Capitolo
primo
La
sorte comune
Qualche
giorno dopo la festa di Sant'Antonio da Padova, il 13 giugno del
1957, la famiglia Marasciuti, orfana del
capofamiglia mancato da pochi mesi, si
stava preparando a lasciare
il luogo in cui erano nati.
Gli
ultimi giorni della loro vita
nel paese natio, li stavano vivendo in una incredibile
agitazione. Tutti sembravano presi da una misteriosa, quanto
affannosa, eccitazione.
La
vedova era stanca già dal mattino. La poverina palesava le sue notti
insonni, tante dovevano essere le preoccupazioni che la opprimevano.
Le figlie invece, sembravano già essere con la mente fuori dal
paese. Da qualche tempo avevano cominciato a parlare tra di loro,
come se stessero vivendo in un’altra dimensione. Si comportavano
come se quello che li circondava non fosse il loro palcoscenico, la
loro vera vita, ma un scomparto del treno che le stava per portare
via.
Pareva
quasi che facessero allenamento a vivere un’altra interpretazione
di sé stesse, come se stessero provando dei costumi teatrali e
facendo delle prove sul vecchio palco, dove, fino ad allora, si era
svolta la loro recita. La scenografia era ancora quella abituale del
vecchio spettacolo, ma i testi che recitavano erano stati scritti per
il prossimo, ancora da definire, da ambientare. In un posto non
ancora conosciuto, indefinito, ma sicuramente diverso dalle stoppie
secche, delle macchie verdi scuro degli uliveti e quelle verde
brillante delle vigne dei colli .
Anche
il loro parlare in dialetto si andava farcendo di parole di un
incerto italiano che, incespicando, spesso rendeva comiche le loro
estemporanee esibizioni. Forse questo era quello che facevano tutti
coloro che sapevano di dover affrontare nuove realtà, eccitanti
esperienze e nuovi e sconosciuti pericoli. Si allenavano.
Ora
che stavano per uscire da una scena, collaudavano i loro
strumenti,sviluppavano muscoli mentali, per affrontare la prossima
avventura. Una sorta di rodaggio, di ripetizione dei ruoli per
entrare in scena più preparate, correggendo e limando gli errori di
una lingua imparata più sui romanzi e giornali femminili che non a
scuola.
“Io,
quando saremo a Torino…” diceva Clelia sottovoce alle sorelle
minori “ voglio comprarmi le scarpe con il tacco…” e quelle
sgranavano gli occhi e la bocca come se la stessero sentendo
bestemmiare.
“Non
ci sapresti neppure camminare sui tacchi a spillo...già ti vedo come
cadi…” la canzonava Assunta, la seconda delle figlie femmine.
”Aspetta
tu che mamma ti permetta di comprare le scarpe col tacco a
spillo...siamo ancora a lutto...” E poi non riuscendo a trattenere
la curiosità che malcelava il suo pensiero a riguardo ”.. con
quali soldi le compreresti?”
“Mica
ho detto che voglio i tacchi a spillo, non voglio mica sembrare una
di quelle io…un po’ di tacco però sì lo voglio...” e faceva
con l’indice ed il pollice una distanza di due-tre centimetri “
...i soldi li avremo, andremo a lavorare…Non voglio mica andare in
giro per Torino, come una contadina pugliese...che si vede da lontano
in mezzo agli altri…”
“Ma
perché tu a Torino devi andare in giro in mezzo agli altri?”
Lucrezia si alleò con la sorella, sembravano coalizzate per demolire
le belle fantasticherie della maggiore. La quale non diceva quelle
cose solo per se anzi, il suo scopo era far sognare e distrarre le
sorelle minori, infondendole fiducia nel loro futuro . Coltivando
progetti.
“...E
che, devo stare chiusa in casa? Devo fare la Cenerentola? Leonardo ha
detto che Torino è una grande città, è stata la capitale d’Italia
fino a poco tempo fa, c’era il Re, la Regina. Lì la gente è
ancora abituata alle cose di corte. Chissà quant’è bella.!..”
sospirò.
“Ma
quale capitale d’Italia….dove l’hai letto, non è Roma la
capitale d’Italia?”
“Si,
si “ la zittì Assunta mentre la maggiore fulminava Lucrezia con lo
sguardo. ”... lo era prima...molto tempo fa.”
“Ahhhh...e
io che ne sapevo...io credevo…e lasciami che mi fai male...”
Clelia
sembrava essere quella con più aspettative da questa partenza, aveva
dei sogni e si aspettava di poterli realizzare. Aveva già superato
il senso di amaro che sentiva in bocca al pensiero di lasciare il
fidanzato del paese. Lo aveva accettato come un prezzo da pagare
all’emancipazione della sua famiglia. In realtà era anche
intimamente contenta di poter avere una scusa per mollare il suo
bracciante agricolo dalle mani nodose e dai modi rudi. C’era,
nell’esternare i suoi progetti, una leggerezza di pensieri. Lei,
più adulta delle altre, si rendeva conto di quel fardello di debiti,
di povertà che le opprimeva, togliendo a lei e alle sue sorelle la
possibilità di coltivare dei sogni.
Assunta invece, coltivava i suoi pensieri in silenzio, il suo
desiderio era di riuscire a trovare un posto da commessa in un
negozio di moda, ma, in realtà, aveva il terrore di andare a finire
alla catena di montaggio della Fiat. Odiava pensarsi sporca di grasso
e rintronata dal rumore, si sentiva male solo a pensarlo.
“Io
farò la commessa!” affermava con decisione, mentre dentro di sé
pregava.
Per le
più piccole l’emigrazione era solo l’obbligo di andare dove
andava la Madre e a ritrovare il fratello maggiore. Anche loro
vivevano quella situazione con ansia, sentendola pregna di cose
nuove, ma non sapevano immaginare in nessun modo il loro futuro. Si
sentivano sicure solo per il fatto che avrebbero raggiunto Leonardo,
il quale aveva assunto il ruolo di padre dopo la morte del genitore.
Lui era l’unico uomo della loro famiglia adesso e non si stava
sottraendo alle responsabilità che gli erano cadute sulle giovani
spalle.
Nelle
famiglie meridionali, il primogenito e la prima figlia femmina,
venivano chiamati dai minori con dei nomignoli (Tutuccio il maschio e
Sciuscella la femmina). Questi nomi erano il segno di rispetto dei
piccoli verso i più grandi, ma legavano i più grandi a dei doveri
verso i piccoli, in sostituzione dei genitori.
Era
normale che un ragazzo di diciotto-vent’anni fosse un uomo capace
di caricarsi sulle spalle una famiglia. Il mondo era uscito da poco
da due guerre mondiali e da vent’anni di nazismo e fascismo che
avevano tolto i mariti e i fratelli dalle famiglie lasciandosi alle
spalle, una scia di vedove ed orfane. Perciò le sorelle di Leonardo
sapevano che avrebbero avuto la sua protezione per sempre.
Lucrezia
sperava solo di allontanare le sue gambe ancora ferite, dalle stoppie
del grano appena trebbiato:” Mi basta sapere che non dovrò
ammucchiare i covoni il prossimo anno, non ne posso più di queste
calze spesse per proteggere le gambe dalla paglia secca e dalle
spine”.
“Anch’io...”
le fece eco Assunta “...brava! L’anno prossimo non voglio
assolutamente più lavorare vicino ad una trebbia”.
“E
chi lo vuole fare?” Approvò Clelia. “ Tutta quella polvere…”
“Credevo
che ti piacesse...eri sempre così allegra…” la stuzzicò ancora
Lucrezia.
“Ehhh…”
sospirò la giovane “...era l’unico momento che potevo stare in
mezzo ai ragazzi!” Clelia strizzò l’occhio alla seconda che le
rimandò complice un sorriso.
Le
ragazze sembravano recitare i loro timidi sogni o forse, stavano
cauterizzando la nuova ferita che si stava aprendo nella loro anima:
quella di dover lasciare il loro paese, i giovani fidanzatini, i loro
parenti ed amici, le loro pur povere certezze.
La
loro vita, segnata già drammaticamente, dalla precoce dipartita del
padre, ora le costringeva ad una prova incredibile per una povera
vedova con tante femmine intorno. Contemporaneamente però la
poveretta era come sollevata al pensiero che in tutta quella
incertezza, trovava che andare via dal paese, equivalesse ad aprire
le finestre per fare entrare aria più respirabile nei polmoni.
Con un
sospiro di sollievo pensava che non avrebbe più incontrato, più
volte nella stessa giornata, i suoi creditori di fronte si quali
abbassare la testa. Non sarebbe più stata costretta a fare la spesa
da Palmina senza soldi.
La
commerciante, una florida signora sempre allegra con una grossa
macchia viola sulla tempia destra, le ripeteva ogni volta che il suo
debito segnato sul quaderno del negozio, era di gran lunga il più
corposo di tutta la sua clientela e che lei non poteva farle credito
all’infinito; non vedeva come avrebbe potuto pagarlo.
La
vedova si aggrappava alle rimesse del figlio lontano e alla pietà
della commerciante, doveva assolutamente dar da mangiare alle
bambine.
Alla
fine, Palmina cedeva ogni volta con un sorriso, ma sul conto ci
metteva una piccola aggiunta che aveva sulla sua clientela, lo stesso
effetto di chi curava una scottatura buttandoci sopra dell’acqua
bollente.
Le
povere donne del quartiere dicevano che il Signore l’aveva segnata
con quel grosso angioma sulla tempia, per segnalare alla gente
l’avidità della donna. Qualcuna di loro asseriva che si accorgeva
di quando Palmina rubasse dal fatto che la macchia diventava più
vivida.
Le
ragazze Marasciuti intanto avevano preso da qualche giorno a
camminare lungo le strade di terra del paese, come se fossero già
sui pavimenti marmorei, immaginati in piazza Castello, e le loro
compaesane cominciavano a guardarle come forestiere, ammiccando al
loro passaggio.
Anche
il popolo del piccolo villaggio rurale si preparava al distacco
esibendo una indifferenza intrisa di invidia e sibilline disgrazie
che presagivano la perdita di chissà quale virtù per le giovani
orfane Marasciuti.
Da
quindici giorni, la famiglia stava vivendo in
coabitazione con i Fortinterra. L’altra
famiglia era simile alla loro, non solo per
la perdita del capofamiglia, quasi
contemporanea alla morte del padre, ma anche
per l'età della vedova e dei figli: cinque femmine ed un maschio
loro, mentre tre femmine e tre maschi si stringevano alle vesti nere
dell’altra vedova.
La
prima aveva aspettato la
trebbiatura del raccolto per avere un po' di
soldi - le servivano per
poter liquidare almeno una parte dei debiti del funerale e
pagarsi le spese del trasferimento - ed ora, venduto il
frumento e pattati una parte degli impicci, erano
quasi pronti.
La
seconda pareva rassegnata al suo destino: Non aveva ancora
quarant’anni, ed era rimasta vedova da tre. Sei figli piccoli,
quello più grande aveva solo diciassette anni e nessuna intenzione
di imitare il primogenito dei Marasciuti.
A lui
non gli riusciva di assumere un ruolo responsabile nei confronti dei
fratelli più piccoli.
Faceva
quello che riusciva a fare, ma non era un buon tutuccio Alberto
Fortinterra. Aveva voglia di vivere la sua giovane età
spensieratamente. Il ragazzo aveva un carattere difficile da
contenere e la povera madre non vedeva nessuna possibilità di poter
affidarsi a quel figlio. Non era quella la sua via d’uscita.
Quando
la vedova Maria Torvino ricordava ai figli del padre morto, Leonardo
abbassava la testa e faceva quanto fosse necessario per tenere
tranquilla la madre. Quando lo faceva Filena il risultato prendeva
una piega completamente diversa. Era come se il figlio si ricordasse
che, ormai, non aveva più nessuno da temere.
Il
raccolto della trebbiatura dei Fortinterra bastava appena a
pareggiare il conto di famiglia alla bottega di Palmina e poi, loro
non avevano parenti emigrati che potessero tendergli una mano per
tirarli fuori da quell’imbuto di disperazione, dove erano
precipitati dopo la morte di Salvatore dettoTurillo Marasciuti.
Capitolo
secondo
Una
vita senza destino
La
vedova Marasciuti e la figlia
Clelia passavano le giornate fuori casa
facendo il giro dei creditori,
nella ricerca di una soluzione
delle pendenze e, dove non era possibile, firmavano cambiali
promettendo che appena fossero giunte a Torino avrebbero pagato gli
impegni.
Leonardo,
era partito per il
Piemonte, subito dopo il funerale del padre,
a cercare un lavoro e una casa. Lo zio Pasquale lo avevano
accolto ed aiutato a sistemarsi, ed ora avevano trovato anche un
alloggio di ringhiera per la famiglia.
Senza
l’aiuto degli zii Torvino sarebbe stata assai dura per il giovane.
I meridionali migranti a quel tempo, erano ritenuti clandestini senza
permesso di soggiorno. L’Italia non era ancora il paese di tutti
gli italiani.
Per
questo era molto importante avere dei parenti presso i quali poter
richiedere la residenza ed un contratto di lavoro. Poi diventava
tutto più semplice. Il lavoro ce n’era in abbondanza. Ogni vetrina
di negozio, fabbriche o cantieri esponeva il cartello cercasi operai
o commesse.
La
seconda metà di giugno era particolarmente calda quell’anno.
Durante il giorno si sentiva, in tutto il paese, il fischio delle
cinghie delle trebbie, che slittavano sulle grosse ruote di metallo
dei rumorosi trattori Landini a testata fredda. Le trebbie ruggivano
mentre inghiottivano i covoni ed una nuvola di polvere giallognola,
si alzava al di sopra del rangrivello che ventilava la paglia.
La
polvere veleggiava nel cielo azzurro, posandosi poi dappertutto e
tormentando gli uomini, le donne e i ragazzi sudati intorno alla
grande macchina. Quell’alone di polvere impalpabile, veniva
trascinato dal vento in tutte le vie del paese ed era la disperazione
delle donne anziane che curavano il restringimento della conserva,
stesa nei piatti a concentrarsi al sole. I pomodori spaccati a
seccare sui terrazzi si ricoprivano di quella specie di talco sottile
e spesso erano da buttare.
La
famiglia Marasciuti stava
seguendo la stessa sorte di tante altre
partite prima, e chissà quante ancora sarebbero state
costrette sulla stessa strada, appena se ne sarebbe presentata
l’opportunità.
In
quel periodo sembrava che tutti, in quel
paese, fossero legati da un filo invisibile
che li trascinava ad un unico destino costringendoli all’esodo.
Era
diventato normale vedere partire qualcuno.
Intere
famiglie, coi loro cognomi, scomparivano quotidianamente dal piccolo
paese.
Prima
e da solo, partiva in modo quasi furtivo, l’uomo di casa, alla
ricerca di un lavoro e di un alloggio e poi, se le cose andavano per
un certo verso, l’intero nucleo lo avrebbe seguito, altrimenti, in
sordina, così come se n’era andato, sarebbe tornato a riprendere
il suo posto in paese, senza mostrare la sua sconfitta agli altri.
Ma per
uno che ritornava, decine di famiglie, legate da un filo parentale o
da una grande amicizia, si inseguivano sulla strada ferrata. La
destinazione era sempre la stessa: Le grandi stazioni delle città
del nord, destinate alle periferie del triangolo industriale che si
andavano ingrossando quotidianamente di desolanti quartieri dormitori
in cemento armato, pronti ad accoglierli per arricchire le tasche dei
costruttori e speculatori.
Tanti
erano anche i giovanotti che emigravano al seguito delle fidanzate,
non volendo rassegnarsi a perdere il loro primo amore, spezzato da
questa nuova e sconosciuta malattia. Era come se le farfalle
volassero via, costringendo i maschi della specie ad inseguirle
dovunque, senza badare a dove andavano a posarsi.
Molti
giovanotti, non volendo perdere il loro amore, mettevano in atto la
fuitina. Ponevano così i propri genitori di fronte al fatto
compiuto. In questo modo si creavano altri agganci con nuove famiglie
imparentate dal matrimonio dei due giovani e creando nuovi
presupposti di altre migrazioni per ricongiungimento.
Essere
un emigrante era diventata, per i giovani da sposare, quasi una
opzione in più, una sorte di bonus in dote: Significava dare ad
un’altra famiglia una occasione di poter abbandonare la mancanza di
un futuro in paese in cambio della possibilità di una alternativa.
Appena
dopo la fine della seconda guerra mondiale, tra gli anni cinquanta e
settanta del secolo scorso, era come se qualcuno
avesse alzato le braccia su un mare invisibile e le acque si fossero
aperte a una diaspora che prosciugava di
giovani vite, i caldi paesi agricoli del sud
riversandole, alla fine di un percorso sconosciuto, in
un destino che lì non arrivava, come se una naturale
strozzatura gli impedisse di scendere così a sud.
L’emigrazione
era un fenomeno che riguardava anche le campagne e le montagne di
ogni regione del centro e del nord, le città avevano bisogno di
braccia a basso costo per ricostruire i danni dei bombardamenti e le
industrie metalmeccaniche si andavano sviluppando e moltiplicavano
la necessità di lavoratori.
Le
montagne si spopolarono e in tanti si spostarono dal delta del Po
veneto verso il Piemonte.
Ma
quello che accadde ai piccoli comuni agricoli meridionali,
fu una diaspora su grande scala. Un rivolo continuo
alimentava quel il ruscello
che unendosi ad altri conterranei
sconosciuti, formò un fiume umano che li avrebbe portati,
mille chilometri lontano, a popolare la periferia intorno alla
Fiat della città sabauda e all’Alfa
Romeo di Arese, vicino Milano .
La
prima capitale italiana, dopo l’unità nazionale aveva
avocato tutta a se la ricchezza nazionale e le tasse di tutti gli
italiani, ed era diventata il perno centrale del
nord industriale.
Una
marea di corpi ed anime, affamate dalla voglia di un destino meno
crudo di quello avuto in sorte nel Comune in cui erano nati, si
riversavano quotidianamente in città non ancora pronte ad
accoglierli. Qui, insieme al lavoro, trovavano il pregiudizio e la
paura verso chi veniva a rubare il lavoro, e questo creava
spesso corti circuiti, tra le persone che non erano preparate ad
accettare quella invasione del proprio territorio.
La
situazione in cui molti si vennero a trovare non era migliore di
quella dalla quale erano fuggiti e nella lotta per un posto di
lavoro, un tetto per la famiglia, i nuovi arrivati si affidavano a
gente senza scrupoli e ritegno. Gli strozzini
e faccendieri di ogni risma si moltiplicarono velocemente ed
affittavano a prezzi molte
volte superiori quelli reali che il mercato esigeva,
gli alloggi di ringhiera, marcescenti
e senza servizi del centro storico.
Le
mansardine dei sottotetti intorno alla stazione di Porta Nuova, a
Porta Palazzo o di via Po, soffocanti d’estate e gelide trappole
nei rigidi inverni piemontesi, senza acqua e gabinetto, costavano
come un alloggio di grande cubatura con servizi. Molti affittavano i
letti a ore, secondo i turni degli operai. Nello stesso letto
dormivano due/tre persone al giorno.
Tanti
erano quelli condividevano un letto nella stessa stanza per
risparmiare sulle spese, i soldi servivano al paese alle famiglie,
per sopravvivere e magari, per poterli raggiungere in un secondo
tempo.
Il
centro della città, bello ma semidistrutto dalla guerra e in male
arnese, della vecchia Torino, si andava riempiendo di nuova vita, di
nuovi idiomi.
Sulle
bancarelle di Porta Palazzo e dei mercati rionali,
comparivano nuove verdure e frutti mai visti prima: la
catalogna cimata, e le lumachine pugliesi; le cime di rapa e i
lampascioli; la ‘nduja calabrese e la salciccia piccante; le arance
e le paste siciliane, le cozze insieme a tanto pesce mai venduto
prima.
I
camion dal sud trasportavano un fiume di vino, di olio e tanti altri
prodotti, che correva su una autostrada ancora da completare nel
tratto Ancona-Pescara e, mentre nutrivano i corpi emigrati, tenevano
legati quei fili parentali e culturali con la propria terra.
Intorno
alle città intanto, i cantieri ingoiavano le
vecchie cascine di periferia inglobandole nei
nuovi quartieri-ghetto, isolati dormitori: le
Vallette; la Falchera; via Artom; Borgata Lesna.
Interi
paesoni in verticale, eterogenei senza alcun servizio o luoghi di
socializzazione. Erano dei veri e propri calderoni in cui venivano
rimestati i nativi di tutte le regioni, gli emigranti.
Mentre
gli indigeni si arroccavano, senza cogliere l’occasione di
misurarsi e crescere con gli altri, nel quartiere bene della Crocetta
o sulle falde della collina monregalese che costeggiava il lato est
del Po, da Moncalieri a Pino Torinese.
I
nuovi arrivati dalle regioni del sud Italia scoprivano in Piemonte,
di essere immigrati clandestini, di aver bisogno di un permesso di
soggiorno per poter essere assunti con i libretti, o un contratto di
affitto legale.
Le
leggi sembravano disconoscere il fatto che erano italiani in Italia.
Trovavi un lavoro legale se avevi da almeno sei anni la residenza nei
comuni limitrofi alla sede di lavoro e per avere la residenza dovevi
avere un contratto a tempo indeterminato. Un imbroglio legislativo
dietro a cui si nascondeva il razzismo e consentiva ogni tipo di
speculazioni sui deboli, depredati da una unità nazionale che era
costato al sud la perdita di ogni ricchezza e di un destino di pari
dignità agli altri cittadini.
