ADAM
La
signora dello spaccio arrotolò il pane in un foglio di carta e glielo porse.
“
Sei Lei e sette bani. Vuoi altro Ghitza?”
“No, grazie. Non ho bisogno d’altro.”
Il giovanotto era un bell’uomo dagli occhi nocciola tristi, i capelli neri
crespi cominciavano ad avere qualche filo argentato nonostante la giovane età.
Infilò il pane in un sacco a spalla, diede una occhiata desolata al negozio che
confermava muta la stessa miseria che si trovava in tutto il villaggio e quasi
senza variazione, in tutta la zona a ovest di Birlad. Il desolato locale dedito
al commercio nel sat ben rappresentava
il resto del villaggio agricolo di quella remota landa. Il pavimento era una
sottile lastra di ghiaia impastata risparmiando il cemento, da tempo ormai
aveva cominciato a sfaldarsi in diversi punti e le pietruzze che si staccavano
appena i piedi dei pochi avventori gli strusciavano sopra, rotolavano sorde
nella stanza. I muri di fango, dipinti di un azzurro carico all’esterno, dentro erano di un bianco
datato, lasciavano traspirare un odore di muffa dovuta all’umidità che saliva
dal terreno sabbioso di quella riva di canale sul quale era stato costruito. I
ripiani di legno contenevano alcune cassette con un po’ di verdura ormai stanca
di aspettare che qualcuno la portasse a casa, un paio di barattoli di vetro vuoti che avrebbero dovuto
contenere caramelle e, appoggiato su uno
sgabello, un cesto con del pesce secco. Di lato a quello che era una sorta di
bancone che divideva i clienti dalla vecchia padrona del negozio, una
vetrinetta frigo non funzionante, semiaperta con le bottiglie di aranciata e
gassose, di fianco alla quale un porta
immetteva sulla seconda stanza adibita a bar, in condizioni ancora peggiori
della prima stanza, nella quale c’erano due vecchi tavolini di ferro tondi a
tre piedi, uno col piano di formica rossa ormai a pezzi e l’altro senza
ripiano. I vetri della finestra sono velati di uno strato di sporco antico che
filtra la luce esterna come una nebbia.
“
Tua madre come sta?”
“Bene.”
“Tua
sorella ha scritto?”
“No.
Non ancora”
“
E’ andata in Italia?”
“No,
in Grecia.”
“E
tu?”
“
Io non vado da nessuna parte, sto qua coi vecchi, non li lascio.”
“
Fai bene…”
L’anziana
donna continuava a fare domande come se facesse fatica, il ritmo indolente,
come non avesse interesse alcuno a sapere le risposte, il giovane le rispondeva
con la stessa passione, conscio che quello era l’unico centro d’incontro e di
scambio in tutto il sat, dove tutti facevano domande per sapere le cose degli
altri. Era normale.
“e…lei
è partita?” la domanda era posta con cura, come a non voler fare male.
“Si.
Se n’è andata anche lei…”
“
In Grecia?”
“No,in
Italia.” il giovane abbassò gli occhi e uscì dal negozio senza salutare. Non
era il suo modo, ma la vecchia lo conosceva da quando era nato e sapeva che
quello era un argomento che Ghitza non avrebbe voluto discutere.
Lucica, la sua ragazza, era stata l’ultima
giovane donna del piccolo villaggio a partire.
Nel
sat ormai non erano rimasti altri che i vecchi e molti bambini, alcuni dei
quali lasciati da soli dalle madri che erano andate via a cercare un lavoro
all’estero.
I
ragazzini sopravvivevano come potevano coi padri, con i nonni, ma molti non
avevano più nessun parente a cui appellarsi e stavano tutti il giorno per la
strada a giocare e a cercare qualcosa da mettere in pancia. Guardandoli
scorazzare rumorosamente nelle nuvole di polvere gialla che impollinava l’aria
ad ogni refolo di vento, veniva una stretta al cuore.
