino era il quinto, ne aveva due di più.
“Dove hai lasciato la bimba?” Teresa stava facendo cenno con la mano al vecchio sbandato, per farlo avvicinare “...dov’è Alba?”
“L’ha presa con se Colomba. Meno male che c’è lei…”
“Si, hai una brava ragazza. La signora Teresina porse un ombrello nero con due raggi spezzati al girovago, che passava per le strade del paese in cerca di qualche lavoretto, in cambio di qualche soldo, ma spesso recuperava solo qualche tarallo, un pezzo di pane, un bicchiere di vino, in cambio delle sue piccole sedioline per i piccoli, coperchi per sarole, riparazioni di ombrelli e delle “scjkafareje “grosse tinozze di terracotta, smaltate di un verde brillante all’interno, nelle quali le donne lavavano i panni.
L'uomo arrivò seguito a distanza da un nugolo di piccoli scapestrati scalzi che lo seguivano per le strade di tutto il paese rifacendo il verso al suo grido “...'u lliò!” gridava lui per avvisare le donne in casa “'u lliò!” gridavano quegli scapestrati.
Ad ogni strada se ne ritirava qualcuno che si era allontanato troppo da casa ma, con lo stesso ritmo, se ne aggiungeva qualcun altro. Il vecchio artigiano ambulante si accovacciò con le spalle al muro della casa, cavò dal suo tascapane a tracolla una sotola, aghi e spago, una pinza e del fil di ferro, tirò fuori da una specie di feretra una manciata di raggi tolti a vecchi ombrelli, ne scovò quelli più simiglianti  alla necessità e cominciò il suo lavoro.
“ Che mi stavi dicendo comare Terè?..”
“Che ti stavo dicendo comare Filé..?
“ Il fatto di quella guagliona che ...”
“Ah sì! 'Mbehh...così si diceva...io poi non so se è tutta verità o cosa...” la donna prese in mano i ferri e la matassa e si riaccomodò sulla sua bassa seggiola “ la sorella minore della moglie di  Pasquale Corvino, quello viveva in nella casa dove abitate voi ora...”
“Si, il nipote di Corvino il vaccaro?
“Quale vaccaro...quello faceva la guardia campestre… aveva una mucca si, ma...macchè vaccaro...”
“Non era quello che abitava quaggiù, nel quartiere della Corea?” Filena indicò con la mano la direzione del quartiere più disgraziato del paese.
“Si proprio quello, quello è il fratello del padre di Maria, ora l’hai accompagnata, non sai che è una Corvino? È la nipote di Pasquale Corvino! Ora...quelli sono emigrati a Torino tanti anni fa...saranno una decina di anni...quasi...hanno lasciato tutto quello che avevano e si sono trasferiti.
La vedova sembrava non seguire bene tutto quel discorso “...E questi qua, cosa c’entrano con le ragazza che dice mio figlio?”
“La sorella piccola della moglie, si chiamava Lucia, stava sempre qui, a casa della sorella sposata. Quella, si racconta, che è morta dentro un pozzo, forse...”
“ Di questa casa?..” la povera vedova era diventata bianca dallo spavento. Nel contrasto col suo vestito nero diventò cadaverico. “ ...è terribile!”
“Nooo, in un pozzo di campagna, intorno al paese, ma io non so dirti quale.”
“ Madonna , mi hai fatto tremare comare Terè...noi facciamo tutto con quell’acqua...per carità di Dio...e allora?..”
“Niente, qui in strada la gente diceva che quella poveretta se n'è dovuta andare perchè rivedeva la sorella in casa.”
“Madonna, che spavento mi hai fatto prendere comare, ma la vedeva perché era abituata ad averla sempre in casa...sarà stata  quello.”
“Noo-o...” la signora Teresa, bassina e di taglia piuttosto forte, si accorse che il vecchio Lliò stava sbirciando sotto la sua gonna di cotonina azzurra che si accorciava parecchio da seduta, aiutata dalle cosce piuttosto grassocce e si alzò.
“Quella la vedeva proprio...”
“Ma tu ci credi a queste cose?..Io no!”
“Comare Filena...L'hanno vista anche altre persone”
“Chi?”
“ Comare Iduccia, quella che abita all'angolo, ad esempio...”
“Ma dai comare Terè...quella è...” evitò di fare inutilmente il nome, ormai s'erano capite “...ma se dicono che quella è sempre ubriaca.”
Teresa scosse la testa in un cenno di disaccordo.
“Non è vero che è sempre ubriaca...chi te lo ha detto che è sempre ubriaca…quella l’ha vista proprio”
L'omino aveva finito il suo lavoro, lo consegnò alla donna che prima di prenderlo in consegna già si lamentava per come lo aveva fatto.
“Ma se non l'hai ancora visto...” reclamò il poveretto “...lo fai per non pagarmi.”
“ No, lo faccio perché so come lavori tu. Fai schifo. La rovini la roba che dici di aggiustare. Ti do più di quando meriti.” tornò fuori con un pezzo di pane, un mezzo tarallo dolce, tre centimetri misurati di salsiccia ed un bicchiere di vino.
“Ma non puoi darmi dei soldi?” chiese il poveretto.
“Soldi...e chi li vede quelli? Ti pago più di quanto do a mio marito, anzi, bevi in fretta che, se quello vede che ti ho dato il suo vino, mi mena pure.”
La vedova fece un gesto di saluto e si ritirò.
Il vecchio ambulante riprese il suo giro col suo chiassoso codazzo di scugnizzi, che si era messo a giocare con gli amici della strada. Ma, come fossero pagati per quello che facevano, riprese a far eco al grido del girovago: “ U Lliò!...'U banch tell!...I cuperchije!…i siggjtelle!….’o Lliò! …”



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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.

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