Uno
dei centri periferici di Torino, borgo San Paolo, di vecchia
tradizione operaia prima piemontese poi veneta, diventò, in quel
periodo, il luogo di naturale inserimento per le famiglie provenienti
dal sud. Molti pugliesi dell’alto tavoliere si stabilirono in quel
quartiere. Mentre, nel piccolo comune meridionale, a
nord del Tavoliere, un altro cognome stava per
essere cancellato dall'anagrafe.
Quelli
che rimanevano, lo avrebbero ricordato ancora
per un po', poi anche i Marasciuti sarebbero stati dimenticati, così
com'era capitato a tutti gli altri partiti prima di loro.
La
casa in cui avevano convissuto per quella settimana le due famiglie
orfane, era un solo grande stanzone di pianta quadrata, in fondo al
quale, una parete divisoria
di compensato separava il
ricovero per la giovenca dei Fortinterra da
quello per le persone.
I
due gruppi familiari avevano condiviso senza problemi non solo lo
spazio, ma anche il cibo a tavola e le poche
e povere masserizie. Per poco più di una settimana, erano stati come
una unica grande famiglia, con due vedove e tanti orfani.
La
condivisione di un destino gramo aveva reso meno greve le loro
giornate e anzi, una certa allegria aveva
pervaso i ragazzi e li aveva uniti nella novità di
quella vita in comune, aveva coinvolto tutti al
punto di farli sopravvivere senza coscienza alla mancanza di uno
spazio intimo proprio.
Le due settimane passarono in fretta, i ragazzi non ebbero neppure il
tempo di litigare una volta.
Quel
luogo era stato prima la stalla di una
famiglia di proprietari terrieri soprannominati “i
Fattori”,
intendendo proprio con quel nomignolo indicarli come medi
proprietari, di buon censo nella graduatoria della società locale,
ma il cognome della famiglia era Albieri.
Dopo
la morte del vecchio capostipite, la grande famiglia era retta con
mano ferma dalla matriarca Nerina, una donna astuta e capace di
tenere a bada tutte le attività dei suoi quattro figli maschi, i
ragazzi, tutti ormai sulla trentina ed accasati per proprio conto
tranne l’ultimo, continuavano però a far perno attorno alla madre,
la quale teneva i cordoni della borsa ben salda nelle sue mani, così
come le proprietà terriere.
Gli
Albieri rappresentavano uno dei ceppi antichi
rimasti, originari del
paese. Molto prolifici e ramificato in
diverse attività nel
piccolo centro. Avevano un paio di
masserie con grandi appezzamenti agricoli, la
prima nella zona del “Trentino”, e
l’altra in contrada “ Piange
Mamma”. I Fattori possedevano anche il nuovo grande forno
elettrico, col quale fornivano pane a
metà dei negozi del paese, oltre che a venderlo direttamente nel
loro forno, sito in contrada Camarota, sul lato ovest del
paese.
La
grande famiglia controllava
il commercio del grano e possedeva uno dei due mulini
per il frumento del paese, che però
era l’unico elettrico (l’altro ancora ad
acqua, macinava ormai poca roba).
Erano
pure i proprietari dei primi grandi trattori per
lavorare la campagna comparsi in paese.
L’assegnazione,
da parte del governo, di una mezza versura di terra (tremila metri
quadri), alle vedove e ai figli dei caduti della guerra sul Piave,
aveva ripagato la coscienza nazionale, per gli uomini del sud morti
per difendere l’Italia dagli austriaci. Nello stesso tempo, aveva
garantito mano d’opera a basso costo ai grandi latifondisti della
zona, poiché quei tremila metri quadri di terra non avrebbero di
certo sfamato nessuno. I reduci ci avevano piantato più che altro
vigna, per il vino. Le vedove coltivavano grano per un anno e l’anno
dopo lo tenevano a maggesa ricavandoci una fruscella di ricotta dai
pastori abruzzesi che scendevano lungo il tratturo per la
transumanza, durante l’inverno.
Così
gli Albieri e gli altri proprietari, potevano contare
quotidianamente su decine di braccianti giornalieri che elemosinavano
in piazza o alla masseria una giornata di lavoro, mentre loro
potevano scegliere i lavoratori migliori al minor costo.
Guidata
saldamente dalle mani della vecchia signora, aveva
mantenuto le vecchie tradizionali occupazioni. Le
nuove leve maschili però, erano state
mandate a frequentare i
licei di Foggia e alcuni l'università a Napoli, così
ora la famiglia aveva in paese un notaio ed un dirigente della
banca Dauna.
Letizia
era figlia più grande degli Albieri,
una ragazza dalla pelle bianca come la farina,
non usciva mai di casa per non abbronzarsi (per non
confondersi con le contadine ramate dal sole). La
signorina sarebbe dovuto andare
in sposa ad un amico del fratello.
Primogenito di
un'altra famiglia meno facoltosa, ma piena di figli maschi, che in un
paese agricolo era considerata una ricchezza,
almeno come possedere la terra: i Giubasso.
Il
giovane Andrea, il fidanzato della
giovane, era riuscito a frequentare il liceo,
in un convento di Ancona e poi l'università
napoletana nella facoltà di giurisprudenza.
Riuscì a laurearsi però, grazie
anche, alle somme di denaro che la ragazza si faceva dare dalla
madre, per mantenerlo agli studi. Copiose erano anche delle
prebende, celate da borse di studio,
attraverso i favori dei clero, con il quale la famiglia
poteva vantare grandi legami, per via del quarto
figlio divenuto prete.
Le
frequenti visite dell'arciprete in quella
casa, erano però un mormorio sulle labbra di
tutti. Quando poi, in
occasione della festa patronale, anche il
vescovo u ospite a pranzo da loro il bisbigliare del paese
tentò di diventare una vera e proprio voce, ma il vescovo, durante
la messa, tenne con fervore, un sermone sul peccato dell’invidia e
la maldicenza e il tono si zittì, almeno per
un poco, nel paese.
Dopo
per, appena lo scaltro giovanotto ottenne la sua laurea in legge
lasciò la giovane Albieri (in paese si mormorava che fosse pure
incinta!) alla sua sorte e s’involò.
La
vecchia Nerina rifece i conti delle somme, prelevate dalla figlia per
il mantenimento di quel bellimbusto mai apprezzato, e le recuperò
dall’eredità della ragazza. La quale, con la dote ridotta al
minimo, finì per sposare un mezzadro della famiglia.
Il
giovane avvocato dei Giubasso invece, si accomodò nel nido più
accogliente di un’altra allodola, più giovane e con finanze più
floride. Nilla era l’unica figlia femmina di un altro facoltoso
proprietario terriero: Anchise Malivinti detto “Brushkone”.
Conobbe la signorina per il tramite del fratello di questa, suo
coetaneo. Anche il giovane Malivinti frequentava ( almeno così
pensavano i suoi) l’aula magna della facoltà di legge a Napoli. Ma
il ragazzo amava la bella vita e lo sport. Tra i quali il suo
preferito era correre dietro alle gonne delle giovani partenopee.
Mentre accumulava esami da dare ogni anno, senza mai riuscire a
mettersi in pari, con gli impegni presi col burbero padre. Dal terzo
anno in poi però, grazie alle dritte di Andrea Giubasso, le cose si
appianarono. Andrea era intelligente e scaltro, aveva appreso dal
fratello prete, come usare le scorciatoie e sfruttare le correnti.
Così, era diventato attivista del movimento giovanile del MSI, il
partito fascista che sopravvisse alla caduta di Mussolini.
All’interno del partito aveva immediatamente ricoperto la carica di
segretario e questo lo aveva messo in contatto con tutti i vertici.
Molti di questi erano cattedratici universitari ed alcuni proprio
della facoltà che frequentava, per cui, per il giovane ed i suoi
amici, fatti passare tutti per giovani attivisti del partito, non
esistettero problemi di studio o di esami. Alla festa di laurea del
Malivinti il giovane Giubasso fu presentato come uno dei più
brillanti avvocati del foro di Napoli e di sicuro futuro politico.
I due
scaltri giovanotti organizzarono dopo poco il matrimonio tra Nilla e
Andrea. Così che tutti, continuavano a vivacchiare alle spalle del
padre della sposa, mettendo a nudo le scarse potenzialità acquisite
in materia legislativa.
In
poco tempo riuscirono a sfiancare le tasche del burbero agricoltore,
il quale li costrinse ad allontanarsi tutti e due dal paese. Il
Giubasso chiese aiuto ai fratelli del padre, emigrati a Torino, dove
cominciò a fare praticantato presso uno studio di avvocati trovato
attraverso il prete e il partito. Il cognato si sistemò a Roma, dove
si era trasferita una vecchia fiamma dei tempi del liceo.
Una
volta svuotate le stalle dai molti cavalli, sostituiti dai trattori
azzurri della Ford, la matriarca degli
Albieri aveva affittato le vecchie stalle
come abitazioni, alle famiglie povere e numerose, le quali non
potevano dare importanza alle rifiniture
della casa e necessitavano di grandi spazi a costi accessibili, per
via della numerosa prole.
L'antica
costruzione, fu così elevata ad uso
abitativo per la
famiglia del fratello del padre della vedova Marasciuti,
Pasquale Torvino.
Pasquale aveva stretto rapporti parentali coi Fattori attraverso
un vincolo di “sangiovanni “, facendosi battezzare la
bambina da uno dei figli.
Qualche
anno dopo però, appena finito un duro inverno senza lavoro, l’uomo
era stato costretto ad emigrare con tutta la famiglia a Torino. Era
il 26 marzo del 1949. Un piovoso sabato primaverile.
Aveva
giurato a se stesso e ai figli che in quelle condizioni non avrebbero
più vissuto. Poi, in una giornata in cui si era scatenato sul paese
un temporale che pareva volerlo inghiottire tutto, partirono.
La
pioggia aveva impregnato i loro fagotti e le loro valige di cartone,
al punto che sembravano volersi sbriciolare già prima di salire
sulla corriera per San Severo, erano partiti da un paese che li
guardava muto e un poco invidioso, dai vetri appannati.
Quella
povera famigliola, con quattro bambini piccoli e malvestiti sbarcò,
dopo un viaggio allucinante su un treno sporco e lento, in una città
straniera che mal sopportava la numerosa prole.
I
Torvino trovarono grandi difficoltà a sistemarsi. I piemontesi non
solevano dare alloggi in affitto a chi aveva bambini. L’uomo era
costretto a lavorare dalla mattina alla notte per pochi soldi e senza
contratto. I bambini erano spesso pieni di raffreddore e tosse e lui
non aveva assistenza sanitaria. Per i primi anni non avevano trovato
un destino migliore di quello dal quale erano scappati. Molte volte
sarebbero voluti tornare al paese.
Spesso
però, chi ha poco di cui vivere non ha la possibilità di tornare
indietro, così i Torvino si adattarono a dei sacrifici che, in
quella città sconosciuta, erano maggiori della fame e di quel freddo
patito al sud ma poi, lentamente, le cose cominciarono a migliorare.
Pasquale
trovò casa grazie al prete della chiesa del quartiere e, dopo la
casa, arrivò anche il lavoro alla Fiat di Rivalta e, qualche anno
dopo, la casa dal Comune che fece diventare quei quattro rampolli la
loro fortuna.
Così
i Torvino e i loro quattro bambini si sistemarono bene e furono poi
proprio loro, a dare ospitalità al nipote Leonardo all’arrivo
nella città della Fiat.
Ora
toccava alla sua famiglia raggiungerlo, per cercare un destino che
lì, nel posto in cui erano nati, non c’era.
Capitolo
terzo
La
partenza dei Marasciuti
La
grande stanza dove vivevano ora le due famiglie, era costruita
in mattoni pieni su quattro grandi archi romani che chiudevano al
centro del quadrilatero, i quattro spicchi della volta. Il
pavimento fatto degli stessi mattoni, posti piatti
nella terra. Un tempo, proprio quella casa, era
stata la più grande stalla
del paese e si
affacciava su due strade. L'ingresso principale si apriva
all’altezza dell’angolo inferiore del
Parco della Rimembranza di forma triangolare,
proprio di fronte alla chiesa del santo
patrono, dove c’era uno
dei quattro grandi pozzi freatici, mentre la seconda entrata,
si affacciava su via Firenze, dove ora
abitavano i Fortinterra.
Dal
grande pozzo di fronte alla chiesa, si rifornivano d'acqua, tutti gli
abitanti del quartiere ed era un punto di incontro dei
carrettieri. In tanti si
fermavano all'alba e al tramonto, ad abbeverare i cavalli. Anche le
donne si ritrovavano a lavare i panni in una delle due vasche di
pietra, poste ai lati della grande cisterna.
Di
costruzione probabilmente medievale, aveva il diametro di oltre
tre metri. Due gradini facevano
cornice al pozzo con il loro merletto bianco di pietra. Della stessa
pietra bianca, proveniente dalle cave del vicino promontorio,
era fatta la vera, l'apertura quadrata per
il passaggio dei secchi. La vera, era
poi quello che in dialetto era chiamato il
“boccale”,
cioè la parte rialzata che proteggeva
l'entrata della cisterna. Sul collare
superiore della vera, la pietra era segnata da solchi profondi
due-tre centimetri e coste altrettanto larghe e bianche che
sembravano vertebre sbiancate al sole, erano
le scanalature che col tempo, le funi con le quali
si tiravano su i pesanti secchi di
legno, avevano limato nella pietra lasciando una
traccia come un merletto, firma di tutti coloro che avevano tirato
su acqua e del tempo.
Di
pozzi freatici ce ne stava uno in ogni casa o, almeno, in
quasi in tutte le vecchie case del paese,
poi, nel ventennio fascista,
il Duce aveva istituito l'Acquedotto Pugliese
ed era stata costruita la rete fognaria e le condutture che
portavano acqua alle otto fontane pubbliche distribuite in modo che
fossero poco distanti da ogni abitazione così,
in seguito, anche nelle nuove costruzioni private si installava un
impianto idrico, col tempo i pozzi privati e
quelli pubblici furono in breve, riempiti di
macerie o chiusi.
Nella
grande casa delle due vedove, piena di vita e di voci in quelle due
settimane, c’era ora un gran silenzio.
I
Marasciuti partivano e i Fortinterra li stavano accompagnando alla
corriera per la stazione ferroviaria del paese vicino.
Solo il più piccolo dei Fortinterra,
‘Ntoniuccio, si era rifiutato di salutare i partenti.
Da
quando gli era morto il padre, il bambino si era chiuso in un
risentimento immediato verso chiunque lo lasciasse.
Incapace di comprendere e distinguere una
partenza da una morte, aveva già sviluppato, un grande rancore verso
chi se ne andava. Se qualcuno voleva
salutarlo, lui girava la schiena e lo cancellava dalla mente, come
non fosse mai esistito, lo metteva immediatamente, fuori dal suo
mondo.
Gli
altri, ignari del vero senso di quella chiusura, restavano interdetti
dal muro che lui erigeva tra loro e non sapevano come superarlo, il
ragazzino scivolava in un limbo in cui nessuno riusciva a
raggiungerlo. Ora che i Marasciuti dovevano partire, lui si
era rifiutato di salutare tutti, compresa Liliana, sua coetanea e
compagna di giochi.
Così
appena tutti furono usciti, lui tolse dal pavimento la metà di un
mattone che si era rotto sotto il ferro della Giumenta
e cominciò a giocare da solo con le biglie di vetro colorate.
L’altra famiglia non esisteva più.
Quando
sarebbe tornato il fratello di due anni più
grande di lui, avrebbero riempito lo scuro stanzone, con il rumore
delle biglie e con le loro litigate.
Intanto
lui si allenava a bocciare la biglia incastrata nella riga di terra,
tra un mattone e l'altro, con quella che stringeva tra il pollice e
l'indice della destra. Dal pavimento veniva su un odore di terra
umido scavata di fresco. In quel punto il loro maialino (un regalo
che aveva ricevuto dal giovane porcaro,
fidanzato con la figlia del vicino) la notte,
faceva un buco nel pavimento, forzando col muso tra gli
intersizi dei mattoni che pesavano quasi quanto lui
e loro dovevano risistemare ogni mattina la terra e i mattoni. La
cosa era diventata una sorta di sfida quotidiana tra i due fratelli e
la bestiola che, educato in casa tra tanta gente, cresceva come un
cagnolino.
La sua
biglia rimbalzò fino a perdersi nella zona in ombra nell’angolo
della casa, vicino al pozzo, aguzzò gli occhi per cercare qualche
riflesso del vetro in quell’angolo quasi buio, poi la trovò vicino
ad una scarpa nera sporca di terra e la
raccolse, poi alzò lo sguardo verso l’alto, ora riusciva a
distinguere meglio le cose e la vide.
La
ragazza era seminascosta dall’ombra.
“E
tu, tu non te ne vai?” le disse, lei
si mosse un poco più avanti , in piedi davanti a
lui, tra l'ombra e la luce dell'angolo scuro.
“No, io non vado.”
“E rimani qui? Stai qui con noi?..” si sentiva già meglio ora,
era contento di non essere solo.
“...meno
male...” pensò “ finalmente
qualcuno che non và.”
“Certo,
io sto qui...non posso...” pareva
volergli spiegare ma poi ci rinunciò “...io non devo
andare.” la ragazza parlava in modo
incerto. Era lo stesso dialetto, ma le
parole, anche se le capiva, sembravano
diverse...più tronche, rude.
Il
bambino si girò un attimo a guardarla, era spuntata dall’ombra
dove c’era la sarola per l’acqua, come fosse stata
nascosta dietro la grossa anfora di terracotta, ma lei era più alta
dell’anfora. Da dove veniva?
Forse
era il suo vestito grigio scuro che l’aveva nascosta nell’ombra
di quello che era l’angolo più buio del grosso stanzone.
“Ti
cercheranno...”
“Non
mi cercheranno. Perché dovrebbero?...Non
sono dei loro.”
La
luce del giorno, riverberando sul bianco delle case di fronte,
diventava accecante fuori, ma nel vano della
porta filtrava appena, come se restasse impigliata, nella grossa rete
di spago annodato, che proteggeva la vita in casa dagli occhi dei
passanti in strada e, nondimeno dalle mosche
che d’estate si nascondevano alla calura, nel fresco
interno.
Il piccolo si girò a cercare le sue biglie di vetro.
“Vuoi
giocare?” Ricevette in risposta un leggero
sospiro, la giovane girò la testa verso l’entrata.
Si
girò di nuovo verso di lei, la ragazza era
più grande di lui, sembrava del’età della sorella
maggiore; una signorina. Una donna di quell’età non giocava di
certo a biglie con lui. Lei restava ancora lì, sul
taglio della zona tra l’ombra più scura e la poca luce che
arrivava in casa. Il suo vestito, nero e grigio,
era elegante, quasi riluceva alla poca luce che lo sfiorava.
Una volta aveva visto una camicetta di
Colomba che faceva così, dicevano che era di
gelso. Aveva i colori cangianti.
Lui
aveva un pantaloncino di tela, la madre lo aveva ricavato dalla
stoffa di un paracadute, una volta era bianco ma lei lo aveva messo
in una bacinella con altra roba ed aveva tinto tutto di nero, per
portare il lutto del padre, mentre la camicia gliela aveva lasciata
bianca, ma col tempo si era sporcata, ed ora
pareva avere grosse macchie rugginose.
In
quella casa c'erano solo donne vestite di nero e, ai suoi occhi, il
vestito della ragazza, con quei giochi
di grigio perla, gli pareva molto elegante.
La
faccia della ragazza era scura, ma non abbronzata, sembrava
sporca di terra, di un colore freddo, teso,
grigiastro e marrone.
“ Non ti ho mai vista…non eri con loro?”
“
No, te l’ho detto.” le si accocolò
vicino.
“Sono
partiti tutti...anche Liliana.”
la più piccola della famiglia che stava partendo era il suo
vero cruccio.
“Si, lo so.”
“Io
mi chiamo Antonio, ma mi chiamano ‘Ntoniuccio...”
il bimbio si schernì “...O anche Tonino...”
“ Lo so.”
Di
nuovo lui si girò a guardare interrogativo verso l’angolo buio,
avrebbe voluto chiederle come mai lei sapesse
tutto quello che lui diceva. La domanda però
non gli uscì dalle labbra e lui la dimenticò
subito. Tanto aveva capito che lei doveva essere una amica
della sorella, anche se non ricordava di averla mai vista.
Faceva
fatica a distinguerne la figura, ma lei sembrava intenzionata a non
muoversi da quel posto, il volto
triste guardava con insistenza la porta.
“ Che devi andare?” chiese il piccolo.
“
No...no, io non devo.
Non posso.” girò lo sguardo verso il ragazzo e
lui poté per la prima volta notare che i capelli neri, corvini,
erano tagliati corti, fermati da un
nastro nero lucido, poi il piccolo rivolse
la sua attenzione alla biglia lanciata.
Gli
si era infilata, dopo aver ruzzolato e
saltato tra i mattoni, sotto la piega di un
sacco di grano al centro del grande stanzone,
dove erano stati accatastati in mucchio con
il frumento trebbiato da poco.
“I
maschi abbiamo dormito qua sopra...” disse battendo con la manina
su un sacco di grano “...le donne nei letti.” non ricevette
nessuna risposta.
“Tu come ti chiami?”
“Lucia.”
“...dove
stavi?..con chi dormivi? ...con…?” La ragazza non sembrava
interessata a quel discorso, la sua freddezza scoraggiò il bambino
dal continuare. Lui si concentrò tutto sul suo gioco e sulla buca,
dove cercava di far cadere tutte le sue biglie, che faceva correre
schioccando il pollice della mano destra con uno scatto che fiondava
la pallina di vetro verso la sua meta.
Con
la piccola mano, provava a fare il tiro più teso e forte, facendo
rotolare la sua pallottola lontano e, anche se frenata e dirottata
dalle scanalature di terra tra i mattoni, spesso centrava il suo
bersaglio, dopo una corsa segnata da rintocchi muti sul
pavimento, che diventavano meno chiari mano a
mano che la biglia perdeva di forza e velocità.