Non
sembrava esserci differenza tra i maschi e le femmine, vestivano malamente roba
che era più vicino agli stracci che al ricordo di abiti, i poveri i vestiti
erano molto datati e non più lavati. Tra loro c’era Raluca, l’anno prima aveva
vinto l’olimpiade di matematica nella regione di Vaslui. Poi la madre era
partita per l’Italia ed il padre continuava a trasformare tutti i soldi che la
moglie gli inviava in birra e sigarette al piccolo spaccio, quando tornava a
casa era sempre ubriaco e maltrattava la bambina che ormai non frequentava più
scuola e passava tutto il suo tempo con gli altri bambini in giro. La si notava
ormai solo per la figura più alta degli altri, perché per la magrezza era
simile agli altri bambini. I capelli ispidi, tagliati corti, dalla stessa mano
che doveva aver sfoltito le capigliature di tutto il gruppo e, chiunque era
stato, doveva aver fatto una bella fatica a trattenere i ragazzi, mentre
cercava di dargli un aspetto più ordinato. Il risultato sembrava deprimente
comunque, come se avesse piantato un cespuglio in testa ad ogni componente del
gruppo. Ai ragazzi non importava nulla
del loro aspetto e neppure agli altri abitanti del piccolo villaggio: un
centinaio di piccole case coi muri di terra e i tetti di paglia o di lamiera
arrugginita, i recinti di legno che delimitavano i giardini erano ormai quasi
del tutto marci e molti restavano aggrappati solo ad un legno inchiodato di
traverso nella parte superiore. Gli orti, senza manutenzione erano infestati da
malerbe che sembravano trarre uno strano vigore da quell’abbandono. Le poche
case in cui c’era ancora qualcuno in grado di zappare e seminare sembravano a
confronto, delle vere e proprie ville. La diaspora delle donne aveva reso il
luogo asciutto e silenzioso, senza quei fiori e colori che solo loro sanno far
vivere anche nei posti più desolati rendendoli meno tali. Come se: l’apertura
delle frontiere, dopo la caduta del Muro e dell’Impero Sovietico, avesse fatto
scoprire, la povertà fino ad allora nascosta, per la mancanza di uno specchio
nel quale guardarsi. L’opulenza con la quale l’Europa si era rivelata all’est,
aveva rivelato le carenze di un mondo in cui, dopo quarant’anni di socialismo
reale, non aveva niente nei negozi e meno nelle case. La partenza delle femmine
dai loro villaggi, aveva modificato l’ambiente, gli uomini non avevano più badato ai fronzoli nelle case e, dopo che
le tendine alle finestre erano diventate sporche, le avevano semplicemente
eliminate, insieme ai gingilli, le bambole
e i pochi soprammobili. Per la strada centrale di Tomeşti erano
scomparse le figure femminili. Dalle vigne e dalle campagne non arrivavano più
i loro canti, perfino in chiesa, la scomparsa delle donne aveva modificato la
messa che ora veniva recitata solo dal giovane prete ortodosso al quale
rispondeva il silenzio dei pochi uomini che ancora seguivano la funzione
domenicale. Da due anni non si celebrava più un matrimonio e durante i funerali
si stava perdendo la tradizione della Pomana:
il pasto che la famiglia del defunto offriva alla comunità in sua memoria. La
lunga strada centrale era completamente deserta, solo quel nugolo di ragazzi
abbandonati le dava vita coi loro giochi e scaramucce. Mentre Ghitza lasciava
il negozio, vide il carro di Mihai,il cugino che stava sopraggiungendo da Hălăresti, dove era stato
a trovare la sorella della madre, la zia Geta, nella vana speranza che questa
gli offrisse un bicchiere di vino. Anche la visita che ora era venuto a fare al
cugino e alla vecchia nonna, celava quell’intento.
“
Hei Ghitza, dove te ne vai?”
« Alla
ţara, porto il pane a Tata alla cascina. »
“
Vai dal vecchio… Torni subito?” il
cugino faceva cenno di no con la testa ”Ma è domenica..”
“
Si? Ti sembra che sia domenica? Dove la vedi tu la domenica?..” il giovane
indicò la strada deserta in sù e in giù. “ …ti sembra che se vado in campagna
mi perdo qualcosa?”
“…No…questo
no. Qui non c’è rimasto più nessuno…anche a Perieni e a Poliţeni non va
meglio.”