Le
due vedove erano arrivate alla fermata della corriera che
doveva ancora arrivare, circondate dalle figlie
femmine, tutte vestite di nero, sembravano uno stuolo di tristi
cornacchie atterrate in piazza.
Filena
Fortinterra abbracciò l’amica e le figlie.
“Dobbiamo
andare a casa...Tonino è da solo…”
“Non
ti preoccupare, andate e…grazie di tutto.” Maria Torvino le
strinse una mano sul braccio.
Filena
si girò a guardarla con lo sguardo afflitto.
“ Di
che? Lascia perdere...se non dovevate partire mi sarebbe piaciuto
continuare a vivere insieme. Stai attenta, a te e alle ragazze…”
“Anche
a me, lo sai...Mi raccomando Filena stai attenta anche tu ai
ragazzi…” Anche le ragazze salutarono le amiche.
Lucia
ora era seduta su una sedia vicino alla saròla e guardava
giocare, Tonino non le aveva più fatto domande, ma ogni tanto si
girava a guardare i tenui riflessi delle scarpette di vernice nera.
Il
bambino era contento di quella muta compagnia, ed ogni tanto la
guardava di sottecchi sorridendo.
Fuori
in strada si sentivano le voci della madre e delle sorelle di
ritorno.
“Stanno
torn...” stava dicendo girandosi verso l'angolo buio, ma la frase
gli morì in bocca. Nell'angolo buio non c'era più nessuno. Fissò
la sedia vuota.
Un secondo dopo la casa si riempì di voci e rumori e lui corse
incontro alla madre.
La
donna si chinò per abbracciarlo.
“
Ehi, Ntoniuccio...che hai
fatto, di nuovo il buco nel pavimento? Ma sei peggio del maialino
tu...il mio ometto...lui rimane da solo a casa e combina
pasticci...ma allora non ti devo lasciare solo...”
La
mamma si lasciò cadere su una sedia, il
figlio saltò subito sulle sue gambe
stringendosi alla madre.
“
Non ero solo Mamma...c’era una
signorina...c'era una amica di Colomba...”
“Ah
si?...una sua amica?...e tu la
conosci, chi era? Dove è
andata ora, è andata a casa sua?”
“No
non la conoscevo...” il bambino si rese
conto di non poter spiegare dove fosse andata la ragazza, segnò col
piccolo indice la sedia nell'angolo
scuro, ma non disse più niente. Omise anche di dirle il nome.
La
donna rivolse il suo sguardo verso la sedia e
la grossa anfora, di fianco c'era il porta-bacile con l'asciugamano
appesa e pensò che il bambino ne avesse confuso i contorni con la
presenza di qualcuno.
“Si
è nascosta nella saròla? “ scherzò
facendo saltellare il piccolo sulle ginocchia “ non si sarà mica
gettata nel pozzo?” cercò di scherzare per alleggerire
quella piccola fronte aggrottata.
Il
bambino la guardò serio. Forse quella era l'unica risposta valida,
ma non poteva crederci.
La
madre si accorse che il suo ometto stava prendendo sul serio il suo
scherzo, per un attimo si accigliò preoccupata ma poi strinse gli
occhi a guardare nello scuro angolo, sul pozzo c'era il coperchio che
ne chiudeva il collo.
Si
girò con aria interrogativa verso Colomba che era entrata in quel
momento, con la piccola Alba in braccio, seguita da Concetta.
“
Dice che c’era una tua amica con lui...”
“ Ma
chi?...io non credo che...che ne so…”
Non
le piaceva quel pensiero, si alzò, uscì col bimbo fuori alla luce
dove Lucio, il suo amichetto, stava giocando
con Lorenzo e Francuccio, altri bambini riempivano la strada con i
loro giochi.
Tonino
scivolo dalla madre e si unì ai
giochi ed al baccano degli altri.
“Non
devo più lasciarlo solo in casa” disse la vedova alla
comare Teresa, la mamma di Lucio, che sferruzzava su una mezza sedia,
davanti alla sua porta dirimpetto.
“Perchè
è successo forse qualcosa? Che cos’ha
combinato?”
“No...no
niente, dice che c'era una signorina con
lui...una amica della sorella. Hai visto
entrare o uscire qualcuno?”
“Addirittura?
Hhmm, no. Non ti ha
detto chi era?”
“No...una
signorina, così mi ha detto…”
“
No. Lo sentivo chiacchierare, ho pensato che
stava giocando...ho tenuto d’occhio la porta e l’orecchio teso,
ma era solo. Non è entrato
né uscito proprio nessuno.”
“Meno male, avevo paura che...con 'sto cavolo di pozzo in casa, non
si può vivere tranquilli.”
“Madonna
mia...il pozzo, mi fai venire i brividi...Ma il pozzo non c’entra
niente. La casa è che...Voi siete qui da poco, ma
tu sai chi ci viveva prima lì?”
“Si,
Maria mi ha detto che ci abitava il fratello del padre no?...”
la vedova attraversò la strada e si sedette sulla soglia di pietra
della comare. La donna fece una pausa coi ferri, si passò il pollice
e l'indice agli angoli della bocca, come a stirarsi le labbra.
“Si.
Qui ci abitava la famiglia Pasquale
Torvino.Tu lo conoscevi? Aveva sposato una che si chiamava Gisella
(non so di chi fosse figlia) e avevano quattro figli. Li conoscevi?
“Conosco
i nomi delle famiglie ma di loro non ricordo niente…”
“Beh...erano
più grandi... la sorella di Gisella,
una bella ragazza di diciotto anni, si chiamava Lucia...”
La
donna si tolse dal collo il filo di cotone blu
con il quale stava elaborando un paio di calze per il marito e
appoggiò la matassa di cotone con i ferri
sulla sedia, mentre si alzò stiracchiandosi.
“Aspetta
un attimo comare Filena che prendo un
ombrello da farlo riparare al Lliò che sta arrivando, se no quello
se ne va” entrò in casa zoppicando “ mi si è
addormentata la gamba…” disse fregandosi la grossa anca destra.
“Fai..fai,
con comodo che i ragazzi stanno facendo i compiti, che devo fare...”
Teresa era già in casa.
“ Parla comare, parla che ti sento...”
“...No,
che dicevo...niente, Ntoniuccio è qui che
gioca con Lucio, gli altri so andati a giocare, non so dove
sono, che devo fare...non so cosa gli devo fare da
mangiare stasera..., si girò a dare un’occhiata ai ragazzi
che giocavano in strada “...qualcosa farò...”
La
povera vedova aveva sei bocche da sfamare, il più grande appena di
diciassette anni, la più piccola di sei, Tonino era il
quinto, ne aveva due di più.
“Dove
hai lasciato la bimba?” Teresa stava facendo cenno con la mano al
vecchio sbandato, per farlo avvicinare “...dov’è Alba?”
“L’ha
presa con se Colomba. Meno male che c’è lei…”
“Si,
hai una brava ragazza. La signora Teresina porse
un ombrello nero con due raggi spezzati al
girovago, che passava per
le strade del paese in cerca di qualche lavoretto, in cambio di
qualche soldo, ma spesso recuperava solo
qualche tarallo, un pezzo di pane, un bicchiere di vino, in cambio
delle sue piccole sedioline per i piccoli, coperchi per sarole,
riparazioni di ombrelli e delle “scjkafareje “grosse tinozze di
terracotta nelle quali le donne lavavano i panni.
L'uomo arrivò seguito a distanza da un nugolo di piccoli scapestrati
scalzi che lo seguivano per le strade di tutto il paese rifacendo il
verso al suo grido “...'u lliò!” gridava lui per avvisare le
donne in casa “'u lliò!” gridavano quegli scapestrati.
Ad ogni strada se ne ritirava qualcuno che si era allontanato troppo
da casa ma, con lo stesso ritmo, se ne aggiungeva qualcun altro. Il
vecchio artigiano ambulante si accovacciò con le spalle al muro
della casa, cavò dal suo tascapane a tracolla una sotola, aghi e
spago, una pinza e del fil di ferro, tirò fuori da una specie di
feretra una manciata di raggi tolti a vecchi ombrelli, ne scovò
quelli più simiglianti alla necessità e cominciò il suo lavoro.
“ Che mi stavi dicendo comare Terè?..”
“Che
ti stavo dicendo comare Filé..?
“ Il
fatto di quella guagliona
che ...”
“Ah
sì! 'Mbehh...così si diceva...io poi non so se è tutta verità o
cosa...” la donna prese in mano i ferri e la matassa e si
riaccomodò sulla sua bassa seggiola “ la sorella minore della
moglie di Pasquale Torvino, quello viveva
in quella casa dove abitate voi ora...”
“Si,
il nipote di Torvino
il vaccaro?
“Quale
vaccaro...quello faceva la guardia campestre… aveva una mucca si,
ma...macchè vaccaro...”
“Non
era quello che abitava quaggiù, nel quartiere della Corea?” Filena
indicò con la mano la direzione del quartiere più disgraziato del
paese.
“Si
proprio quello, quello è il fratello del padre di Maria, ora
l’hai accompagnata, non sai che è una Torvino? È
la nipote di Pasquale Torvino! Ora...quelli
sono emigrati a Torino tanti anni fa...saranno
una decina di anni...quasi...hanno lasciato
tutto quello che avevano e si sono
trasferiti.
La
vedova sembrava non seguire bene tutto quel discorso “...E questi
qua, cosa c’entrano con le ragazza che dice mio figlio?”
“La
sorella piccola della moglie, si chiamava Lucia,
stava sempre qui, a casa della sorella sposata. Quella, si racconta,
che è morta dentro un pozzo, forse...”
“ Di
questa casa?..” la povera vedova era diventata bianca dallo
spavento. Nel contrasto col suo vestito nero
diventò cadaverico. “ ...è
terribile!”
“Nooo,
in un pozzo di campagna, intorno al paese, ma
io non so dirti quale.”
“
Madonna , mi hai fatto tremare comare
Terè...noi facciamo tutto con quell’acqua...per carità di Dio...e
allora?..”
“Niente,
qui in strada la gente diceva che quella poveretta se n'è dovuta
andare perchè rivedeva la sorella in casa.”
“Madonna, che spavento mi hai fatto prendere comare, ma la vedeva
perché era abituata ad averla sempre in casa...sarà stata quello.”
“Noo-o...” la signora Teresa, bassina e di taglia piuttosto
forte, si accorse che il vecchio Lliò stava sbirciando sotto la sua
gonna di cotonina azzurra che si accorciava parecchio da seduta,
aiutata dalle cosce piuttosto grassocce e si alzò.
“Quella la vedeva proprio...”
“Ma tu ci credi a queste cose?..Io no!”
“Comare
Filena...L'hanno vista anche altre persone”
“Chi?”
“
Comare Iduccia, quella che
abita all'angolo, ad esempio...”
“Ma
dai comare Terè...quella è...”
evitò di fare inutilmente il nome, ormai s'erano capite “...ma se
dicono che quella è sempre ubriaca.”
Teresa
scosse la testa in un cenno di disaccordo.
“Non
è vero che è sempre ubriaca...chi te lo ha detto che è sempre
ubriaca…quella l’ha vista proprio”
L'omino aveva finito il suo lavoro, lo consegnò alla donna che
prima di prenderlo in consegna già si lamentava per come lo aveva
fatto.
“Ma se non l'hai ancora visto...” reclamò il poveretto “...lo
fai per non pagarmi.”
“
No, lo faccio perché so come lavori tu. Fai schifo. La rovini
la roba che dici di aggiustare. Ti do più di quando
meriti.” tornò fuori con un pezzo di pane, un mezzo tarallo dolce,
tre centimetri misurati di salsiccia ed un bicchiere di vino.
“Ma non puoi darmi dei soldi?” chiese il poveretto.
“Soldi...e chi li vede quelli? Ti pago più di quanto do a mio
marito, anzi, bevi in fretta che, se quello vede che ti ho dato il
suo vino, mi mena pure.”
La vedova fece un gesto di saluto e si ritirò.
Il
vecchio ambulante riprese il suo giro col suo chiassoso codazzo di
scugnizzi, che si era messo a giocare con gli amici della strada. Ma,
come fossero pagati per quello che facevano, riprese a far eco al
grido del girovago: “ U Lliò!...'U banch
tell!...I cuperchije!…i siggjtelle!….’o Lliò! …”
Capitolo
quarto
'U
Mastr”
(il Maestro)
La passione della musica
Il
suo amore per la musica andava oltre la passione del musicista.
Quando suonava la cornetta, il biondo ciabattino, sembrava tirare
fuori una energia insospettabile in un fisico così asciutto che non
bastava a riempire i vestiti.
Il
“mastro”
(maestro) era già adulto quando scoprì il suo grande amore per la
tromba e la sua poca propensione ai lavori agricoli.
Non
avezzo a lavori pesanti, aveva frequentato da
ragazzo le botteghe degli artigiani del cuoio e della pelle. Qualcuno
confezionava o riparava scarpe, altri invece facevano i finimenti per
cavalli: selle, tiranti e redini, some e collari.
Uno
di loro (un vero artista) era il perno intorno al quale
giravano molte persone nel paese e, per la sua abilità, era
stato soprannominato nel paese, il
Cavalluccio non solo per
derivazione del suo mestiere, che questo artigiano svolgeva con
serietà e competenza, ma proprio perché lui firmava le sue
opere, adornandole con un cavallo
rampante in metallo lucido.
Lui
era il migliore, il sarto dei cavalli, il re dell’alta moda
equina, un vero must dell’epoca. I finimenti
prodotti, cuciti sulle misure dell'animale,
calzavano perfetti sul destriero, esaltavano la fierezza del
quadrupede e inorgoglivano il carrettiere.
Oltre
al cavallino, attaccava un arabesco per un
campanello d'ottone, dal suono argentino, ai
fianchi superiori del collare per l'attracco al
calesse, o sul pettorale dell’equino. Oppure un campanello
dal suono più tonico per il carro, che quando si
tornava dalla campagna di notte o al buio prima dell'alba, il suono
ritmico del campanello serviva a far individuare il veicolo nel
buio . Ancora più cupo per i Carrettoni con
i quali si trasportava il grano mietuto e la paglia dalle trebbie.
Quel
suono serviva anche a fugare la paura del buio del carrettiere, ma
mai a dirlo a nessuno, i carrettieri avevano di se l’idea
sprezzante, dei pavidi timorosi del buio e della notte.
Questo si poteva dire con sicurezza, almeno da quando era
stato debellato il Brigantaggio dalle campagne e dalle masserie ed
erano, finalmente, ripartiti i piemontesi dalle terre del sud.
Nella
bottega di quest'ultimo artista del cuoio, si
riunivano ogni pomeriggio gli appassionati di musica per una suonata
insieme. Ad una certa ora, si toglievano i tavoli per
lavorare il cuoio, impregnati di profumi di pelle e di pece, si
mettevano via le sotole, aghi e spaghi, sparivano le borchie, le
fibie e i campanelli e si tiravano fuori gli archi e
i fiati, le chitarre e
le fisarmoniche, i piatti
e i tamburi.
Quella
bottega, sul lato sud della piazza del paese,
era solo una stanza, ma ogni giorno,
diventava un auditorium. Radunava persone a
cui regalava spettacoli e socializzazione gratuitamente, ogni
pomeriggio.
La
sede di quel virtuoso
del cuoio ed eccelso maestro di violino,
diventava il centro culturale della musica del piccolo comune.
Lì si formavano i nuovi artigiani sellai e i musicisti del paese.
Quello
era il punto di raccolta di molti suonatori e di amanti della musica.
Cultori delle epiche melodie napoletane dell’epoca di Enrico Caruso
le note di Terra straniera di Giorgio Consolini e Santa
Lucia luntana di Antonello Rondi, seppure in sordina, inondavano
la piazza. Anche qualche giovane cantante del paese partecipava
spesso con extemporanea esibizione.
Francesco “il mastro”
aveva cominciato a frequentare
quella sorta di circolo privato del sellaio, per una specie di
parentela di mestiere.
Dopo
aver bazzicato i saloni da barba e i negozi dei lavoratori
della pelle, aveva scelto di occuparsi in uno di questi
ultimi. Cominciò come apprendista
in un negozio di confezioni di scarpe e di
borsette per donne, così, al seguito
del suo principale che suonava il
sassofono dall'amico sellaio, cominciò
a frequentare quella sala dove si forgiavano
eclettici ed plurivalenti artisti.
All'inizio
il giovanotto rimaneva solo in ascolto per un po'. Poi
appena possibile, spesso subito, trovava
una scusa per potersene andare a cercare la sua Rosina,
giovane ricamatrice alla scuola delle suore, nell'asilo del paese.
Le
ricamatrici erano giovani donne
di tutte le età.Nelle giornate calde, le suore le facevano
sedere sotto l’ombra dei grandi ombrelli dei pini marini della
villa comunale a ricamare. Le ragazze, coi loro grembiuli bianchi,
sembravano primule, nel
verde del grande giardino.
Mentre lungo il muro di cinta, i ragazzi si
attaccavano come lucertole al sole in ammirazione dell'oggetto del
loro desiderio.
Il
biondo ciabattino si era fidanzato da poco con Rosina, una ragazza
molto più giovane di lui e, appena poteva, correva a quel muro con
la grata.
Qualche
tempo dopo però, anche lui aveva cominciato a
solfeggiare e a leggere le prime note. Prima della sua entrata
nella banda, cercarono di insegnargli a suonare il
tamburo. Il titolare della grancassa stava
invecchiando e non sarebbe trascorso molto
tempo che avrebbe appeso il pesante strumento al muro.
Ma
Francesco non se ne innamorò, anche perché
la sua mole, se tale si poteva chiamare, non era quella
dell'immaginario collettivo sul fisico del gran
cassiere: un pancione
voluminoso con il grande tamburo sulla pancia che solo per quella si
teneva nella posizione giusta per battere e assorbire le vibrazioni.
Lui
aveva il fisico così magro che i vestiti, per quanto aggiustati
dalla sorella sarta su di lui, gli ballavano abbondantemente addosso.
Non ci misero molto tutti gli altri ad ammettere che
lo smilzo giovanotto avesse ragione.
Dopo
qualche fallimentare esibizione, provarono a
chiedergli cosa avrebbe voluto suonare tra gli altri strumenti che
mancavano all'orchestrina e tra queste lui scelse la cornetta.
Già
si vedeva con il leggero ottone elevato verso il cielo, soffiare le
note più stridenti per stare sopra il coro, al di là del suono di
ognuno, di tutti quei lucertoloni, attaccati al muro della villa, a
guardare tra gli altri fiori,
anche la sua Rosa.
Quando cominciò a suonare la cornetta, si accorse di aver scelto
bene, come quando si sposò.
Aveva
però fatto il ciabattino quel tanto che gli bastò
ad essere chiamato “mastro”,
e quel nomignolo, guadagnato per la seriosa meticolosità proverbiale
del suo carattere, sinonimo del rispetto della gente, divenne, dopo
un po di tempo, il suo cruccio.
Anche
quando si diplomò all'accademia di Santa Cecilia, nella Capitale, e
diventò insegnante di musica nelle scuole, la gente del paese
continuò a chiamarlo Mast' Francisco (Mastro
Francesco) per tutta la vita.
Quelli
erano gli anni '60, gli anni diaspora
meridionale. Il paese si svuotava di gente che, quotidianamente, con
nelle valigie di cartone tutto quel poco o tanto che aveva, lasciava
il paese per il nord industriale.
Non
si accorgeva nessuno che non era il lavoro che inseguivano, ma gli
altri che se n'erano andati. Legati da un sottile filo di parentela,
le persone seguivano le persone
partite prima, poiché erano le persone che
producevano il lavoro ed una volta che quelle
erano cominciate a diminuire, il lavoro per
gli artigiani veniva a mancare ed erano costretti ad andare via anche
loro.
Artigiani
fini e creativi: sellai e ciabattini, falegnami e barbieri, fabbri e
muratori, elettrecisti e meccanici, tutti alle linee di montaggio
della Fiat.
Il
professore di musica si era salvato in tempo, aveva ottenuto
le prime supplenze e qualche soldo cominciò a guadagnarlo.
L'impiego
nelle scuole garantiva sicuramente più possibilità di continuare a
vivere al suo paese, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse
rimasto legato al suo lavoro di artigiano del cuoio.
Non è
che lo stipendio di un professore di musica, con poche ore alla
settimana di insegnamento, fosse bastante ad una vita dignitosa per
la piccola famigliola del Maestro, ma lui discendeva da una famiglia
austera, che non avrebbe mai ammesso le difficoltà economiche e
piegata al lavoro. Sembrava un personaggio uscito da quelle decadute
e decadenti famiglie napoletane di Miseria e Nobiltà.
Negli
anni difficili che seguirono, il professore
mantenne il suo fisico elegante ed asciutto
e la sua cornetta rivolta al cielo. Neppure si sognò mai di
prendere in considerazione l’ipotesi di un altro lavoro, o di
partire. Rosinella gli diede
due figli e la sua vita scorreva senza clamori.
Nel
mese di agosto, alla chiusura delle grandi fabbriche,
la maggior parte degli emigrati tornava ai
propri luoghi, nel tentativo frustrante di risanare quella ferita che
una malattia prima sconosciuta, aveva prodotto nella loro
anima: la nostalgia.
In
quel mese del millenovecentonovanta, il professore
di musica, incontrò nella piazza del
paese, un uomo che aveva conosciuto
sin da bambino.
Nel
salutarsi, mentre passeggiavano tra gli altri compaesani nella piazza
del paese, il musicista ad un certo punto si fermò, guardò il suo
interlocutore, gli strinse la sua asciutta mano sull'avambraccio e
gli disse serio :'Tonino..”
“...Tu ora mi devi aspettare un attimo qui,
io vado a casa a prendere una cosa per te”.
“Per me, maestro? Che cosa mi vai a prendere?” Antonio era
sinceramente colpito.
“Non
ti preoccupare, aspettami un attimo...aspettami
un attimo, ci metto un minuto, d’accordo?”
“D'accordo...”
Antonio si guardò attorno cercando qualche
altro volto amico. Seppure era lontano da
trent'anni giusti, nessuno si era dimenticato di quel ragazzino
sempre attaccato alle gonne nere di una giovane madre, rimasta troppo
in fretta vedova.
Il
ragazzo era cresciuto in paese fino all'età di
sedici anni, poi, come gli altri, seguì la scia di quel fratello col
quale giocava a biglie di vetro nella buca di un mattone rotto, in
quel pavimento di terra, che un maialino
cresciuto disfaceva ogni notte per cercare un po' di fresco.
Emigrarono
in Germania dove rimasero fino all'età del militare poi, dopo i
diciotto mesi di naja, appena tornato al paese, ripartì nel
1970, con la famiglia per la città della Fiat.
Nei
suoi ritorni estivi al paese, il suo
carattere estroverso, lo aveva aiutato a mantenere viva la sua
amicizia con tutti, ed era ricambiato da molti.
“Che fai? Come stai, quando sei arrivato, quando te ne vai?” alle
sue spalle era arrivato Alfonso, amico di infanzia anche lui emigrato
a Milano.
La
frase era il modo scherzoso con cui i residenti si rivolgevano ai
tanti emigranti che d'estate riempivano il paese, espropriando
parecchio spazio ai residenti. Così per gioco era
nata, quella frase preconfezionata e
scherzosa che però sottolineava una esigenza vera, quando
te ne vai era come dire é
stato un piacere rivedervi ma
lasciateci presto il nostro spazio.
“Ciao Alfonso, come stai, anche tu vieni ancora al paesello eh?”
“Ho
ancora la Mamma, mio fratello, mia
sorella...che vuoi che faccia...io vengo per forza, per loro
altrimenti...”
Alfonso
era stato un ragazzo vivace che al paese esplodeva, lui aveva bisogno
di un palco maggiore e Milano era il posto ideale per lui, dove aveva
trovato la sua strada nella compagnia teatrale di un grande
attore ed ora, anche se non più a Milano,
continuava a seguire la sua strada nei teatri italiani.
“ ...se non fosse così... che ci devo fare
in questo posto del cavolo...”
“Ma
dai...è il nostro paese...”
“Si
certo...ma é il nostro paese, anche se gli stai lontano”.
“Beh...Si,
certo...” L’anziano professore stava
tornando a grandi passi, portava una cartellina di cartone rosa in
mano.
“Eccoti
qua, ma non ti sei mosso per niente. Che bravo!” disse prendendo
sottobraccio Tonino
“Scusami
Alfonso, dovevamo finire un discorso con il Maestro...ci
vediamo ancora si?” L’attore fece un
cenno di comprensione con la mano che sembrava arrotolare un matassa,
come a dire si...ci vediamo più in là, ma poteva voler dire
anche altro.
“Allora
Francesco...cosa c'è in quella cartella?”
Il professore lo prese sottobraccio e lo diresse verso una panchina
di marmo sul lato della piazza.
“Vedi Antonio, io amo la musica, tu lo sai...”
“Lo sanno tutti...”
“Si, forse hai ragione, ma tu devi sapere...Io ho la certezza che
tu sei la persona giusta...”
“Giusta per cosa?..”
“Lasciami parlare...é quello che voglio dirti...” dopo si gettò
in una lunga descrizione circa le sue esperienze musicali fatte e
sugli incontri speciali che la sua vita di musicista lo aveva portato
a consumare. Aveva avuto parecchie soddisfazioni e perfino una parte
in un bel film e poi, quando il discorso stava diventando troppo
lungo ed il giovane dava segni di non comprendere dove volesse andare
a parare, ecco la motivazione di tanta prefazione.
“...Ma
è qui, qui in paese che io ho cercato e trovato la più grande
soddisfazione!” Era eccitato, ma cercava di
rimanere sempre misurato e controllava la sua emozione continuando a
pulirsi le labbra, con il suo immacolato fazzoletto, come se stesse
suonando la tromba ed avesse della saliva sulle labbra che invece
erano asciutte, quasi secche.
“Di
cosa stiamo parlando Francì?” Lui
aveva un filo sottile di parentela acquisita col professore,
chi non ce l’aveva in una piccola comunità come quella? Ma
il maestro contava di fargli comprendere che lui lo riteneva adatto
al compito che gli stava affidando solo per stima personale, non per
la sottile parentela.
“Stiamo
parlando di questi...” disse porgendogli un plico
di fogli fotocopiati “ questi sono il frutto di molte ricerche che
io ho fatto. Ho indagato sulle vecchie
canzoni popolari che cantavano le nostre mamme
quando lavoravano nei campi.
“ Le
nostre mamme lavoravano nei campi Francì…? La mia vorrai dire...”
“
Si…” Leggermente infastidito dalla precisazione “ intendevo la
generazione delle nostre mamme…”
“ Ma
si...scherzavo.”
Queste sono le canzoni della loro infanzia e gioventù. Le ho
musicate sull'aria originale che cantavano loro, tu devi averne una
copia...”
Antonio
era veramente grato al musicista per quel tesoro che voleva mettergli
tra le mani, ma non capiva cosa potesse
farsene lui, incapace di comprendere la musica e di cantare.
“Non
Importa, non importa. Tu sei colto, io lo vedo, lo sento da come
parli. Tu devi averli per conservarli e un giorno saprai cosa farne,
non devi cantarli tu, devi averli.”
L’emigrante,
lo guardò un poco imbarazzato.
“Temo
di deluderti. Io sono ormai oltre i quaranta, sono via da tanto
tempo...Queste cose dovrebbero averle i giovani.”
prese la cartellina piena di fogli, li guardò
un attimo incredulo, poi la richiuse e la
mise sotto il braccio.
Il
professore appariva in pace ora. Continuarono a chiacchierare
per un poco del più e del meno,
senza più alcun riferimento a quei fogli
poi, si salutarono.
Francesco
si diresse verso alcune persone sedute davanti alla porta dove una
volta c’era quel negozio di finimenti per cavalli dove aveva
imparato a suonare la cornetta, ora c’era una targa che
recitava:”CIRCOLO DEGLI AMICI”.
“Beh…”
pensò Antonio “ certi posti nascono predestinati”. In fin dei
conti quella stanza aveva avuto sempre quella funzione di ritrovo tra
persone che condividevano un interesse. Continuava ad averla anche
dopo la partenza del Cavalluccio, morto operaio dopo aver
lavorato il resto della sua vita nel reparto selleria della Fiat a
Mirafiori.
Finirono
i giorni delle vacanze anche quell’anno.
Finirono prima di quelli di agosto e Antonio
Fortinguerra ritornò a nord. Il suo camper
sull'autostrada viaggiava in una coda interminabile lunga quanto
l'intera nazione.
I
migranti che un mese prima avevano formato un fiume di automezzi
infilati come perle nelle carreggiate d'asfalto che dal
nord li riportava a casa, ora avevano
invertito il senso di marcia nel ritorno a casa. Ogni tanto qualcuno
superava qualcun altro o veniva superato da qualcuno, ma la
formazione era continua e sembrava proprio quella delle anatre nelle
loro lunghe trasvolate. A turno si era gregari e capofila.
La
fatica del viaggio bastava quasi da sola ad annullare il fiato
recuperato dopo un anno di lavoro e di nostalgia, un emigrante pensa
ogni volta che il gioco non valga la candela e si ripromette che
l’anno dopo non farà mai più quell'immane
fatica, ma dopo un altro anno, rintronato
dallo stress della vita in una grande città e smunto
dalla nostalgia, si precipita di nuovo puntando al sud in coda alla
formazione che migra verso casa.
Il
rientro in Piemonte o in Lombardia dal meridione, é sempre
traumatico, perché quando si torna al nord, il tempo è già grigio
autunnale e alle prime piogge, le nebbie ti fanno piombare sulla
corsia preferenziale che porta velocemente nel cuore dell'inverno.
Ogni tanto non è neppure così, ma il risultato non cambia:
quando si è al paese non si vede l’ora di rientrare a casa e,
appena tornati in città vorresti fuggire di nuovo verso il mare.
Una
volta ripreso il giro della vita abituale,
come può essere normale in una città industriale, gli emigranti
tentano di non ricordare troppo spesso le vacanze appena trascorse,
sanno che altrimenti non riuscirebbero a
resistere un altro anno intero.
Un
emigrante è come la borchia di un grosso orologio a pendolo. Fa da
una parte all’altra tutta la vita sfiorando i suoi due punti
estremi e dopo un po’ si confonde non sapendo più quando sta
andando e quando ritorna. Fa questo tutta la vita, col corpo e con
l’anima.
Una
volta in Piemonte, il camper rimesso
in parcheggio, ‘Ntoniuccio ridiventa
Antonio e tutto viene rimandato al prossimo anno.
E le
canzoni popolari del paese tanto amate dal musicologo ex ciabattino e
professore di musica? Finiscono dimenticate in un album fotografico
nella libreria a casa di Antonio, e
l'ex bambino giocatore di biglie di vetro colorate,
torna ad essere il turnista nella azienda dove fa l’autista.
La
quotidianità: si riveste di quella apatica
pellicola giallognola, che si appiccica
addosso ad una vita ripetitiva, appena le
emozioni estive svaporano e sbiadisce l'abbronzatura.
Si
riprende così in silenzio le vite di tutti,
avvolgendole con le sue idiosincrasie quotidiane. La fatica di
riprendere il corso normale del lavoro, così
com'era prima di partire, impedisce alla mente di continuare a
torturare l'emigrante con la mancanza del
proprio paese. Nostalgia in parte appagata, con il breve periodo di
vacanze e contrastata dalla voglia di ritornare all'altra casa,
all'altro paese; quello dove ormai si vive da tanti anni.
Così le cose che capitano d'estate, vengono messe da parte,
conservate in quegli angoli segreti per non smarrirle.
Spesso
poi vengono dimenticate
perché quelli sono angoli che non si ricordano più. Così
i tesori estivi finiscono nel dimenticatoio, fino a quando
ritrovandoli casualmente rinverdiscono
le emozioni, ma non
fanno più male.
Oppure
si buttano via prima del nuovo viaggio estivo, un
po' come capita alle conchiglie raccolte sulla spiaggia l’anno
prima.
Per
diversi anni il camper di Antonio Forteinguerra
punta la prua verso altri lidi e il paese nativo diventa sempre più
una piccola isola in fondo all'orizzonte dei ricordi, spesso
e a lungo, avvolto completamente dalla nebbia
del tempo.
Anche i rapporti più forti si sfilacciano e dal paese gli arrivano
di tanto intanto, solo le notizie dei morti. Un rosario di mesti
conteggi del paese che un emigrante ricorda, che se ne va un pezzo
alla volta.
Gli anni passano ed un giorno, parlando con qualcuno del paese, gli
arriva la nuova ormai non più tale, che anche il professore
musicologo era morto.
“Ora
me lo fai sapere? Ci vediamo quasi
tutti i giorni e me lo dici solo ora?” si lamentò
con l'amico, mentre stava passeggiando nel
mercato di Bruino.
“Non
pensavo che tu non ne sapevi
niente...credevo che tu neppure che tu lo
conoscessi!”
“Se
lo conoscevo? Eccome lo conoscevo! Tu pensa
che...” sembrava
che un pensiero inatteso, fosse sopraggiunto d’un colpo nella sua
mente. Una volta...” raccontò all'amico di quei
fogli che il musicista gli aveva affidato un giorno, nella sua ultima
visita al paese.
“Quello era fissato per le storie antiche del paese...dove li hai
messi, li hai ancora o li hai buttati?”
“Mah...non ricordo...no! Buttati no! Li ho messi da qualche parte
che non ricordo...devo cercarli.” Anche quel proposito però, dopo
poco, si confuse con il clamore e i colori del mercato e non ritornò
a galla più per molto tempo, fino a quando...
Capitolo
quinto
'U
P’nzarill
“Lo
senti lo senti? Quanto mi piace il suo
canto...” la moglie di Antonio soffriva molto se qualcosa le
interrompeva il sonno prima di averlo smaltito tutto. Se qualcuno o
qualcosa la svegliava durante il sonno, lui doveva
avere molta pazienza a sopportare per gran parte della mattinata il
suo malumore. Solo il canto di quell’uccellino,
molto mattiniero, nelle prime timide mattine del tardo marzo, quando
non erano ancora diventate
decisamente primaverili, aveva il potere di farla svegliare con una
inspiegabile allegria.
Cominciava
a raccontare, ripetendola un numero indicibile di volte, di quando si
svegliava da bambina, nella sua fredda casa in
Romania, dove c'era poco o niente da mangiare o per vestirsi,
per far cominciare bene la giornata, ad un esercito di bambini
vogliosi di ogni cosa.
Il canto di quell'uccellino la faceva sentire felice, ricca. Non le
importava affatto che il marito le dicesse che forse quel canto era
il segnale che il lungo inverno stava terminando e che forse, era
questo segnale, associato al tepore del timido sole, dopo i rigidi
inverni della Moldavia, che le metteva addosso allegria.
“Non mi importa, non è come dici tu...” sorrideva mentre si
alzava per andare sul retro della casa, dove ogni primavera
nidificava quell'uccellino (segretamente benedetto dal marito).
“Sai come si chiama quel piccolino?”
“Che ne so...so come si chiama nel mio dialetto, non come si chiama
in italiano, mi pare sia un fringuello.”
“Ma
và...non lo sai? Fringuello, hummhh sei
sicuro?...”
“Ti ho detto che so come lo chiamavamo al paese...”
“E come lo chiamavate?”
“U p-nzarill!”
“Upinzarill?? e che nome è?”
“U
è solo l'articolo...come dire il...il
pensierino...”
“Il
pensierino?...sembra carino per quell'uccellino. Perchè
pensierino?..”
Antonio si fermò un attimo, il capo chino come a guardarsi il
grembo, in un silenzio che lo separò dall'ambiente che lo
circondava, come forse facevano gli attori per entrare nella parte,
poi rialzò lo sguardo verso la moglie e cominciò a raccontare la
storia.
La
moglie sapeva che quel silenzio preludeva ad un mutamento reale e
faticoso del marito, lo vedeva in trasparenza, così come davvero era
ora e ora, quando lui raccontava qualcosa del suo passato doveva
ritornare ’Ntoniuccio ed ora lui era
pronto.
“U
pinzarill, si diceva, era una bambino. Un
ragazzino morto di morte
violenta. Un morto innocente, buono.
Ucciso dalla matrigna. La sua anima che non
poteva lasciare la terra perché doveva compiere la sua missione...”
“La sua missione?.. e che missione aveva?”
“Si diceva che l'uccellino era lo spirito di chi veniva ucciso e
nessuno lo sapeva e lui rimaneva sulla terra fino a quando non
riusciva a fare scoprire chi era il suo assassino.”
“Davvero? Ma perché avevano legato un morto di morte violenta ad
un uccellino così delicato? Povero innocente...”
“Non so quando sia nata la leggenda, ma si riferiva ai morti di
violenza, ai giovani, ai bambini. Una volta era facile che le vittime
fossero bambini innocenti...tanti bambini innocenti.”
“Madonna mia che brutta cosa!...perché dici questo? Perché i
bambini?”
“I
bambini, ma anche le donne...sai quante donne?.. “
Ll’uomo era diventato triste come sempre
quando gli tornavano alla mente i ricordi del paese.
Lui
si sentiva un esule. Ben più che un
emigrante. Ma questo argomento, cominciato con l'allegria della
moglie per merito dell'uccellino mattutino, sembrava sceso
irrimediabilmente verso una triste china drammatica.
“Beh...coraggio alzati!” la donna buttò all'aria coperte e
lenzuola lasciando il marito nudo all'aria ancora fredda di marzo.
“Ma che fai...lasciami stare a letto!” la voce imbronciata e
indispettita dell'uomo imitava il modo dei bambini, sapeva che alla
moglie piaceva molto quando lui faceva così. La sceneggiata durò
poco perché lui si alzò e scomparve lungo il corridoio. La moglie
lo seguì con lo sguardo ancora ridendo del marito che ancora nudo si
precipitava fuori dalla camera da letto.
“Ma non ti vergogni andare in giro per casa così?”
“Devo cercare qualcosa...subito!”
“Mah... e la storia dell'uccellino?”
“Si si...arrivo e te la finisco.”
Lei
si mise a rifare il letto mentre Tonino
sembrava stesse buttando tutto all'aria nell'altra stanza, da dove
arrivavano rumori che preoccupavano la donna.
“Tu metti disordine di là ed io ti uccido.” minacciò seriosa.
“Non sto facendo niente...non ti preoccupare.”
“Con
te non è possibile...sei come dieci bambini tu.” lui tornò poco
dopo con un raccoglitore di cartone rosso
stretto in braccio come avesse ritrovato un gioco smarrito.
“Ecco...cos'hai trovato stavolta? Non ti mettere sul letto, l'ho
appena rifatto!”
“No...aspetta che mi vesto e andiamo giù a fare colazione. “
“Cosa c'é il quel coso”.
“La storia dell'uccellino...spero”
“Davvero? Dimmela! “lei cominciò ad armeggiare in cucinino e la
casa si riempi degli odori caldi delle fette di pane tostate e di
caffé, mentre il marito appoggiato sul muretto divisorio che
divideva l'angolo cottura dal resto della cucina ricominciò il
racconto dal punto dove aveva lasciato, come se tutto quel movimento
fatto fino ad allora, non l'avesse minimamente distratto dal
pensiero.
“Mia
nonna mi raccontava questa storia ogni primavera,ogni volta che
sentiva cantare 'u p'nzarill.”
“Dunque?..”
“Dunque,
una donna aveva sposato un vedovo che aveva un figliolo, la
matrigna non sopportava quel bambino
e non sapeva amarlo come avrebbe dovuto, così un giorno decise di
ucciderlo, disse al padre che il figlio era scappato di casa.
Ne tagliò dei pezzi che cucinò in padella per la cena del padre e,
non so come fece ma poi, mi sembra, che gettò il
corpo in un pozzo”.
“Dominiddio!
“ la giovane donna si fece ripetutamente il segno della croce.”
Perché lo uccise? Non posso pensare
che lo diede al padre fritto!” la donna
sembrava sul punto di vomitare l’anima.
“Pare
che il marito della donna, faceva il
guardiano delle vacche in una masseria al Ponte del Porco, molto
lontano dal paese e che non
tornasse a casa, se non la domenica. La donna
aveva una tresca e si intratteneva spesso con
il loro compare di nozze. Il figlioletto
(ormai grandicello) pare che l'avesse visti
insieme più di una volta . Sconvolto
aveva minacciato la matrigna
di dirlo al padre...”
“Ahhh, ecco!” l'interruppe lei per un secondo, poi lui riprese il
racconto come per ridirlo a se stesso più che a lei. Era una cosa
quasi del tutto dimenticata ed ora stava rinfrescandosi la memoria
per non scordarla più.
“Quando
il vaccaro tornava dalla masseria, portava sempre un pollo o un
coniglio da mangiare a casa, la donna sostituiva la carne e teneva il
pollo e il coniglio per lei ed il suo amante.
“Ma
al mattino presto, un uccellino come quello che
senti tu, cominciò a cantare davanti alla porta di casa. La
donna si innervosiva ed il marito le chiedeva perché. A lui
quel canto gli sembrava una musica dolcissima. Ma la cattiva matrigna
non ne poteva più di ascoltare quel canto sottile
che gli entrava nel cervello come una lama.
Così decise di tentare di cacciare
l'uccello, cominciò a lanciargli pietre o a cercare di batterlo con
una canna, ma l'uccelletto saltava tutt'intorno come una mosca
continuando a tediarla con il suo cantare.
Esasperata
e sull'orlo di una crisi di nervi stava per scoppiare in
pianto, allora, la donna chiuse l'uscio e si
rintanò a letto. Ma il fringuello saltò sul
finestrino sopra la porta e continuò a tormentare la donna con il
suo canto ficcante.”
“Ficcante quel cantuccio cos' delicato?”
“Delicato
si, ma pare che nel suo fare tzuì-tzuìì
tzuììì, mentre
tutti gli altri, udivano un canto delizioso, la disgraziata ci
sentisse delle parole che ripetevano un ritornello accusatorio che
diceva: tzuì tzuì tzuì, che bello
uccellino che sono io, mia madre puttanella, mi
ha fritto nella padella, mio
padre poverello non mi vedrà mai più, tzuì - tzuìì
tzuììì.. e continuava così
sempre.”
‘Ntoniuccio
aveva cantato la nenia dell’uccellino nel dialetto del suo
piccolo paese pugliese, mentre la moglie straniera, lo guardava con
gli occhi sbarrati e la bocca aperta, per sottolineare
l’impossibilità di comprendere il significato di quelle parole.
Poi,
tornò Antonio e, a suo beneficio, le cantò la traduzione in
italiano, nella quale, la canzoncina sembrava perdere un poco del suo
magico ritmo ed efficacia. L’uomo aveva delle capacità recitative
ammirevoli, entrava ed usciva dalla parte, con una naturalezza
propria del mestierante, questo gli consentiva, mentre recitava la
parte del narratore, di avere una voce ed una luce negli occhi
diversa, quasi sognante. Al contrario di quando era costretto ad
uscire dalla narrazione per essere il marito attuale. Era come se
mentre raccontava, tirasse un velo impalpabile tra se e gli altri,
una velina non del tutto trasparente, che ridava al racconto la
patina ingiallita del tempo.