“
Rodica ti ha lasciato?”
“
E’ partita anche lei…” Mihai aveva la barba di diversi giorni e gli indumenti
facevano capire che aveva dormito vestito da diverso tempo, il cugino calcolò
che la cosa doveva durare dalla partenza della sua giovane compagna.
“
…non ci sta rimanendo più nessuno…” l’uomo continuava a parlare come se con la
mente seguisse una traccia invisibile.
”Da
quando Viorica è tornata la prima volta dall’Italia, è stata come una
emorragia…le donne sono partite tutte, qui siamo rimasti solo gli sfigati:
uomini e bambini…”
“Già
le uniche donne rimaste sono le vecchie mamme, le nonne…”
“
Solo pochi anni fa le strade dei nostri sat erano piene di gonne e di colori,
ora i filari di aguzí sono le uniche ombre sulla strada…”
“Già…”
Ghitza alzò lo sguardo come a controllare quello che diceva il cugino, scrutò
in lontananza i filari di gelsi e ripetè “…Già…abbiamo gelsi dappertutto in
Romania…” poi ripartì senza neppure salutare il cugino perditempo.
“
Ma tu Mihai, perché non te ne vai? Perché non parti anche tu?”
“Non
ho nessuna voglia di andare sotto un tedesco, un italiano o altro a lavorare
io…”
“
Ah, ne ero certo, soprattutto di andare a lavorare, vero? Sotto chiunque.”
Mihai
non sembrò colpito, era abituato ai pungoli del cugino, ma anche Ghitza non
aveva voglia di perdere fiato e tempo. Tagliò su per la collina di argilla e si
diresse verso la cima del pendio. Dall’altro lato di quel grosso melone di
creta, nella vallata, c’èra il recinto con le pecore ed il suo vecchio. La
Stina, la cascina: Una piccola casetta di terra di due metri quadri, dei
recinti di rami di salici e gaggìa ed alcune tettoie di canne, erano tutta la
proprietà della famiglia. Fino ad allora tutto questo era stata la risorsa con
la quale l’anziano Gheorghe e sua moglie Roxanda avevano dato da mangiare e
fatto grandi dieci figli. Ora questa loro proprietà era diventata una palla al
piede di tre giovani maschi legati alla sopravvivenza del gregge di ovini, a
una mucca e il suo vitello e ad una selva di faraone e pollame.
Mihai
guardò in silenzio il cugino allontanarsi su per la collina, fece girare il
cavallo per fermare il suo carro, sotto il grande tiglio dal quale volava un
velo impalpabile di polline che riempiva le narici con un profumo intenso ed
entrò nel bar alla ricerca di qualcuno a cui succhiare un bicchiere di
qualsiasi liquido.
Il
ritorno di Viorica aveva cambiato il loro mondo e forse lo aveva ucciso per
sempre.
La
donna, una professoressa di romeno, era stata la prima a partire dal paese. Era
una bella donna, aveva vent’otto anni, e sapeva l’inglese. Il giorno dopo la
caduta del muro di Berlino, saltò sul primo autobus per il confino con
l’Ungheria e poi, attraversò l’Austria e
arrivò in Italia.
Per
alcuni anni in paese non ebbero più sue notizie, nessuno sapeva dove fosse
finita, poi, nel periodo di Pasqua del 2006, Viorica tornò nel piccolo sat sperduto
in quella piega di argilla che finiva nel barrage di Pogana.
Per
alcuni giorni si sentì solo la musica italiana ad alto volume provenire dalla
casa azzurra della famiglia della donna, poco distante dal piccolo bar dove gli
uomini si ritrovavano in maggior numero ora, nella speranza che il padre o i
fratelli di Viorica si facessero vivi a pagare da bere poi, la domenica, lei e
tutta la sua famiglia parteciparono alla messa in chiesa e tutto il villaggio
potè prendere nota dei mutamenti avvenuti. Lei camminava davanti a tutti al
braccio del fratello maggiore, un tailleur di foggia e taglio pregiato metteva
la sua figura in risalto e la faceva sembrare ritagliata da una di quelle
rivista di moda europea, i tacchi a spillo la slanciavano e la facevano apparire
come sospesa al di sopra delle altre donne che, reminghe, non osavano alzarle
lo sguardo addosso e abbassavano gli occhi al suo passare, le calze di seta
luccicavano al sole su un paio di gambe perfettamente depilate. Gli uomini del
villaggio sembravano incantati a guardare quel pezzo di corpo tra il ginocchio
ed il tallone. Tutta la famiglia era vestita di abiti italiani e camminavano
come se non avessero voluto appoggiare le scarpe lucide sulla terra rossiccia.
Forse quella fù la prima volta che Viorica si accorse di odiare la terra che
l’aveva vista nascere. Un vociare sommesso aveva accompagnato tutta la funzione
religiosa e seguito, come un eco persistente, la famiglia nella passeggiata.
Sulle sponde delle cunette lungo la strada, stavano sedute le anziane donne
delle case che la costeggiavano, mentre le ragazze passeggiavano su e giù
attirando i giovanotti come lucci all’amo. Frotte di ragazzini scalzi si
rincorrevano saltando i canali e dribblando i tronchi dei gelsi che facevano un
merletto di verde e fiori bianchi alla strada. Benone, uno dei fratelli di
Ghitza, stava rientrando coi cavalli dall’abbeveratoio che era al centro del
villaggio, in un incrocio che voleva essere la piazza del piccolo borgo, si
fermò a salutare col cenno della mano i fratelli di Viorica, ma non osò
salutare la donna, poi riprese la via di casa con un sorriso. Dopo aver goduto
per un po’ dell’ammirazione suscitata negli altri, la professoressa e la sua
famiglia cominciarono a patire quella sorta di vuoto riverente che aveva come
costruito una campana trasparente ed isolante tra loro e gli altri della
piccola comunità, così la giovane fece un cenno di invito ad avvicinarsi alle sue vecchie amiche. Ben presto si formò
un crocchio di giovani donne che mano a mano si ingrossava diventava più
chiassoso e allegro e che finì per circondarla. Cento domande sul suo nuovo
paese, sul lavoro sugli uomini italiani e che lavoro facesse e quanto
guadagnava al mese.
“Ottocento
euro.”
“Ottocento
euro quanti lei sono?” una delle sue amica le chiese.
“
trenadue milioni di lei, più o meno”
“Che
e é? Trentadue che?!”
“trenta-due-milioni
e ro-tti…”
La
risposta aveva gelato tutte in un silenzio incredulo, una somma così non
l’aveva mai sentita nominare nessuno nel sat. Neppure se si mettevano insieme i
soldi di tutti gli abitanti del villaggio, si sarebbe potuto raccogliere quel
tesoro e forse era più di tutto il bilancio comunale di Pogana, il capoluogo.
In
quel momento le parole di una canzone italiana si sparse nel gruppo ammutolito.
La musica pareva provenire dall’interno della pancia della donna.
Lei
infilò la mano nella tasca del tailleur e tirò fuori un aggeggio colorato che
si portò all’orecchio.
“Viorica
hai un cellular...?
Qualcuno
aveva visto quel marchingegno moderno in televisione a Birlad. Da quella specie
di radiolina colorata veniva fuori una voce che parlava in italiano, non che ci
fossero chi poteva capirlo e perciò la donna lasciò il vivavoce inserito, in
modo che le sue amiche potessero ascoltare il suo italiano, ancora stentato in
Italia, ma qui sembrava una lingua di cui lei aveva padronanza assoluta. La
donna ostentava anche una certa arte nel tenere il suo compagno legato ad un
filo in cui lei governava il giuoco, mentre in cuor suo pregava che lui gli
tenesse l’altro capo senza farle fare brutte figure con una scenata, ma presto
la paura lasciò il posto ad una ilare rilassatezza, l’uomo sembrava trattarla
con una gentilezza reverenziale. La scena era tutta dell’ex professoressa.