Proprio
come se, chi lo stava a sentire, sfogliasse le pagine del libro
datato dalla memoria. Il risultato che otteneva lo ripagava
pienamente di questa sua abilità. Per chi lo ascoltava, era proprio
come se stesse leggendo coi suoi occhi, le righe invisibili che il
narratore snocciolava per le sue orecchie.
L’effetto
strabiliante, era una trasposizione temporale e quasi visiva.
Il suo pubblico aveva la sensazione di ascoltare il racconto dalla
nonna del ragazzo, di essere lì con lui sulla scena, proprio mentre
il fatto stava avvenendo.
Questa
capacità recitativa, si era sviluppata in Antonio, fin
dall’infanzia, quando il ragazzino, non ancora in età scolare,
seguiva per le strade del paese, insieme ai suoi compagni di giochi,
i vecchi cantastorie d’una volta.
Queste
antiche figure, giravano i paesi, con un lenzuolo arrotolato su una
canna secca, sul quale avevano dipinto delle vignette
rappresentative e cantavano le loro romanze. I temi ricorrenti erano
sempre quelli sul Brigantaggio e sui Briganti. Quei
cantori gli fecero conoscere la storia di Nicola Morra o quella di
Cicognitto, eroi d’una resistenza marchiata dall’infamia dalla
storia ufficiale, scritta dai vincitori di una infame guerra mai
dichiarata.
Imparò
a memoria le romanze che cantavano i tradimenti di donne che finivano
male, o di ricchi proprietari terrieri del sud, che pretendevano
ancora la prima notte dalle giovani spose, le quali spesso si
suicidavano per non cedere.
O,
ancora, di mariti che vendicavano l’onore di famiglia, con
efferrati omicidi, gli amanti fedifraghi delle mogli.
Il
suo racconto riprese come se la pellicola dei ricordi, stendesse di
nuovo, tra lui e la moglie, gli opachi veli del tempo.
“La
matrigna omicida pensava che gli altri sentissero quelle parole ed
era terrorizzata per le conseguenze. La
donna stava ormai per uscire di testa,
quell’uccellino continuava a farla disperare col suo
tzuì—tzuìì tzuììì...Non ce la faceva più a sentirlo, si
alzò dal letto dove si era cacciata sotto la trapunta, ancora
tutta vestita, e uscì di
casa.
Si
recò a casa della sua vecchia madre, ma la cosa non cambiò. Si
mischiò tra la gente al mercato della verdura, tra i tavoli di
pietra sui quali gli ortolani mettevano i frutti del loro lavoro in
vendita, ma dovunque lei andasse, u p'nzarill la
seguiva saltellandole intorno e continuando a cantare.
Quella
persecuzione continuò fino a tarda sera, poi
sembrò che terminasse col
crepuscolo. Il
mattino seguente però, prima ancora che le
prime luci dell'alba schiarissero
completamente il buio della notte, il friguellino ricominciò a
cantare davanti alla sua porta.
Lei
risentiva quell’accusa che la perseguitava ed aveva paura a
guardare gli altri che ormai, dovevano sapere la
cosa, datesi che lo sentivano ben anche loro, quel fringuello
che l’accusava di aver ucciso il figlio e, come
temeva l'assassina, il tormento continuò per
tutta la mattinata esasperandola, fino a quando, disperata ormai per
essere stata scoperta, la donna si recò al pozzo
dove aveva gettato il cadavere del figlio e si buttò giù.”
‘Ntoniuccio
tacque di colpo e fu come se la sua voce si fosse spenta col sordo
tonfo dell’acqua in quell’antico pozzo davanti alla chiesa di
Sant’Antonio.
“Dio mio che storia cruenta!” la moglie di Antonio aveva la pelle
d'oca “ ma la tua nonna non aveva qualcosa di più allegro da
raccontarti?
“Mia
Nonna mi raccontava questa storia quando il
fringuello cantava per annunciare la fine dell'inverno...”
“Come
finiva poi la storia?” chiese ormai
rassegnata Ioana e col sospetto che qualche
altro decesso avrebbe compiuto il racconto.
“Accorse della gente intorno al pozzo e qualcuno fu calato legato
con delle corde per vedere se c'era ancora qualcosa da fare per la
poveretta...”
“Quella disgraziata era morta?”
“No...era
finita si sott'acqua dopo la caduta, ma le grosse e pesanti gonne
avevano trattenuta l'aria come un paracadute e così la legarono e la
tirarono su, ma l'uomo che l'aveva soccorsa, trovò il berretto di un
bambino sull'acqua e così perlustrarono il pozzo, ed alla fine fu
trovato il cadavere del figliastro della
donna.
I
carabinieri la interrogarono per diverse ore e
alla fine lei ammise il delitto e finì in galera.”
“E l'uccellino?”
“Oh...era
scomparso, non si sentiva più cantare. Per questo la gente disse che
quell'uccellino, che canta pochi giorni all’anno,
altro non era che lo spirito del bambino, che appena aveva ritrovato
la pace era volato via.”
“Ed era così?”
“Ma
no! I fringuelli cantano per pochi giorni all’anno. Cantano
quando vogliono attirare l'attenzione della femmina
per la quale hanno preparato il nido poi, appena
la trovano, smettono di cantare, per non attirare i predatori
di uova o di piccoli. Un po' come fanno gli
uomini...” la moglie ci mise un po' a realizzare il sottinteso
nascosto, ma poi trasalì.
“Cosa vuoi dire con questo?”
“Niente, eheheeh niente, solo che anche noi cantiamo fino a quando
non troviamo una femmina e poi...”
“...e poi?..”
“Ehh...e
poi...smettiamo di cantare...prdiamo la fantasia...la
voglia...”
“Ma
va...fringuello, e tu cosa vorresti cantare tutta la vita,
vero?” lo prese a pizzicotti dalle guance come si
fa coi bimbi e gli schioccò un bacino sul naso.
“Il
mio fringuello non canta più lui...poverino...pensare che la
mio paese il nome di quell’uccellino ha un significato così
romantico...”
“Come
si chiama da voi?”
“Ohhh.”
fece un gesto con la mano come a dire che era meglio lasciar perdere
“....nella mia lingua non riusciresti di certo a dirlo…”
“Ma
in italiano...in italiano ce l’ha una traduzione?”
“Si...si
direbbe…” la donna fece una lunga sospensione come a cercare la
parola che più si avvicinasse a risolverle l’inghippo e poi sbottò
in una risata ”...si direbbe...il pensierino!”
“Ma
come fai tanto cine e poi...alla fine si chiama come da noi?”
“Si
ma a me non veniva in mente prima. Me lo ha ricordato il tuo
racconto. Da noi però vuol dire tutta un’altra cosa.”
“E
cioè?..”
“In
Romania, è un pensiero dolce, d’amore. Si dice che gli innamorati
mandano quell’uccellino a cantare all’alba, sulla finestra della
loro amata, per darle il loro buongiorno”.
“Ma
tu pensa…” il marito sembrava invidioso di quella tenerezza, che
sicuramente era più appropriata per il piccolo fringuello, al posto
di quella macabra storia della quale l’avevano fatto carico i
vecchi del suo paese.
“Che
c’è?”
“Nel
paese dei santi, marinai e poeti si lega il fringuello ad un fatto di
sangue, in quello di Dracula ad un atto d’amore…incredibile.”
“Ma
và i-n-c-r-e-d-i-bb-i-l-e-e-e-e, scimmiottò la moglie che ripizzicò
le guance piene del marito e gli schioccò un nuovo bacio sulla punta
del naso a patata del povero ‘Ntonuccio, il quale si beava di
quelle gratifiche.
“E
tu hai questa storia in quel raccoglitore che ti porti appresso come
un ciuccetto?”
“La
storia non credo, ma qui dentro ci dovrebbero essere le canzoni
antiche del mio paese, e magari te ne canterò qualcuna”,
“Oh
Madonna!..” fece finta di disperarsi la donna mettendosi le mani
tra i capelli ”… tutta a me doveva toccare questa pena?
Capitolo
sesto
Caccia
al tesoro
Antonio
Fortinterra aveva cercato con tutte le cure possibili, le canzoni che
il professore di musica del suo paese, gli aveva affidato nelle
vacanze del duemila. Ma di quelle fotocopie, in quel contenitore
rosso, non c’era alcuna traccia.
Incredulo,
lo aveva esaminato più volte, aveva tirato fuori i fogli dalle buste
leggere e trasparenti di plastica, li aveva sfogliati uno ad uno ma,
per quanto li avesse girati e rigirati, alla fine dovette ammettere
che, dei fogli del musicista, lì dentro, proprio non c’era proprio
nessuna traccia. Sapeva che doveva averli messi in un posto
assolutamente sicuro. Un posto dove nessuno li avrebbe potuto toccare
o spostare. Faceva sempre così:poneva le sue cose preziose in posti
certi, dove solo lui poteva metterci le mani e poi scordava quel suo
posto segreto e non ritrovava mai niente. Almeno non quando lui li
cercava. Poi, prima o poi, quello che cercava veniva fuori
casualmente. Sarebbe andata così anche questa volta? Forse, ma lui
aveva urgenza di ritrovarli, ora.
Non
gli rimaneva che capitolare, si arrese e capì che, il lavoro di
ricerca gli avrebbe preso altro tempo.
La
grande casa aveva un numero infinito di posti in cui poteva averli
messi, altri raccoglitori da cui ripartire ma, la certezza iniziale,
con la quale aveva abbracciato quella scatola di cartone, gli aveva
lasciato ora, molti dubbi sull’idea che fossero in uno di questi.
Lì dentro conservava bollette e fatture pagate, vecchie fotografie e
molti articoli di giornali che lo interessavano, tra quelli sperava
di trovare anche quelli che ora cercava.
Cominciò
però a temere che per ritrovarli, ammesso che davvero li avesse
conservati, avrebbe dovuto gettare all’aria tutta la libreria e i
cassetti degli armadi. Chissà dove li aveva messi.
Antonio
era un uomo maturo ormai, aveva attraversato una vita dura, la quale
lo aveva temprato al controllo delle sue emozioni e lo aveva dotato
di buone capacità manuali e culturali. Era diventato insomma,
quello che si dice un uomo equilibrato e capace, ma conservava dentro
di se, molto di quel vivace ‘Ntoniuccio, mai completamente
cresciuto.
La sua
curiosità naturale, si moltiplicava all’infinito quando l’oggetto
dei suoi desideri, riguardava le cose che lo legavano alla sua terra.
Nei
giorni che seguirono la storia del fringuello, spese molto del suo
tempo a cercare quei fogli in ogni scatola, libro e cassetto della
casa, ma dei suoi fogli non riusciva a trovare traccia.
La sua mente si era ormai messa in moto e cercava con
caparbietà quelle vecchie canzoni del paese, come se ritrovandole,
le avrebbe sentito cantate dalla voce della nonna.
Sapeva
con certezza di non aver mai buttato via quei fogli, non l’avrebbe
mai fatto, però loro intanto, sembravano nascondersi ad ogni suo
tentativo di riappropriarsi di loro, del suo tesoro nascosto chissà
dove.
Non
riusciva più a trovare pace, ogni giorno dedicava parte della
giornata alla sua ricerca. Ogni volta partiva con la sensazione che
era proprio sulla pista giusta, quello dove stava cercando gli
sembrava il posto dove sicuramente aveva messo i suoi fogli, ma ogni
giorno doveva rimandare alla volta successiva.
Gli
capitava spesso di dover lasciare quello che stava facendo, con la
netta sensazione di aver capito dov’erano, ma poi, come se
giocassero a rimpiattino, non ne trovava traccia.
Ad
ogni ricerca però, gli tornava alla mente qualche parola di qualcuno
di quelle antiche romanze popolane o qualche aria sulla quale la
nonna gliele cantava. Quello che gli stava capitando era strano:
lasciava di dipingere o di scrivere, a volte di riparare un abatjour
o di riparare la bicicletta del nipote, per precipitarsi a cercare il
suo tesoro nascosto, ed ogni volta, pur non trovando traccia dei suoi
fogli, quando tornava alle sue faccende lasciate, aveva comunque
ritrovato un pezzetto di ricordo in più.
Appena
un’arietta gli si affacciava alla memoria, lui cominciava a
fischiettarla per acchiapparla tutta, ed insieme all’aria,
tornavano a galla a pezzetti anche le parole.
Ce
n’era una in particolare che lui aveva intercettata da qualche
giorno, ne stava raccattando pezzetti quotidianamente, era come se i
ricordi tornassero in mente sotto forma di pezzetti di legno che,
dopo essere marcito nel fondo sotto l’acqua oscura di un lago, ora,
sbriciolandosi, risalivano la fredda coltre del tempo e tornavano a
galla.
Lui
raccattava quei resti e li ricomponeva in un mosaico che assumeva le
sue forme originali, man mano che ne aggiungeva i pezzi.
Fischiettarne l’aria serviva ad arricchirla con una nota in più o
diversa, era come ripercorrere i suoi vecchi tratturi dove non
passava da tanto tempo e l’erba ne aveva ricoperti il passaggio,
bastava incamminarsi sul vecchio cammino che i ricordi riaffioravano
come perle di una collana ancora ben attaccate a quel filo della
memoria.
“Tutti
voi paesani che sentite
Che
brutta condanna ci hanno dato
Mio
padre a vent’anni e noi in galera a vita…”
La
canzone gli stava tornando alla memoria, mentre vedeva che le oscure
acque che l’avevano conservata nel loro profondo, si andavano
lentamente schiarendo .
A
volte gli sembrava di guardarne i riflessi verdi smeraldo, mentre
inginocchiato per terra era in attesa di vedere affiorare altri
pezzi.
Ci
vollero parecchi giorni, passati come in preda ad una febbre, una
sorta di stato di malessere piretico nel quale ci fosse nascosto un
godimento estenuante e soporifero, prima che tra i pezzi affiorati,
ce ne fosse uno che dava senso al resto e che gli permise, piano
piano, la ricostruzione del testo e della musica.
“
Lucia si chiamava, era innocente
due
fratelli scellerati e senza cuore
senza pietà l’hanno uccisa
e
tolto l’onore…”
Ecco!
Aveva finalmente preso un altro pezzo, ed insieme alla musica e alle
parole, aveva ritrovato le immagini di sua nonna. La sua figura alta
e magra, molto elegante nelle sue vesti lunghe e camicette di
cotonina blu dai fiorellini bianchi, che gliela cantava. Era
praticamente innamorato di sua nonna: alta ed elegante, con degli
occhi verdi chiari e la sua nuvola di capelli bianche che le
incorniciavano il volto così fine per la vecchia contadina. Quella
donna aveva un passato duro alle spalle e la vita l’aveva forgiata,
attraverso tante dure prove.
Lui la
rammentava forte e decisa, da giovane doveva essere stata una
bellissima donna, di quelle che facevano sognare quegli uomini forti
dell’inizio del secolo che aveva segnati il passaggio definitivo
del Regno delle due Sicilie, sotto il dominio dei piemontesi, dopo
che avevano completamento debellata la resistenza dei “Briganti”,
dei quali lei continuava a cantargli le ballate mentre, nelle calde
primavere, sarchiavano il cotone.
Lei la
cantava sempre, mentre legavano i tralci nuovi della vigna, o
passavano tra le piante verde scuro raccogliendo i fiocchi grandi e
bianchi del cotone nella lunga estate pugliese.
Altre
diapositive, gli furono proiettate dal cervello, con quella colonna
sonora e lui rivide la madre vestita di nero che cantava le stesse
parole, ignaro del fatto che lei le cantava quando ripensava al
marito che l’aveva lasciata vedova da poco. Sembrava quasi che le
donne seguissero il ciclo delle stagioni per riportare alla mente
alcune ballate: in primavera cantavano di Lucia, in estate le ballate
delle giovani contadine in cerca di amori giovanili, nelle vendemmie
e durante la raccolta del cotone c’erano i canti dei Briganti,
storie che loro cantavano rappresentando quegli oscuri personaggi che
i libri di storia citavano come sanguinari e feroci banditi. come
eroi capaci di grandi imprese e che sempre le donne più belle del
sud amavano al punto di seguirli nelle battaglie e diventare loro
stesse Brigantesse ed eroine. Durante la raccolta delle olive invece
si cantavano storie di tradimenti e gelosie tra mariti e mogli.
Uxoricidi e vendette degli uomini traditi sugli amanti e sulle
fedifraghe colte in fragrante. Quello era il modo in cui gli era
arrivata, da bambino, la storia della gente dalla quale lui
proveniva. Aveva imparato nei campi e intorno alle trebbie la storia
di Nicola Morra e di Cicognitto, di Crocco e dei bastardi piemontesi.
Lui ci credeva a quei testi delle canzoni della nonna come ad una
bibbia, glielo confermavano anche i cantastorie che girvano i paesi
con i loro manifesti disegnate a mano cantando delle geste epiche di
valorosi capibande di briganti.
Ne
parlò al telefono con il suo amico professore del paese.
Appassionato ricercatore di storie antiche della loro frantumata
comunità. Un giorno lo chiamò e gliela accennò, cantò quelle
parole che era riuscito a ricordare fino ad allora, ma tanto bastò
al suo amico per lasciarlo a bocca aperta. Di qualche anno più
giovane di lui, non l’aveva mai sentita cantare, ma ne conosceva
bene la storia.
“Come
si chiama questa canzone?”
“Non
lo so. La chiamavano ‘a canzone di Cenzinella.”
“Ma
come Cenzinella...la canzone dice di una ... Lucia si chiamava era
innocente...chi era quindi questa Cenzinella? E chi era questa
Lucia?”
“Non
lo so, non so niente di più, che poche parole di questa storia…”
ll professore arricchì ’Ntoniuccio con i particolari che erano di
sua conoscenza, anche se non chiariva molto di più di quello che lui
già conosceva.
Antonio
Fortinterra cominciò a cantare quella canzone continuamente anche se
non riusciva ad intonarla bene dall’inizio.
Spesso
era costretto a cominciare dal ritornello per poi tornare alle prime
parole ma la canzone sembrava aver impregnato il suo cervello con la
sua arietta e non c’era modo di toglierselo di mente.
………..
Tutto
è finito tutto per noi è cambiato
da
quando abbiamo ucciso il primo amore
Io
maledico il giorno quando è stato…
…………….
Aveva
la necessità di trovare quei benedetti fogli, sapeva benissimo che
aveva guardato dappertutto ormai, ma era convinto che da qualche
parte dovevano essere. Intanto cominciò a parlare di Cenzinella
con qualche amico compaesano, questi però erano completamente
ignari, nessuno sapeva come aiutarlo in quella ricerca, avevano più
o meno la sua età ma non avevano mai sentito parlare di questa
Cenzinella.
“Sei
sicuro che sia successo davvero al paese? Magari era una leggenda.”
gli dicevano quelli con cui parlava, dopo che erano stati incantati
ad ascoltare questa sua storia così tragica e affascinante.
Ma
nessuno pareva sapere o ricordare niente.
Capitolo
settimo
S’alza
la nebbia
Al
supermercato nuovo c’era l’inaugurazione. La mattinata si era
presentata immersa in una nebbia bianchissima come l’ovatta che
riduceva la vista a qualche decina di metri e molte casalinghe
avevano forse per questo, mancato la festa programmata nel grosso
centro commerciale. Intimidite da quelle folate di nuvole scese al
livello delle strade. Poi però, appena il sole salì oltre la coltre
che copriva Torino e scaldò un poco l’aria, quel cotone bianco si
disciolse come per incanto, lasciando al suo posto una mattinata
dolce e tiepida. Antonio era partito da casa presto, appena si era
alzato ed ora, dopo qualche acquisto, se ne stava tornando.
Mentre
risaliva verso Giaveno in macchina sulla strada del ritorno, a
Trana, davanti ad una porta, proprio sulla salita, duecento metri
prima del bivio di Avigliana, vide un vecchio compaesano che toglieva
la polvere dal portoncino.
Un
Lampo gli attraversò la mente, quell’uomo aveva oltre gli ottanta
anni, poteva darsi che sapesse qualcosa. Aveva conosciuto
quell’anziano concittadino tramite un nipote del suo ospite, suo
amico, decise di fermarsi e vedere cosa potesse dirgli. Parcheggiò
la sua auto a destra e scese per fare due chiacchiere. Il suono
dell’antifurto che si inseriva con la chiusura centralizzata delle
porte, fece voltare l’anziano sulla scaletta.
“ Mi
scusi ma quel posteggio è privato! Deve togliere quella macchina da
lì.” Il signor Chironti era fisicamente minuto, una vasta calvizie
gli aveva lasciato poche tracce di capelli solo lungo i confini basso
del cuoio capelluto, tagliati corti ed ordinati, come i baffetti alla
Clark Gable scolpiti, retaggio dei tempi di una gioventù da
conquistatore, che se pur lontana, il vecchio emigrante pugliese
aveva cercato di prolungare e non l’aveva ancora del tutto
dismessa, neppure dopo gli ottanta.
“
Buon giorno giovanotto” lo salutò Antonio, non ti ricordi di me?”
L’omino
si tenne con una mano all’arcata metallica della scala e aguzzò lo
sguardo per vedere meglio fuori, ma stava cercando nella memoria.
Posò il pennello sul ripiano dell’ultimo gradino e scese, sempre
guardando acutamente l’intruso, mise da parte la scala di alluminio
e si avvicinò verso il nuovo venuto.
“No...Quello...mi
scusi sa...le dicevo della macchina...Quello...tra un po’
arriva mio genero e deve parcheggiare…” Antonio Fortinterra
sorrise dell’intercalare dell’uomo che ripeteva “quello”
ogni due secondi, denunciando un suo stato di incertezza, capì
che per quanto cercasse, il compaesano non poteva riconoscerlo e
cercò di aiutarlo prima di tutto rassicurandolo riguardo al
parcheggio, per il quale il suo amico si stava agitando e distraendo
a causa della preoccupazione.