“
Pronto? Ciao sei tu Carlo? Eh…che vuoi ero in chiesa e il cellulare l’ho dovuto
spegnere, scusami”
la
donna girò le spalle al gruppo di ragazze e bambine e si mise a fare su e giù
per la strada esibendo un italiano che a tutti sembrò perfetto. Qualcuno
ripeteva ogni tanto una parola di quello che diceva, era come se si dissetassero ogni suono che
usciva dalle sue labbra, mentre tutte muovevano le loro mute nell’imitazione
delle sue , come per imparare.
La
sua telefonata con l’Italia in un villaggio in cui non era mai arrivata la
linea telefonica, la fece sembrare di un altro mondo. Quando poi qualcuno capì
che dall’altra parte c’era un uomo italiano, sembrò scatenarsi il finimondo.
Lei diventò la star di quel lembo remoto di un altro mondo, il nugolo di
ragazze continuava ad andare su e giù dietro al suo ancheggiare esibito con
maestria, la gente pensò che avesse fatto un corso speciale per imparare ad
andare avanti e indietro per la strada. Le anziane temettero che sì, la
professoressa aveva imparato bene ad andare su e giù per una via. Un gruppo di nonne
sedute sul ponticello di terra della prima casa commentava con lazzi sdentati
l’ancheggiare elegante della donna. In
quel momento, mentre Viorica proponeva una virata a sinistra da attrice, un
tacco s’infilò in una zolla di verde e lei cadde nella cunetta laterale. Il
cellulare le era volato in quel rivolo sporco di acqua che stagnava in pozze
limacciose e maleodoranti, restò un poco acceso poi si rabbuiò come offeso,
affogando la voce dell’italiano che si spense con l’apparecchio. La poveretta era seduta sull’erba con il
tacco rotto in mano, un paio di scarpe italiane da duecento euro,aveva rovinata
il suo trionfo. Con quella somma avrebbero potuto asfaltarla quella strada nel
suo sat, la donna si rialzò quasi piangendo, si tolse le scarpe e, a piedi
nudi, come da bambina, tornò a casa. Sul ponticello di legno, davanti alla sua
casa, la vecchia Mariuara, il naso adunco e la faccia da strega sentenziò “
Dumneseu exist!” Dio c’è!
Il
rientro a casa di Viorica era stato seguito dall’ilarità generale, quasi che un atto di Divina giustizia avesse
riequilibrata la giornata del sat, con la grande soddisfazione delle anziane,
manifestata dalla vecchia arpìa. Questo fatto però non impedì che dalla sera
stessa, una processione di donne, a gruppi o da sole, si recarono a casa della
professoressa ad implorare un aiuto per uscire da quella situazione: un lavoro
qualsiasi, un indirizzo, un filo che le portasse ad avere nella testa una
speranza, un progetto. Le più ardite osarono l’impensabile:un uomo, un
matrimonio. Offrivano se stesse alla possibilità del diritto ad una vita. Da
quello che avevano potuto vedere, la vita al sat per loro non sarebbe più stata
possibile. Alla partenza di Viorica, sul carro della famiglia salirono Melena e
Oana, due delle più belle ragazze del villaggio. L’italiano aveva un paio di
amici divorziati da che gli chiedevano delle amiche della moglie. Da quel
momento era stato un travaso continuo, le donne parevano incontrare meno
difficoltà a trovare un lavoro, un aiuto o un uomo e spesso, dopo qualche
lettera e un po’ di denaro, dimenticavano la famiglia di provenienza, il loro
povero sat. Qualche volta anche i mariti ed i figli. Due anni dopo era partita
anche Lucica, l’ultima ragazza in età di matrimonio rimasta. Ora la signorina
del paese più grande aveva tredici anni e non vedeva l’ora di partire per la
Spagna dove si era trasferita la madre da due anni.