“
Bongiorn, song ‘Ntonio Fortinterra, n-n t r’curd d me?” La
parlata dialettale disarmò immediatamente il grintoso zio del suo
amico, il nuovo venuto gli aveva chiesto se si ricordava di lui, ma
pareva proprio di no.
“
Parli il mio dialetto...tu sì paisèn mijh?” Un sorriso sostituì
immediatamente lo sguardo accigliato dalla preoccupazione del suo
parcheggio occupato da un forestiero “Sei di...un compaesano?...e
chi sei? Tu mi devi scusare ma io non avevo intenzione…sai quel
posto...Quello...se non faccio così è sempre occupato da
altri e poi, quando viene mio figlio o mio genero, non trovano …
e...”
“
Non ti devi scusare e non ti devi neppure preoccupare. Io vado via
subito.”
“ Si
si, ma volevo dire…Quello...”
“ Ti
ho detto di non preoccuparti capisco. Mi sono fermato solo per farti
una saluto.”
“
No, io volevo dirti che non ti avevo riconosciuto…Mò...ora tu
pensi sempre al posto...L’ho capito che te ne vai subito...ma non è
il caso...tanto ora loro sono al lavoro. Quello è stasera che
tornano e non lo devono trovare occupato che ...Quello... poi
non sa dove andare a parcheggiare”
“ Va
bene, ma ora hai capito chi sono, ti ricordi di me?”
“Ehe-e-e
certo che mi ricordo...quill...sei l’unico compaesano che
abita qui vicino…” l’intercalare si tradusse simultaneamente in
dialetto. L’omino sorrideva ma il suo intercalare faceva
comprendere all’ospite che la tensione non si era ancora sciolta
del tutto.
“
Non sono l’unico che sta su da queste parti. Ci sono almeno altri
cinque sei nuclei familiari di nostri concittadini qui intorno...Ma
non è di questo che dobbiamo parlare.” Antonio sorrise, il modo di
fare del Chironti, gli ricordava il vecchio ebreo del film Il
banco dei pegni.
“ Ah
no no!..” Confermò l’ospite “ ...e di cosa sei venuto a
parlare?” si accigliò poi, di nuovo preoccupato che il compaesano
potesse essere un venditore ambulante o un rappresentante di chissà
quale prodotto, mise le mani avanti “.Quill...sai, io qui non conto
niente...Quello...non è che posso comprare qualcosa...fa
tutto mia figlia…” sottolineò le distanze tornando alla lingua
nazionale, sostituendo il confidenziale dialetto immediatamente.
“
Stai tranquillo, non sono un venditore porta a porta.”
“
No?...Ah, meno male, quill...vabbè, dimmi allora dimmi, di
cosa mi vuoi parlare?”
“
Sai qualcosa di una vecchia canzone paesana, una canzone che parlava
di una certa Lucia?”
“
Nooo…E io che ne so a che canzone ti riferisci?...No...non l’ho
mai sentita. Quill...ce ne stavano tante...A quel tempo,
quando uno combinava qualcosa, nel bene e nel male, qualcuno subito
ti faceva una canzone...” Ora sorrideva l’anziano, si vedeva bene
che stava ripescando vecchi ricordi “Quello...Anche se non facevi
niente ti facevano la canzone.”
“Anche
se non facevi niente, come mai?”
“No...quill...magari
avevi una bella figlia, una sorella...e quelli ti facevano subito la
canzone.”
“
Ah! C’erano tutti questi poeti in paese…”
“ A
ufa ne aveva!” il modo di dire era antico dialetto del paese, il
giovane neppure se lo ricordava più, ufa stava per
sovrabbondanza-soprannumero. Sorrise a quella rimembranza.
“ Ma
io mi riferivo solo alla canzone di Lucia.”
“
Cantamela un po’…” ‘Ntoniuccio accennò appena poche parole
che sulle sottili labbra del suo ospite si disegno un sorriso,
l’aveva già riconosciuta.
“
Hhhhh si certo...Ma questa la chiamavano la canzone di Cenzinella,
non di Lucia...quella storia di quella ragazza...Si ma è una cosa di
tanto tempo fa...tu sei giovane, come fai a conoscerla tu?”
“
‘Mbehh...non sono poi tanto giovane, mezzo secolo fa c’ero
anch’io..”
“Ehhhe!
Quello...è successo un secolo fa!”
“ Ti
ricordi l’anno?...Mi racconti?”
“
Era il...io avevo sette anni, ne ho ora ottantasei...che anno era?
Quill...Fai tu il conto...”ogni tanto il suo intercalare si
esprimeva in dialetto.
“ Di
che classe sei tu?”
“
Del diciannove.”
“ Ah
sei un coscritto di mia madre, se avevi sette anni doveva essere per
forza il millenovecentoventisei...”
“
Ah, si, era il ventisei hai ragione...era del diciannove tua madre?”
Chironti conosceva benissimo la madre, era una vecchia volpe
intrigante, anche se non più tanto brillante per via dell’età.
Sapeva tutto del paese e se lo ricordava molto bene.
“Si,
ma parlami della canzone...Di Cenzinella dici? Ma allora perché
dice: ...Lucia si chiamava, era innocente... Lucia ...chi era?
“
Ah, si! Lucia era...e sì...la ragazza che uccisero.
Ehhh...quello...Vieni andiamo dentro. Ti faccio fare un caffè mentre
ti racconto.”
Salirono
al primo piano, dove una signora moldava stava facendo le pulizie, le
chiese di fare un caffè al suo ospite e lo fece accomodare vicino al
tavolo. Poi, senza che ci fosse più bisogno di chiederglielo,
cominciò con un tono vivace ed emozionato il suo racconto.
“
Questa Lucia ..” disse, ”... era una bella ragazza di diciotto
anni. La guagliola amoreggiava con un giovane del paese di qualche
anno più vecchio di lei. Il ragazzo era il terzo maschio di una
famiglia che aveva solo un figlia femmina della stessa età di Lucia
e sei o sette figli maschi, quella sorella fu la causa di tutto. La
famiglia...li chiamavano…”
“ I
Cenz’nell.” suggerì l’ospite.
“ Ah
sì...I Cenzìnell. Ma questo era un sopranome, il cognome era...Miri
o Miro mi pare, no no... Miro ecco sì, si chiamavano proprio così,
Miro. Quelli erano uhhh...tanti fratelli, accudivano gli animali in
una fattoria, una masseria sul Fortore, sul fianco verso
Serracapriola della Fiumara, lì c’era una masseria, la masseria
del Rocchione, così la chiamavano...uno di questi fratelli faceva il
porcaro in quella masseria, badava ai porci...si chiamava Vincenzo.
Mentre il ragazzo fidanzato con Lucia era...anche lui si chiamava
Antonio (come te).
In
quel cavolo di paese tre su cinque ci chiamiamo Antonio.”
“
Ehh si...per via del santo patrono…Comunque…” continuò il
racconto.
“...Quelli si incontravano di nascosto...Ehhhh...allora non era
come oggi, non ti potevi avvicinare a una ragazza, prima ti dovevi
fidanzare in casa…” l’uomo si lasciava facilmente trascinare
dai ricordi che affioravano nella mente
“Perché
lui era l’amico del cognato di lei, il marito della sorella
maggiore, si chiamava Pasquale...Pasquale Torvino”. Chironti
riprese un attimo il fiato “...Il padre e la sorella del giovanotto
non volevano assolutamente sentire parlare di questo amore e volevano
che il ragazzo interrompesse questo rapporto con Lucia, lui invece,
ne era innamorato, così una sera, disse alla nipotina della giovane
di andarla a chiamare che le doveva parlare.” si passò un dito sui
baffi e continuò “...Si incontrò con la sua fidanzata in un
stalletta vicino la casa della ragazza, lei abitava in una stradina
stretta e buia del centro vecchio del paese, quel vicolo che si apre
a destra della macelleria di Fascina e dopo un gomito finisce in via
Umberto I, davanti al tabacchino. Hai capito?”
“Si,
ho capito. Continua, ti prego.”
“
Si, ma bevi il caffè che quello si fredda...in quel vicolo, proprio
nel gomito, c’era la stalla del mezzadro di Corlando, ci metteva il
cavallo e d’inverno c’era un certo tepore, quel figlio di...se la
portava lì a fare i suoi comodi…” il Fortinterra lo ascoltava
rapito, mentre la sua mente annotava tutto, era come se stava
prendendo la medicina contro quella febbre che lo teneva eccitato da
parecchi giorni ormai. Non lo interruppe per paura che l’anziano
scordasse il filo e divagasse.
“
...e quella sera fece i suoi comodi e poi si portò via la ragazza,
la portò via col cavallo del massaro e della ragazza non si seppe
più niente!”
“ Ma
come la portò via dal centro del paese, nessuno li vide?”
“ Il
paese allora era poco e niente illuminato…”
“
Non c’erano le luci?”
Ehhhe…
le luci...allora c’erano quattro lampade a gas agli angoli della
piazza...solo al centro del paese...le luci...eppoi era quasi ancora
inverno, la gente stava in casa e la sera poi...si stava intorno al
braciere al caldo…dove volevi andare? Quill non c’era
niente...che c’era in paese allora, niente c’era...a cantin
Pompeo e quella di Pizzichillo...dove andavano a bere vino e
ubriacarsi i nullafacenti...quello c’era.”
“E
il cavallo? Nessuno sentì il rumore del cavallo, nessuno vide due
persone sul cavallo?”
“Ma
che vuoi che uno si meravigliasse se per strada passava un
cavallo...allora c’era un cavallo in ogni casa...chi vuoi che si
incuriosisse se passava un cavallo per strada…” Ntonio si rese
conto che doveva fare uno sforzo per comprendere che il paese di un
secolo prima non era quello che lui conosceva. “ ...Già dovette
ammettere soprapensiero…” cercò di immaginare; un agglomerato di
povere case con strade di terra appena fuori dalla piazza lastricata
di pietra.
“ Mi
ricordo che c’era un vecchio che faceva il lampionaro, andava
accendendo le lampade a gas la sera…mi pare che fosse di
Sannicandro...faceva anche l’arrotino...lo chiamavano ‘U
molafruvece...” Chironti aveva ripreso ad inseguire i suoi
pensieri.
Appena
all’anziano veniva data l’occasione, il suo cervello inseguiva
delle diramazioni dei ricordi che lo portavano lontano. Il
Fortinterra lo riportava immediatamente al centro del suo interesse,
anche se sentirgli raccontare di com’era il paese lo attirava
molto.
“Ma
non si vedeva dalle porte, dalle finestre, dai vetri insomma, se
qualcuno passava davanti alle case con un cavallo, anche se era
sera?”
“ Ma
che dici? Nel millenovecentoventisei, non c’erano porte e finestre
coi vetri...e chi li aveva? Le porte di legno impedivano di vedere
fuori e chi ce le aveva le finestre...i ricchi, ai piani alti, ma
sotto...sotto c’erano solo le stalle e comunque...il passaggio di
un cavallo era cosa normale per le strade del paese, non suscitava
nessuna curiosità. Le strade in terra battuta, che vuoi che si
sentisse...insomma la ragazza sparì e non se ne seppe più niente.”
Tirò un sospiro e si fermò a guardare il suo ospite che sembrava
sofferente, addolorato.
“Ti
prego coninua!” lo esortò ’Ntonuccio
“ La
sera stessa il fidanzato si fece una capatina alla casa del suo
amico, il marito della sorella di Lucia, e parlò anche con lei. La
donna era preoccupata per sua sorella e gli chiese se l’avesse
vista, ma lui si disse all’oscuro di dove fosse, quella però non
era fessa e gli chiese: Ma insomma tu hai intenzioni serie o no?
Ehhh...quello tergiversò sulla questione dicendo che a Serra c’era
una donna innamorata di lui che gli avrebbe portato una dote di
ventimila lire…” il signor Chironti si alzò un attimo, si scusò
con un gesto e scomparve nell’altra stanza, chiese qualcosa alla
donna che continuava a fare lavori di casa di là e tornò con un
piatto con dei biscotti.
“
Prendi, mangia qualche biscotto…”
“ Ma
siediti, cosa vuoi che me ne...riprendi il racconto.” si accorse
che discutere sui biscotti rubava del tempo al racconto e si
ammutolì.
“ Si
si...ma che cos’hai…” Il vecchio si era completamente
dimenticato del posteggio occupato, della scala col pennello fuori.
Ormai era coinvolto dai suoi ricordi di infanzia e li stava
raccontando con passione a quel suo compaesano che gli pareva malato
di qualcosa, senza comprendere di cosa. Lo vide muto, poco disposto
al dialogo, in attesa di sentirlo raccontare e si rassegnò. Spostò
il vaso dal centro del tavolo rotondo, sistemò il piatto col
tovagliolo ed i biscotti sulla tovaglia blu piena di fiori bianchi
piccolissimi, si accomodò di nuovo dall’altra parte del tavolo,
guardò il suo ospite senza comprendere bene quella sua sete di
sapere una storia che ormai non ricordava di sicuro più nessuno, ma
rinunciò a chiedere ancora una volta il motivo, tirò un bel fiato e
riprese.
”
...le ventimila lire servivano alla famiglia Miro per dare la dote
alla figlia femmina, per questo lei caldeggiava il matrimonio con la
forestiera insieme al padre, che per quella figlia femmina
stravedeva. La sorella di Lucia gli disse che anche lei aveva portato
al marito una dote simile, pensava forse che la sorella minore non
avesse dote? Il giovane chiuse la faccenda con una battuta oscura e
se ne andò.”
“
Cosa disse di oscuro?” ‘Ntonuccio aveva deciso di non
interrompere ma non voleva farsi scappare nessun particolare.
“ La
sorella di Lucia ( si chiamava Gisella o...Ninetta...mi pare) pensava
che i fidanzati avevano fatto la fuitina, come si usava allora, si
metteva così tutti di fronte al fatto compiuto e si era costretti a
far sposare i giovani. Quindi supponeva che il giovanotto avesse
portato la ragazza da qualche parte per riportarla tra qualche
giorno.”
“Quindi
si sentiva abbastanza tranquilla, no?” L’anziano narratore tirò
un po’ il fiato, mise a posto un angolo del centro tavola “
Quello...è ricamato a mano...mia moglie ( la buonanima...pace
all’anima sua…),era una insegnante, ma appena tornava a
casa...era sempre con l’ago in mano. Prendeva un pezzo di stoffa
qualsiasi e ricamava...sempre...quella non l’ho vista mai una volta
ferma...Ehhh.”
“Va
bene, pace all’anima sua.” ripetè l’ospite “ ...ma lascia
stare la poveretta dove si trova e continua a raccontare! La sorella
di Lucia non doveva sentirsi tranquilla, visto che pensava alla
fuitina?”
L’uomo
sospirò e riprese il racconto da dove lo aveva lasciato, ‘Ntonuccio
lo sapeva rimettere al punto in cui lui aveva deviato.
“Ehhh...così
avrebbe dovuto essere. Ma tu le conosci le donne no?” un cenno con
la testa assentì “ Ma che c’entra?”
“ E
come che c’entra...quella si era fissata che si sentiva agitata
(era molto attaccata alla sorella, specie da quando era morto il
padre ed era rimasta la vecchia madre con una coda di orfanelle). Non
mi ricordo quante ne aveva, ma erano cinque o sei;tutte femmine e…”
“Va
bene, ma ti prego ritorna al racconto. Era convinta che fosse una
fuitina, ma si sentiva agitata…”
“
Si. Diceva che aveva un brutto presentimento…Insomma lei la sorella
la voleva subito a casa! Anche se pensava che quelli, qualche giorno
dopo si sarebbero presentati a casa dai Miro per potersi poi sposare,
ma intanto invitò il giovane: cammina va, vammi a riprendere mia
sorella e portamela qua.”
“ E
lui cosa rispose?” incalzò l’ospite.
“
...e l’uomo aveva risposto con una sorta di oscuro indovinello:
Ninetta, tua sorella la riporterà in bocca un cane. La poveretta non
aveva capito il senso di quel suo dire ed era rimasta impressionata
da quella immagine, non le era piaciuta ed era rimasta più
preoccupata di prima. Da quando si era sposata, la sorella viveva più
tempo con lei che con la vecchia madre.
Quando
l’uomo si congedò, lei cercò prima di far capire al marito che il
suo amico non la convinceva per niente anzi, le sue parole non le
erano proprio piaciute. Poi, visto che il marito cercava solo di
rassicurarla, corse dalla madre e la convinse ad andare, con lei, dai
carabinieri per denunciarne la scomparsa. Dai carabinieri però
ricevettero solo assicurazioni sul fatto che erano passate solo poche
ore da quando la ragazza mancava ed era forte la possibilità che
fosse nascosta da qualche parte col fidanzato. Anche loro erano
convinti che quella fosse una fuitina. Dovevano lasciar passare
qualche giorno prima di capire come si dovevano muovere, ma ora era
troppo presto. E non avevano tutti i torti, perché Lucia era stata
portata dal fidanzato alla masseria che ti ho detto prima, quella
oltre la fiumara che chiamavano la masseria del Rocchione. La ragazza
era felice di quella situazione, lui gli aveva promesso che tra un
paio di giorni l’avrebbe riportata a casa e sposata, lei era al
settimo cielo, amava il suo Amedeo e in quella masseria stava con il
prossimo cognato Vincenzo, la moglie di Castelnuovo Dauno e i loro
cinque figli. Si sentiva già in famiglia.
Era
primavera e ormai, era passata da poco la Pasqua e la festa della
Madonna del Ponte. Lei era lì vicino al santuario. Si vedeva già
sposata, il giorno della festa del prossimo anno, a far baldoria sul
prato con la famiglia e con la sorella e tutti gli altri del paese. E
la felicità sembrava farla scoppiare, e così se ne stava tranquilla
ad aspettare che il suo fidanzato tornasse dal paese.”
Mentre
l’uomo raccontava, ‘Ntonuccio immaginò i campi di grano nella
bassa valle del Fortore, conosceva bene il posto, ci era stato, da
piccolo, a tagliare legna con il padre. La valle del Fortore
diventava a primavera una grande coperta verde brillante, punteggiata
del giallo dei fiorellini della senape selvatica e da grandi macchie
di meravigliosi rossi papaveri. Immaginò che Lucia ne avesse sempre
uno fresco tra i capelli e facesse piccole gite fino agli argini del
fiume con le bambine del futuro cognato. A primavera inoltrata si
respirava lungo il fiume il profumo delle piante della liquirizia,
che cresceva in folte macchie di verde scuro, lungo gli argini
sabbiosi. Lo disse al suo narratore.
“ Eh
Eh! Proprio così sono quei campi a primavera...si capisce che lei,
così giovane, contenta che si stava per sposare…facesse dei giochi
coi bambini del cognato. Quello...a quei tempi le comitive dei
ragazzi ci andavamo a piedi, passando tra le rovine, lungo le coppe a
scavare per prendere la liquirizia…..”
“Vabbè...ma
ogni volta mi devi raccontare cosa facevate voi? Parlami di Lucia”
“Quello...che
non ti posso dire una oparola…Lucia si...Ma non si allontanava
tanto dalla masseria, il fidanzato le aveva raccomandato di non farsi
vedere, che una fuitina è una cosa segreta tra loro due. Gli altri
non avrebbero dovuto conoscere il nascondiglio, se no si perde quella
magia del loro segreto.”
“ E
allora?”
“E
allora...quella sera, quando lui tornò a casa e disse alla sua
famiglia che lui aveva rapito la sua ragazza, la sorella lo assalì
con la rabbia di una tigre, se lo voleva mangiare e istigò il padre
contro il figlio. L’uomo, un burbero violento, grande e grosso, più
abituato a domare animali selvatici che crescere figli. Prese il suo
rampollo per il collo e lo attaccò al divisorio che divideva la
casa, con un ceffone fece volare via il figlio che si ritrovò a
terra con tutta la parete di legno: Tu hai combinato ’sto casino e
tu te lo risolvi, lo minacciò!”
“ Io
la porto qua e me la sposo!” tentò di imporsi il giovane. Il padre
aveva ormai il sangue agli occhi “Tu qui non porti proprio nessuno!
Quella puttana non la voglio vedere qui, e domani tu vai a Serra a
firmare un contratto matrimoniale con Salvina, di al notaio che ti
mando io.”
“
Ed io come faccio con Lucia?”
Il
ragazzo voleva bene alla sua giovane fidanzata e non voleva cedere a
quel matrimonio d’interesse combinato dal padre.
“Non
hai ancora capito cosa ti ha detto papà?” La sorella era una jena
con la bava alla bocca “… uccidila, fa quello che cavolo vuoi,
falla a mille pezzi e gettala in un pozzo, nel fiume, ma non la devi
neppure nominare più!” Chironti modulava le voci e la concitazione
a seconda del personaggio, all’ospite pareva di assistere alla
scena. Intanto il narratore riprese il suo racconto.
“Così
mentre la giovane coltivava il suo sogno giocando tra i papaveri coi
nipotini, il suo fidanzato era a Serra a firmare il contratto di
matrimonio. Quando tornò da Serra si fermò col fratello maggiore
che l’aveva accompagnato alla Rocchione, mentre Antonio andava a
prendere la fidanzata, Michele nascose il cavallo ed il carro dietro
una fratta, il giovane fece tenere i bambini dentro dalla cognata
dicendogli di non farli uscire. Prese Lucia e fece una passeggiata
verso la fiumara, una volta giunti là, dove c’era pure Vincenzo
con i maiali e le mucche, cominciò a sbaciucchiare e coccolare la
fidanzata, si stesero nel grano alto, dove erano più folti i
papaveri e la senape ed in questa stupenda tavolozza di gialli, rossi
e bianchi, su quello sfondo verde, Lucia fece l’amore per la prima
volta con l’uomo che, tempo qualche giorno, sarebbe diventato suo
marito per sempre.