Ghitza era arrivato sulla cima della collina, si girò a
guardare la valle verso il piccolo centro. Le case colorate con la calce e
verderame si mimetizzavano quasi del tutto nelle fronde dei gelsi e delle
vigne. Nel silenzio totale di quel dorso
di argilla, guardò gli squarci provocati dalle falde acquifere dove le polle
emergevano, facendo scendere a valle grosse fette di pance d’argilla molli
d’acqua, nelle quali si aprivano ferite
rigogliose di vegetazione verde smeraldo nel nocciola del terreno. Un suono
stridulo lo fece voltare, sembrava una anima che chiedeva aiuto. Una
ciocîrlije, un’allodola, stava alzandosi a picco fino a diventare un puntino
quasi invisibile in cielo, quando scomparsa nel vertice accecante, lasciava
esplodere il suo grido disperato, per
poi rituffarsi verso il terreno in una picchiata suicida. Un brivido gli
fulminò la schiena, l’uccello scartò fulmineo a mezzo metro dal terreno
ripartendo per disegnare un invisibile obelisco sul quale stava trascrittala
sua storia di disperazione e tornava giù, in un’onda sinusoidale che disegnava
nell’aria in un ripetersi di disperate grida e tuffi. Si ricordò della leggenda
sull’allodola che la diceva disperata per aver perso i piccoli in un campo
primaverile arato e si tuffasse contro il mondo nel tentativo disperato di
uccidersi, ma che all’ultimo istante trovava la forza di non offendere il
Signore per avergli donato la vita. Ghitza riprese fiato con un sospiro e
cominciò a discendere verso l’ovile. Da lontano il latrare festoso dei cani gli
si fece incontro sempre più prossimo. Spaventati dai cani, una famigliola di
popîndâu: piccoli roditori dal pelo
nocciola, si dileguarono veloci nelle tane tra l’erba. Il giovane sorrise a
quegli ignari compagni territoriali. Il vecchio padre lo stava aspettando
presso il mucchio del fieno, le mani intrecciate sul grosso nodo in cima al
bastone, sulle quali appoggiava il mento ispido ed ossuto. L’anno precedente,
in piena estate gli era morto il figlio più piccolo, il legame più forte che
aveva tra i suoi dieci figli era stato
tragicamente interrotto. Il minore dei
figli, dagli occhi alabastri, se n’era andato a soli vent’otto anni con una
stupida broncopolmonite non curata. La morte del fratello aveva legato Ghitza
ad una situazione da cui non avrebbe mai più potuto uscire: lui era il
collegamento tra il vecchio Tata, il padre ed il gregge alla ţara e la madre e
la casa con l’orto al sat. Tutti loro dipendevano da quel suo andare avanti ed
indietro , dalla campagna al villaggio e lui non si sarebbe sottratto a quel
suo dovere. Anche se prima che il fratello Vasile morisse, lui aveva lasciato
il paese per andare a lavorare a Braşov, lontano da casa. In quel periodo i
suoi rapporti col vecchio padre erano peggiorati molto e l’anziano non gli
parlava più quando lui tornava a casa, ed anche la madre non voleva che lui si
allontanasse da loro e Ghitza era tornato, anche perché al villaggio c’era
Lucia, una sua compagna di scuola che la domenica amava passeggiare e parlare
con lui dei progetti futuri. Lui era tornato ed ora, appena sei mesi dopo,
Lucica era partita per l’Italia, l’agenzia matrimoniale aperta in un paese
vicino Torino da Viorica aveva dissanguato il sat di tutte le donne, perfino
molte di quelle che convivevano qui, avevano lasciato i loro uomini per potersi
sistemare in Italia. L’attrattiva di una vita più agiata e di poter esibire un
marito di quel paese, così ammirato in tutta la Romania, aveva estirpato dalle
proprie radici donne già sposate e ragazze ancora troppo giovani per un
matrimonio, alcune erano tornate dopo un po’ con un figlio piccolo e con una
strana voglia di chiudersi in casa e non parlare più con nessuno. Ghitza pensò
a Lucia e gli sembrò che dentro avesse un fuoco che gli ardeva, la sua anima
continuava a salire velocemente verso l’alto e dopo un urlo muto che avrebbe
voluto scoppiargli dentro, si gettava in
picchiata sulla scìa della ciocorlije, ma dopo qualche passaggio fatto bene, il
suo corpo stanco, sembrava schiantarsi dall’alto di quell’ideale obelisco,
direttamente sulla terra rossiccia.
Passò lo zaino al padre accennando appena un saluto, buttò
la giacca sulla paglia del suo giaciglio notturno e si diresse al recinto della
mucca che stava allattando la sua vitellina:Lucica.
Nessun commento:
Posta un commento
Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.