La
poveretta non poteva accorgersi che mentre lei stava navigando su
cieli fantastici, nascosti dal grano, per terra due vermi stavano
strisciando verso di loro, i fratelli del ragazzo, ambedue sposati e
con sette figli il primo e cinque il secondo, si erano avvicinati a
loro e prima che Antonio si togliesse da sopra la ragazza, le
legarono i piedi e le mani con dei fasci del grano verde e la
violentarono ripetutamente.”
“Cristo!”
non era un’imprecazione. Dalle labbra del l’uomo era uscita come
un’esortazione, come se in quel momento il figlio di Dio, avesse
dovuto intervenire a fermare lo scempio che si andava svolgendo sotto
i suoi occhi. “ ti chiedo scusa… continua per favore.” Il
vecchio riprese.
“Dall’altro argine del fiume, molto più alto del grano, una
donna stava passando sul tratturo. S’avvide di quello che stava
succedendo e gridò: “Ohè disgraziati, cosa state facendo?
Fermatevi!” Ma quelli si girarono minacciosi dicendole di andare
via e stare zitta se non voleva fare la stessa fine. Poi, uno dei due
che stava in quel momento sulla ragazza, per non farla gridare, le
strinse le grosse mani intorno al collo e la uccise.”
Antonio
Fortinterra aveva le lacrime agli occhi, la donna delle pulizie era
andata via da poco ed in casa dell’anziano del suo paese c’era un
silenzio pesante ora. Voleva sapere tutto di quella ragazza che da
qualche mese lo tormentava, ma per quanto avesse intuito cosa le
fosse successo, dal testo della canzone, il racconto di quell’uomo
che a sette anni fu testimone diretto dell’accaduto lo aveva
stravolto. Lo confessò al suo ospite e l’anziano annuì.
“
Questa storia stravolse tutto un paese, devi sentire ancora… Vuoi
che smetta? Devi andare via?”
“ No
no...se hai voglia continua, voglio sentire tutto… però dopo, ora
posso andare un attimo in bagno?”
“
Certo ...ma devi scendere al piano di sotto, qui non è per gli
ospiti.”
“Grazie.”
scese le scale con le gambe pesanti. Non si era accorto di essere
così teso mentre ascoltava il racconto. In bagno si accorse di avere
un colore spaventoso, si sentiva bloccato e gli facevano male le
mascelle. Mise i polsi sotto l’acqua fredda e sentì il sangue che
riprendeva il circolo. Si rinfrescò gli occhi sciacquandosi la
faccia poi risalì le scale.
“Grazie...ne
avevo bisogno…”
“Che
grazie...ne avevo bisogno anch’io. Sono andato qui.” il padrone
di casa indicò la porta sul corridoio. “ Si, però è quasi ora
di pranzo…ti fermi qui? “ Chiese senza grande convinzione.
“No
no...continua, quando finisci mangi. Io vado via…”
“
Come vuoi...è ancora lunga però…”
“ E
tu non perdere tempo, vai avanti.”
“Quei
tre delinquenti, dopo aver commesso l’omicidio, non seppero più
che fare...il più grande;Michele, prese il cavallo col carro e
caricarono il cadavere della giovane lungo sul pianale poi,
falciarono erba fresca par il cavallo e lo coprirono con quella e col
carro pieno d’erba che ricopriva il corpo della povera ragazza, lui
e Antonio tornarono in paese, mentre l’altro:Vincenzo, il guardiano
dei porci, tornò al suo lavoro e alla masseria.”
“
Col cadavere della poveretta sotto l’erba? Ma questi non erano solo
delle bestie, erano forse pazzi? Ma come portano il cadavere di Lucia
in paese?”
“Noooo,
quelli hanno fatto un casino…ma non erano pazzi…quelli hanno
fatto di tutto per farsi dichiarare incapaci di intendere e volere,
ma non ci sono tiusciti.”
“Volevano
farsi dichiarare pazzi?”
“Sapevano
che così avrebbero preso poca galera...hanno portato delle false
testimonianze di loro amici per dire che erano solo dei poveri
cretini...ma il giudice non gli diede retta...per niente proprio!.”
“ E
poi?..” ormai Antonio Fortinterra aveva lo stomaco chiuso che
premeva sotto la gola.
Il suo
narratore riprese.
“ E
poi... una volta arrivati in paese, tolsero il cavallo da sotto il
carro e lo lasciarono davanti alla porta di casa, abitavano subito
dopo l’arco della pescheria. Sai dov’è no?..”
Un
muto cenno di assenso con la testa lo convinse ad andare avanti, il
giovane era diventato bianco come un cencio, il suo stato febbrile
sembrava tornato ed ora lo stava sfiancando.
“ La
sera il fidanzato si fece vedere in piazza a passeggio con un suo
amico, un macellaio del paese col quale erano in rapporti molto
stretti, ad un certo punto, gli andò incontro il suo amico Pasquale
Torvino, Il marito di Ninetta”. Lo sguardo interrogativo verso il
suo ascoltatore ricevette un cenno di assenso, poteva continuare.
“
L’uomo non capiva come il suo amico potesse essere il responsabile
della scomparsa della cognata, visto che lo vedeva passeggiare
tranquillo in paese con l’amico. Per Antonio Miro fu facile
convincere Pasquale del fatto che lui non sapeva niente di dove fosse
finita Lucia, insinuò perfino che lei fosse andata a casa di un uomo
sposato con cui pareva avesse una tresca. L’amico lo guardò
allibito per quelle insinuazioni, ma non poté fare altro che tornare
a casa dalla moglie senza sapere cosa altro fare. Ninetta però non
voleva saperne di calmarsi, lei continuava a sostenere che sentiva
che la sorella gliela avevano uccisa e non voleva sentire ragioni di
aspettare.”
“ Ma
quello con cui stava parlando Antonio Miro non ne sapeva niente?”
’Ntonuccio aveva l’urgenza e la commozione che gli stringevano la
gola, come se coi suoi suggerimenti potesse ancora fare qualcosa per
salvare la ragazza uccisa più di ottanta anni prima.
“
Non so...non possiamo dire di cosa stessero parlando quei due. Ti
posso solo dire che quando ci fu il processo, quell’uomo era stato
chiamato a testimoniare, ma lui non si presentò. Tre giorni prima
era emigrato da qualche parte ma nessuno sapeva dove. Aveva lasciato
la moglie e sette figli in paese, regalato via un negozio di
macelleria e partito in tutta corsa.”
“
Partito...era scappato, non partito...il bastardo!”
“
Non lo sappiamo e non possiamo dirlo, anche se tutto il paese diceva
proprio quello che dici tu.”
“
Beh, vai avanti per favore…” Il giovane sembrava rassegnarsi come
se l’uomo fosse partito solo da poco, quasi che lui avesse potuto
fermarlo se solo avesse capito prima le cose.
“
Beh la sera non si fece niente e neppure il giorno dopo, tutti si
aspettavano di veder comparire da un momento all’altro la ragazza
scomparsa. I due fratelli assassini invece, il mattino seguente si
misero in moto molto prima dell’alba e ripreso il cammino col
carretto dove tenevano nascosto il cadavere, si recarono al pozzo
della chiusa Leccesi, appena fuori del paese, quella dietro la villa
comunale...” si interruppe per verificare che il suo ospite avesse
capito “...forse tu non sai dov’era, vero? Quella non c’è più
da un sacco di tempo…”
“So
benissimo dov’era, quando ero ragazzo io c’era ancora…ho
cinquant’anni anni, non sono nato ieri.Vai avanti...”
“
Ah…’mbé sei giovane....allora...quegli scemi si fermarono vicino
al grande pozzo e gettarono il cadavere della povera ragazza. Poi
scaricarono l’erba che l’aveva ricoperta in una cunetta di fianco
alla strada e se ne andarono al lavoro nei campi.
“
Cristo!” gli uscì dalle labbra secco come un chicco di grandine
espulso da un colpo di tosse, Il vecchio si girò a guardarlo
accigliato, quella era una casa timorata di Dio e il nome di Gesù
sparato in quel modo non era una cosa delicata nei confronti dei
padroni di casa.
”
Scusami, non volevo...non era un’imprecazione anzi...Ma la gente
non beveva l’acqua di quel pozzo…”
“Certo
che sì!”
“...Che
schifo!”
“Oh...ma
a quel tempo ce n’erano di cadaveri nei pozzi…e chi poteva dire
dove finivano tutte le persone scomparse? Solo ogni tanti anni(
quando si puliva un pozzo) si ritrovavano le ossa di persone ed anche
animali…ci buttavano dentro tanta di quella calce viva per
disinfettare che l’acqua non si poteva bere per parecchie
settimane...”
“Ma
l’acqua?...Non puzzava l’acqua...non si sentiva il fetore?”
“Ehhh,
a volte si, l’acqua si guastava, ma con tutta quella che tiravano
fuori per abbeverare gli animali...dopo un po’ uno ci faceva
l’abitudine al sapore dell’acqua e pensava che non era granché
buona, ma…quella c’era...”
“
Madonna che tempi…” ‘Ntonio aveva perle di sudore sulla fonte e
le mani sudate.
”
Riprendi per favore.”
Chironti
tirò un sospiro, come si ricaricasse pazienza ed energia e riprese
dal punto interrotto. L’ anziano, una volta ripreso il filo, stava
dimostrando una mente lucidissima sugli avvenimenti di tanti anni
prima, pareva che i ricordi gli sfilassero davanti agli occhi come
un film limpido. Muoveva gli occhi azzurri e scaltri. Come ne
seguisse le immagini.
“...Lucia
aveva un cagnolino che la seguiva dappertutto...quello...sembrava
impazzito da quando la ragazza era sparita, non si ritirava più a
casa, continuava a cercarla per il paese e la sera si era nascosto
sotto il carro sotto l’arco della pescheria. Ehhh...quello aveva
trovato la sua padrona, s’era accucciato sotto il carro e lì era
stato tutta la notte.. Il mattino dopo, quando i due fratelli presero
il carro lo cacciarono via, quello...all’alba tornò a casa da
Ninetta...quella lo vide macchiato di sangue e pensando che il cane
aveva litigato con altri animali lo lavò. Ma quando lo ebbe
asciugato, si accorse che il cane non era ferito e cominciò a
gridare che quello era il sangue della sorella.”
“ ma
Lucia non era stata soffocata?”
“Si...ma...quella
si era ferita sulle tavole del carro e...il sangue colava dalle
tavole...qualche goccia, mica chissà cosa…”
“ E
proprio quello si era messo sotto il carro…che se non ci fosse
stato il cane, quello...il sangue si sarebbe visto per terra,sulle
pietre...ma non c’era niente...”
“ E
lei l’aveva lavato...aveva lavato il sangue della sorella…”
“...Ahhh ragazzo, quella aveva capito tutto...poi Gisella e la
vecchia madre, non aspettarono un minuto. Passarono tutta la giornata
in caserma cercando di convincere i carabinieri ad intervenire, ma
non riuscirono ad ottenere niente, quelli erano convinti della
fuitina della ragazza. Alla fine (ormai il cielo andava
scurendo) si recarono dal cugino della madre, zio in seconda di
Lucia.
“
Chi era questo “ chiese ‘Ntonio. Ogni tanto il racconto dello
vecchietto, si arricchiva di una nuova figura e lui doveva
incassellarlo in quel puzzle disarticolato dai tanti anni passati.
“
Non so se lo conosci...quello era già di una certa età allora...tu
ti ricordi di Collerosso?”
“
Chi...quello con il negozio di…”
“Sì,
proprio quello col negozio di fronte al Mulino ...quello che aveva
sempre i caciocavalli appesi fuori. Te lo ricordi?
“
Si, certo…” come distaccato per un momento Antonio mise a posto
il nuovo arrivato e si concesse un sospiro “Ho capito…”
“ Il
padre del negoziante era da anni il comandante delle guardie
campestri del paese e, le due donne, riuscirono ad ottenere il suo
intervento presso la caserma dei carabinieri. Il mattino dopo il
maresciallo finì col cedere alle insistenze dell’amico e consentì
a mandare una coppia di carabinieri con il carro da cacciatori, fino
alla masseria del Rocchione. Forte della sua amicizia coi militi,
anche allo zio fu consentito di andare a cercare la nipote. Alla
masseria. Sai dove si trova?
“
Si”
”
...e però non trovarono nessun altro che il porcaro e la sua
famiglia. Vincenzo Miro affermò con forza che lui non sapeva niente
della ragazza, non l’aveva vista per niente, ma una delle bambine
disse che lei aveva giocato la mattina prima con la zia, poi era
venuto zio Antonio a prenderla. Ma Vincenzo, dopo aver lanciato una
occhiata che aveva ammutolita la bambina, continuava a dire che era
una donna di Serra che lo zio aveva portato, probabilmente la sua
fidanzata, ma di Lucia lui non ne sapeva niente. I due carabinieri
(erano due giovani del nord, uno era Trentino e uno...non so di dove,
mi pare fosse di Faenza...) si fecero convincere dalla guardia
campestre (...quello era una autorità in paese...aveva due baffoni
alla Vittorio ’Manuele…) a condurre il porcaro in caserma e,
lungo il viaggio verso il paese, fecero finta di non accorgersi che
il comandante delle guardie campestri continuava ad intimidire il
sospettato con la possibilità di un grave reato se non confessava.
Ad un certo punto gli tese la trappola: disse che i suoi fratelli;
Antonio e Michele, avevano già detto tutto, che Lucia l’aveva
uccisa lui.
Gli
diceva pensaci, pensa ai tuoi bambini, hai cinque figli piccoli, tua
moglie...come fai tu, tu finisci in galera a vita e loro si salvano.
Lo zio
di Lucia non aveva dato all’uomo un secondo per riflettere, ma ora
si andava convincendo che non avrebbe ottenuto nessun risultato poi,
proprio quando stavano arrivando al paese e il capo delle guardie
campestri aveva ormai perso la speranza di cavare un ragno dal buco,
il porcaro scoppiò a piangere e confessò l’omicidio.
Disse
che non era stato lui ad ucciderla, ma spiegò tra le lacrime come
fosse avvenuto. Disse tutto tutto, anche della violenza carnale e del
fatto che i due, Antonio e Michele avevano portato via il cadavere e
che lui però non sapeva dove l’avessero nascosto.
Chironti
continuò: “Nel paese, dove la voce dell’arresto li aveva
preceduti, la gente si era riversata fuori dalle case ed ora il
calesse dei carabinieri era costretto a rallentare attraversando un
fiume di persone di tutte le età che tentavano di dare l’assalto
al carro e di mettere la mani addosso al disgraziato. Il percorso
fino alla caserma fu un vero calvario…” il vecchio sorrise al
ricordo che gli si schiariva sempre di più, come se rivedesse la
scena ”...C’era tutto il paese! Quello...uno degli zii della
ragazza (il fratello della guardia campestre) mi diede un calcio nel
sedere…”
“Peché?”
“...Ehh perché... perché quello... io gli stavo tra i piedi e
lui voleva assaltare il carro...E mentre correva verso il carro, era
inciampato su di me. Quello sembrava fuori dalla grazia di Dio...una
furia… I Collerosso erano tutti rossi, lentigginosi di pelle e
avevano i capelli come fili di rame, agitato come era, quello era
diventato come un tizzone...faceva paura. Io avevo sette anni, che
volevi...ero curioso, volevo vedere il porcaro, che...quello non
smise un attimo di piangere. Era Terrorizzato!
Lì
non si capiva niente...le grida delle donne, i giovani...e dai
tentativi dei parenti di Lucia di mettergli le mani addosso, fu un
brutto quarto d’ora per lui...per lui e per tutto il paese.”
disse con aria mesta.
“
Quando finalmente fu al chiuso, nella cella di sicurezza della
caserma, l’uomo smise di piangere. Poi terminò la sua
confessione.”
“Disse
tutto?”
Disse
tutto….disse tutto quello che lui sapeva. D’altronde, dove fosse
il corpo della ragazza, quel disgraziato non lo sapeva davvero. I
militi dovettero fare non pochi sforzi per impedire allo zio della
ragazza di uccidere quel disgraziato con le sue mani.”
“
Avrebbero dovuto lasciarlo fare…”
“
Ehhh...quello lo avrebbe ucciso davvero. Chiunque lo avrebbe ucciso
in quel momento.”
“
Dovevano consegnarlo alle donne.”
“
Oddio...quelle lo avrebbero lapidato!”
“Avrebbe
dovuto andare proprio così!”
Il sole si era
girato e si andava nascondendo dietro i castani che circondavano il
campanile del Santuario di rana. Le ombre della collina cominciarono
a regalare un poco di frescura. La giornata stava volgendo al
crepuscolo. Antonio si rese conto che era meglio se avesse lasciato
raccontare senza interrompere continuamente il suo amico.
“Poi?”
“
Una volta messo in cella Vincenzo, i carabinieri si recarono a casa
dei Miro per cercare gli altri due fratelli. Gli uomini però non
c’erano, al loro posto trovarono la figlia femmina che era un
vipera, gridò un sacco di improperi contro i militi. Ignara della
confessione del fratello assalì i gendarmi a male parole e
maledizioni, gli disse che quella ragazza era un poco di buono e
chissà nel letto di quale uomo del paese si era ficcata. Che se le
avessero fatta la pelle per lei se l’era andata a cercare. I
carabinieri le avrebbero volentieri chiuso il cielo fuori da una
cella anche a lei, ma la signorina era ancora minorenne e loro non
poterono dar corso alla loro voglia. Michele e Antonio intanto, dopo
aver gettato la ragazza nel pozzo, se ne erano andati in campagna a
lavorare la vigna, in contrada Pietre cipolle, (un posto che
era il grato secco di un torrente asciutto pieno di pietre tonde e
bianche come ossa sbiancate dal sole).
Tornarono
la sera tardi e quando furono a casa, informati del fatto che erano
venuti a cercarli i carabinieri, dissero di non temerli affatto, che
loro non ne sapevano niente e potevano stare tranquilli, i due
assassini erano all’oscuro del fatto che i carabinieri avevano
preso il fratello e che questi aveva confessato, i gendarmi intanto
si erano convinti che avevano ragione la sorella e la madre della
ragazza. Dovevano chiamare i sommozzatori per ispezionare i pozzi del
paese, ma da quale avrebbero dovuto cominciare? Le case del paese
avevano quasi tutte un pozzo interno e tutto intorno al paese stesso,
le campagne erano piene di cisterne per la raccolta delle acque. Le
masserie poi ne avevano di quelli molto grandi e profondi da dove
cominciare quindi? “
Antonio
rimase in silenzio come sfinito, ormai arreso al dolore di una
constatazione di morte che solo il ritrovamento del cadavere poteva
dargli. Come se non avesse ancora la certezza (quasi un secolo dopo)
della crudele morta di Lucia.
“
...I Carabinieri passarono tutta la giornata seguente alla ricerca di
qualche traccia da seguire, vennero anche i militi dei paesi vicini,
cercarono tutto il giorno, ma senza trovare il cadavere e senza il
cadavere, non avrebbero potuto eseguire l’arresto dei due accusati
solo dalla confessione del fratello, se si fosse rimangiato le parole
dette non avrebbero potuto trattenerli in cella.
Il
mattino dopo però, i militari furono allértati ben presto dal
comandante delle guardie campestri, il quale aveva chiesto a tutti i
suoi subalterni di fare un giro di ispezione appena si sarebbero
alzate le prime luci dell’alba.
Una
delle guardie scoprì un carico di erba falciata per le bestie,
gettata proprio vicino ad un pozzo, appena fuori del paese, nella aia
chiusa di una fattoria abbandonata che veniva usata solo d’estate
per trebbiare il grano.
Quell’erba
era strana, non sembrava crescere in quel posto pieno di cardi, di
fratte di ginestre e di canneti. Chiamarono immediatamente i
sommozzatori dell’arma e li guidarono a quel pozzo.
Come
doveva essere, trovarono il cadavere della ragazza e mentre i
sommozzatori dei pompieri lo tiravano fuori dalla cisterna, i
carabinieri si recarono a casa dei Miro, sotto l’arco della
pescheria, e li arrestarono.”
L’anziano
andava avanti per sommi capi ormai, l’ora di pranzo era stata
superata e i due non avevano più molte energie da spendere su una
storia che sembrava concludersi col ritrovamento del corpo della
ragazza. Il racconto diventava più scarno ma per Antonio Fortinterra
conservava ancora tante sorprese, il suo ospite riprese .
“...La
gente del paese aveva saputo della cosa e si era radunata tutta sulla
piazza, intorno alla fosse comunali del grano. Avevano il fuoco negli
occhi ed aspettavano di poter vedere portar via i due assassini. Il
fatto che avessero violentata la ragazza, specie per il più grande
dei due, Michele, sposato e con sette figli (i primi quasi coetanei
della povera fanciulla) li aveva resi furiosi, li volevano uccidere
loro stessi, con le loro mani.
E lo
avrebbero fatto davvero! “ sorrideva cinico mentre lo diceva, si
capiva che ci credeva ancora oggi alla determinazione dei suoi
concittadini. Continuò senza bisogno di incoraggiamenti.
“I
carabinieri capirono che non fossero riusciti a proteggere i due
assassini fino alla caserma, i paesani li avrebbero fatti a pezzi.
Per
arrivare in caserma, avrebbero dovuto per forza attraversare la
piazza. Allora chiamarono il custode del macello del paese, legarono
il cavallo al carro col quale i macellai trasportavano le bestie da
macellare e la carne alle macellerie e lo portarono davanti alla casa
dei Miro, poi fecero li fecero salire sul rimorchio insieme al padre
(accusato di aver indotto i figli all’assassinio e di complicità
nella loro copertura dopo l’omicidio) e li portarono in caserma.
Per
quanto difesi dalle pareti che chiudevano il carro del carro, i tre
furono maltrattati da qualsiasi cittadino del paese, specie dalle
donne. Perfino i famigliari della moglie di Michele erano tra la
gente a gridare la fame di vendetta.
Gli
tirarono sassi, sputi, calci e cazzotti, gli graffiarono la faccia e
gli morsero le mani, i due tremavano davvero per la loro sorte. La
moglie quella...Funzenella...maledì il marito per aver trascinata
tutta la famiglia nella vergogna e alla rovina, fece lo stesso con i
figli, nel vederli trasportare via con la certezza di quella accusa,
li maledisse e gli gridò piangendo che non avrebbe mai voluto
partorire animali così, che loro non avrebbero mai più uscire di
prigione e se fossero scampati alla galera non si osassero mai più
tornare a casa.”
Antonio
si sentiva smunto. Aveva ascoltato inorridito il racconto fino al
ritrovamento del cadavere della ragazza, ora stringeva i pugni e le
mascelle come se stesse in piazza in mezzo agli altri, pronto a
colpire quei delinquenti con la stessa rabbia di tutti i suoi
concittadini.
Era
sicuro di come si dovevano sentire i suoi compaesani in quel momento.
Quella
tragedia li aveva sconvolti tutti, offesi fino in fondo all’anima.
La
brutalità di tre uomini, due dei quali sposati con figlie dell’età
della giovane violentata ed uccisa praticamente dall’intera
famiglia, poiché la fine di quella ragazza era stata pianificata in
casa, e i lupi avevano agito in branco contro un agnello innocente,
al quale era stato fatto credere che era partita per coronare il suo
sogno.
La
gente del paese si era sentita tradita come fossero una persona
sola!”
L’anziano
Ghironti, sorseggiò un poco d’acqua da un bicchiere, ne porse uno
anche al suo ospite, Antonio lo guardò per un lungo attimo, con lo
sguardo perso nel vuoto poi lo prese come fosse intontito. Lo portò
alle labbra come un automa, solo quando l’acqua gli scivolò fresca
in gola, si accorse che le labbra erano dure e la gola, arida,
bruciava.
Le
tempie erano perlate di sudore freddo.
“
Come è finita? “
“Ragazzo
ma tu stai male, sei sicuro che questa storia, morta e seppellita un
secolo fa tu devi per forza saperla tutta?”
“
Già, proprio così: per forza . Ho cinquant’anni e continui a
chiamarmi ragazzo?”
“
io ne ho ottantatre...tu sei un ragazzo...e allora che ti devo dire
ancora?”
“ La
gente che li assediava, ti ricordi se c’era tanta gente, se c’era
qualcuno schierato dalla loro parte? Chi c’era?Ti ricordi qualcosa
che è successo in quel trambusto?”
“
Ehhhe, che vuoi che ti devo dire...avevo solo sette anni, mi ero
ficcato tra le gambe della gente per vedere. Lo zio di Lucia,
Collerosso, quello che aveva un negozio sulla via Mucedola, mi ha
preso e mandato via perché voleva arrivare al carro, li voleva
uccidere colle sue mani…la gente...c’era tutto il paese, tutto!
Le donne i bambini. Le donne se li volevano mangiare se li volevano.
Poi avessi visto al processo...la fine del mondo…”
“Sono
stati condannati?”
“Eccome
se sono stati condannati, hanno dato l’ergastolo a i figli e
vent’anni al padre.” tacquero entrambi esausti. Dopo un minuto
interminabile Antonio realizzò che il racconto era finito.
“
Sono usciti di prigione?”
“No,
questo io non lo so, quando io sono emigrato dal paese quelli stavano
ancora in prigione, dopo qualche anno, qualcuno di loro era pure
morto, non so chi…l’ho saputo quando tornavo in ferie al
paese...poi non ho più saputo niente. Se non venivi tu fuori con
questa storia, neppure me la ricordavo più. Ma tu, a te come ti è
venuta in mente questa cosa? Che sei parente di Lucia? Ho visto che
ingoiavi le lacrime...che cavolo quello è successo quasi un secolo
fa…”
“
Era il millenovecentoventisei…ottanta anni fa.” Antonio
Fortinterra si era alzato e stava per congedarsi “...era il
venticinque di aprile...Tu sai dove é finita la famiglia di Lucia?”
“Ehhh
quella era una famiglia grande imparentata con altre famiglie grandi,
erano una marea di figli, una di persone erano...poi c’è stata
l’emigrazione, siamo andati via tutti…”
“Anche
loro?”
“Che
ne so io? Io suppongo di sì...si partiva tutti allora...ma io sono
partito uno dei primi dal paese, dopo di me non posso sapere cosa
avvenne. “
“ E
quando tornasti?”
“
Quando tornai...dopo tanti anni, io non trovai mai più nessuno di
questi. Non ho mai più sentito parlare di loro.”
“Pensi
che siano partiti?”
“Certo
anche loro, come tutti, prima di tutti!”
“ E
tu sai dove possono essere andati?”
“ E
dove vuoi che siano andati? Qui! A Torino!”
Antonio
sembrò svegliarsi d’un botto, una sferzata sulla schiena avrebbe
ottenuto sicuramente un effetto più blando.
“ La
famiglia di Lucia é qui a Torino?”
“ La
famiglia di Lucia e la famiglia di chi l’ha uccisa!”
“
Anche i Miro sono qui a Torino? Pazzesco!”
“
Quello…” prese fiato come se un nodo alla gola le impedisse di
proseguire un percorso doloroso.
“...quando
siamo emigrati, tutti qua a Torino venivamo dal paese, riempivamo il
treno che saliva dal sud, tutti a lavorare alla Fiat, poi qualcuno
s’è spostato da altre parti, ma prima tutti qui eravamo. Tutti
intorno alla Fiat.”
“
Dove li posso trovare, dove devo cercare?” si erano mossi
lentamente, continuando a parlare ed ora erano sulla porta, la mano
tesa, pronta per salutarsi.”
“Ehhh...Dove
li vuoi trovare, avevo sette anni io e loro avevano figli più grandi
di me, saranno morti da tempo…”
Antonio
salutò il vecchio compaesano chiedendogli scusa per il tempo che gli
aveva fatto perdere.
Davanti
al portoncino dell’ingresso c’era ancora la scala col pennello
appoggiato sul gradino.
“
Non te l’hanno nemmeno rubato.” scherzò l’uomo col suo anziano
amico.
“
Sehhh, stai fresco...sono attrezzi di lavoro...chi te li ruba?” Il
vecchio volpone aveva di nuovo il ghigno da faina, da marinaio di
lungo corso che ne aveva viste di tutti i colori nella vita, quel
ghigno lo aveva difeso da un sacco di temporali.
“
Ciao guaglione, vienimi a trovare quando vuoi. Mi fa piacere se mi
vieni a trovare.”
“
Si, tornerò a trovarti presto. E parcheggerò lontano, non temere
per il tuo parcheggio.” Scherzò.
Salvatore
Chironti si aspettava la sottile battuta sulla difesa del suo spazio
con la quale aveva accolto il compaesano, salutò con una mano senza
rispondere, sorrise al suo ospite, e ondeggiò la mano in un cenno
eloquente che lo invitava ad andare scherzosamente al suo paese.
Lungo
la strada, ‘Ntoniuccio si ritrovò a cercare di cantare la Canzone
di Lucia, così l’aveva ribattezzata. La canzone gli ritornò
sulle labbra con un filo di voce e lui se ne accorse solo dopo che le
parole, automaticamente gli vennero fuori con voce più alta, capì
che le stava cantando solo quando l’abitacolo della macchina gliele
restituì alle orecchie in modo cosciente. Si rese conto di essere
stato come in un stato incosciente fino a quell’istante.
Tutto
é f’inito, tutto per noi é cambiato
da
quando abbiamo ucciso il primo amore
io
maledico il giorno quando è stato
e
Dio non mi perdona questo pensiero
addio
Lucia addio muoio in galera…
Trasalì
spaventato, un brivido lo fece ritornare in sè, come aveva guidato
in quello stato?
Non si
ricordava niente della strada percorsa, non sapeva se era passato col
rosso al semaforo, sperò di non averlo fatto, non ricordava suoni di
clackson di protesta, ma questo non significava niente. Un lampo
gelido gli attraverso la schiena e le mani diventarono appiccicose
sul volante mentre gli tornava quel sudore freddo sulla fronte. La
canzone continuava ad uscirgli da sola dalle labbra secche, mentre
lui sapeva che la sua mente stava pregando.
Non
aveva mai pregato coscientemente, la sua convinzione era che fosse
completamente ateo, ma da un po’ di tempo si ritrovava a rivolgere
delle preghiere molto sentite, senza sapere a chi si stesse
rivolgendo. Quando una volta ci aveva pensato, gli sembrò di
scrivere delle lettere e non sapendo a che indirizzo spedirle, di
metterle in un baule in una soffitta segreta del cuore.
Sorrise
di sé sentendosi un poco scemo.
Gli
sembrava che quel muro fortificato a difesa del ragazzo ramingo che
aveva passato una vita da solo, senza poter concedere a se stesso
momenti di rilassamento, costretto com’era a non cedere al nemico.
Ma
quale nemico lo stava assalendo che l’aveva costretto ad erigere
una così massiccia difesa? Era riuscito nell’intento? O quel muro
lo aveva semplicemente tenuto prigioniero, isolandolo dagli altri e
da Dio, per tutti quegli anni?
Ora si
accorgeva dello sbriciolamento della grande massicciata, in un posto
che non era stato tenuto sotto l’occhio vigile della sua coscienza,
un angolo del terreno si era mosso e molte pietre erano rotolate via
aprendo una falla.
Era
strano ma dall’interno della sua roccaforte, attraverso quella
breccia, poteva vedere un prato ordinato, l’erba rasa, come se un
giardiniere capace se ne stesse prendendo cura. Era d’un verde
splendido, pulito e trapuntato di tante margheritine bianche e
primule d’un viola cosi morbido che sembrava velluto. Il prato al
di là del muro sembrava inondato di sole, mentre l’interno della
sua fortezza era terra battuta, grigia, polverosa e arida, dura e
consumata dai passaggi delle sentinelle di guardia. Ma chi aveva
montato quei turni di guardia, se lui dentro quel maniero era sempre
stato da solo? Era sicuro che non ci fossero altri? Ma si, ma certo
che non c’era nessuno, era solo da sempre, questo lo sapeva.
Periodicamente
aveva ricevuto delle visite, aveva la sensazione di aver passato
anche momenti di allegre gozzoviglie, di scorribande di amici che,
come una rimpatriata di pirati, avevano passato delle serate
concedendosi copiose libagioni, cantando tutta la serata vecchi canti
di battaglie sessantottine.
Ma
appena si spegneva l’eco di quelle serate di sbronza, il silenzio
della sua prigione lo aveva avvolto isolandolo di nuovo dal mondo.
Era lo stesso quando a venirlo a trovare era qualche nuova avventura
amorosa.
Appena
saziata la solitudine del corpo con lunghe estenuanti battaglie di
letto, alla fine restava da solo nelle lenzuola sudate che gli si
freddavano addosso velocemente.
Poi
però trovò strano essere finito in quei pensieri, come ci era
arrivato? Non stava cantando Lucia?
Cercò
di risalire la china riavvolgendo il nastro della memoria seguendo i
suoi pensieri a ritroso, si ritrovò con una lettera in mano.
Ne
riconobbe la caligrafìa, era la sua, ma a chi la doveva mandare?
Ecco era arrivato all’origine di quella similitudine che l’aveva
rapito, la preghiera che non sapeva a chi rivolgere. Si diede dello
stupido. Stupido da molto più tempo, di quanto non ne fosse
cosciente. Si rese conto che aveva scritto tante di quelle lettere da
tanto tempo, da averne un baule immaginario quasi pieno dentro il suo
cuore.Sorrise di sé. Si chiese perché mai l’avesse fatto, quello
per lui era un terreno minato, territorio altrui, come lo aveva
sempre definito, che c’entrava lui su quella strada? Ma poi,
proprio mentre si stava ripromettendo di riparare quella breccia nel
suo muro, si disse che sì, insomma, anche le e-mail che scriveva ad
amici, lui le spediva dal suo computer senza sapere come succedeva,
ma dall’altra parte quello a cui la indirizzava, inspiegabilmente,
la riceveva, forse sarebbe stato così per quelle sue preghiere senza
un indirizzo preciso a cui spedirle. Sorrise di nuovo, le pietre che
aveva pronte per riparare la sua difesa gli caddero dalle mani, si
arrese.
Non
aveva capito neppure come fosse successo che Lucia si fosse
impadronito di lui, attraverso quali strade fosse giunta nella sua
testa e nel suo cuore, ma sentiva che riparare quel muro significava
chiudere fuori anche lei e questo pensiero lo bloccò. Non avrebbe
mai accettato di cacciare da sé quella ragazza che lo aveva cercato
e scelto, decise che avrebbe lasciato quella breccia aperta in lui,
in modo che il nuovo, quello che doveva arrivare, la vita, potesse
raggiungerlo a suo piacere.
Non
comprese come fosse avvenuto, non si era minimamente concentrato alla
guida, ma ormai era nella curva del vecchio mulino ad acqua del suo
paese, a trecento metri dalla sua borgata, dove la sua casa dipinta
di giallo, di cui intravedeva i muri e il tetto, si rivelava da
lontano tra le foglie dei faggi e i frassini. La strada era uno
stupendo tunnel tra il verde dei prati coltivati a fieno e i rami
penduli degli alberi. Quell’andare della stradina di campagna,
seguendo le dolci curve dei crinali che seguivano sui fianchi le
cunette colme d’acqua che scendeva dal Colle del Ferro, lo rilassò
come ogni volta. L’acqua saltava e cantava allegra nei balzelli sui
grossi massi che la costringevano immobili a gorgogliare tra loro.
Il
volto ancora tirato col quale arrivò a casa, fece un po’
preoccupare la moglie, alla quale però bastò ascoltare per grandi
linee, quello che aveva saputo il marito di Lucia, per commuoversi e
sbiancare in volto anche lei.
“
Dio mio che animali! Povera ragazza. Cosa farai ora?”
“Devo
trovare quei benedetti fogli, da qualche parte devono pur
nascondersi!”
“ A
cosa ti possono servire ormai quei fogli, sai tutto di Lucia ora, la
canzone, le parole, tutto com’è che è andata la sua triste
storia, cos’altro possono darti quei fogli?”
“Erano
importanti per il professore di musica, me li affidati, non posso
averli buttati via.”
“
Saranno nascosti in qualche posto per te sicuro, che ora non ricordi
più, non fai sempre così? Vedrai che prima o poi verranno fuori.”
“
Quando?”
“
Quando avranno deciso di farsi trovare da te.”
“
Hhhhum...hanno una volontà loro?
“
Certo che ce l’hanno. Quando avranno deciso che è il momento
usciranno fuori. Te li devi meritare...” La moglie di Antonio era
fatalista. Fortemente credente, al contrario del marito, aveva sempre
creduto che qualcosa di magico, un inafferrabile segreto, dominasse
il tutto e combinava tra di loro le cose.
Lui
rinunciò a cercare i fogli ora, era quasi ora di cena ormai. La
donna stava già armeggiando in cucina.
“
Cosa dobbiamo preparare? C’è anche il ragazzo stasera?”
“
Certo che c’è, è giovedì, lo sai che c’è!” era
stanco“...non so più nemmeno che giorno è, giovedì... Di già?”
poi guardando nel vuoto davanti a lui chiese di nuovo “ cosa
facciamo per cena?”
“
Non so, vuoi che vi faccia la pizza?
“
Noo! La pizza la facciamo sabato sera che viene a vedere le
partite...lascia perdere la cucina tu, ci penso io.”
“
Sei sicuro? Sembri così...stanco. ”
“
No...va tutto bene, mi servirà a distrarmi…”
“
Come vuoi tu, io allora, vado a stirarmi un po’ di divise e delle
tue camicie.”
“
Hhhh...va bene.”
La
storia di Lucia aveva complicato non poco la sua vita e lui passava
buona parte del giorno a cercare quei documenti bizzosi e buona parte
della notte a prendere nota di ogni notizia che trovava su internet.
Cercava i compaesani emigranti e ricostruiva i rapporti familiari per
riuscire a capire in che modo risalire a Lucia.
Quella
sera era arrivato ad individuare un gruppo di gente col cognome dei
Miro, ma pareva che nessuno venisse dal suo paese, molti di loro,
avevano detto al telefono di essere originari di Ancona, altri
dicevano di provenire dalla Ciociaria, altri da vicino Salerno,
nessuno di loro sembrava conoscere il suo paese nativo. Non era però
ancora riuscito a trovare tracce della famiglia di Lucia. All’ora
di andare a letto dovette arrendersi. Non aveva neppure un filo da
seguire.
Il
vento forte che scendeva dalle Alpi, muggiva tra i rami degli ontani
e dei salici sul Sangone e il rumore arrivava fino a loro,
attraverso le finestre che davano sul lato destro del fiume, appena
ovattato e reso più cupo dalla distanza. Quel lugubre latrato
notturno sembrava la colonna sonora dei suoi pensieri. Si addormentò
senza accorgersene.
Capitolo
ottavo
Ecco
il tesoro
Il
sonno indotto dai farmaci lo faceva addormentare appena posava la
testa sul cuscino. Sfogava il suo sonno più profondo in
quattro/cinque ore al massimo, poi si svegliava ed era subito lucido.
Negli ultimi anni di lavoro, aveva svolto un turno impossibile per
ogni altro, ma lui non riusciva a dormire oltre le tre di notte ed il
suo turno che iniziava alle quattro e venti, gli sembrava ideale per
uno che non avrebbe mai accettato di rinunciare ad assistere al
magico momento del sorgere del sole. Era estasiato dall’alba,
quello spettacolo, qualsiasi fosse il vestito che il cielo avesse
indossato, ogni mattino aveva su di lui, il potere di appagarlo di
qualsiasi sacrificio. Anche ora, con gli anni molto avanti e con le
energie che necessitavano di un più lungo riposo per ricaricarsi,
lui non riusciva a non svegliarsi prima dell’alba per assistere a
quello miracolo che, per quanto fosse una replica quotidiana, era
diverso ogni giorno. Alle quattro meno un quarto si rigirò nel
letto, si alzò per andare in bagno e, prima ancora che ne facesse
ritorno sentì di nuovo quella febbre dei giorni passati, che
l’assaliva. D’un tratto gli fu tutto chiaro! Come aveva fatto a
non pensarci prima? Benedetto il signor Chironti e la sua bella età.
Aveva avuto un bel colpo di fortuna ad incontrarlo. Però accidenti,
ora era notte fonda e lui avrebbe dovuto aspettare che aprissero gli
uffici per poter verificare la sua intuizione. Come poteva dormire
più? Questo pensiero gli sembrò immediatamente fuori luogo, accese
il suo computer portatile, rabbonì la povera moglie che protestava
per quello sciagurato che la svegliava tutte le notti a quell’ora,
si ricacciò seduto sotto le coperte e si collegò a internet. Dopo
mezz’ora aveva salvato tutti i file riguardanti i cognomi della
famiglia di Lucia e quelli dei Miro residenti in Torino e Provincia.
Poi
passò al setaccio i file riguardanti i vari cimiteri della provincia
e del capoluogo piemontese, si appuntò ogni numero di telefono
utile, dopodiché aspettò che gli uffici aprissero.
Ora
aveva un filo da seguire. Quell’incredibile intrigo gli aveva
rapito dal sonno per molte delle notti degli ultimi mesi, lo aveva
ubriacato pian piano, ma non gli aveva mai dato possibilità
riprendersi, da quello stato febbrile che lo spingeva verso la
ricerca di ogni particolare, lo condannava a percorrere una strada
non scelta, lo faceva sentire preda di una volontà non sua ed ora,
gli sembrava che in realtà lui non aveva cercato niente,
qualcos’altro o qualcun’altro, lo aveva spinto ad andare avanti
in quell’unica direzione che lo avrebbe portato (sperava) fino alla
fine.
“Sono
le nove. Non scendi dal letto stamattina?” la moglie aveva passato
metà della notte sveglia per colpa sua, grazie a Dio era di turno
nel pomeriggio e questo le aveva permesso di recuperare un pò di
sonno, altra storia era quando lei si doveva alzare alle sei del
mattino, per il primo turno in ospedale.
“È
mai possibile che non si possa dormire tranquilli una notte da sei
mesi?” lui era spiaciuto dello stress che procurava alla sua donna,
ma fece finta di non udirla, sapeva che era pesante per lei
sopportare quella sua passione per Lucia, ma non se ne preoccupò, la
moglie lo amava e lo avrebbe sostenuto fino alla fine di quel
percorso, come aveva sempre fatto.
” Lo
sai cosa ho pensato di fare, stanotte? Le raccontò tutto il suo
progetto.
“ Tu
devi essere matto, questa storia ti sta facendo impazzire, ora ti
metti a girare cimiteri? Non lasci in pace neppure i morti. Ma
lascia perdere Lucia...la poveretta è morta quasi un secolo fa,
lasciala riposare in pace e così lasci riposare in pace anche me…”
sorrise “ sei come un bambino quando ti metti in testa qualcosa.”
‘Ntoniuccio le scivolò sotto le braccia che lo stavano per
avvolgere, mentre sgusciava dal letto seminudo. Lo svincolarsi del
marito la fece cadere bocconi sul letto.
“ Un
bimbo ho detto? Un bimbo? Ne vali dieci, ma come te ne vai per casa
nudo come un lombrico...Un uomo? Tu sei proprio un bambino!”
Lui
borbottò uno sfottò dal bagno, facendole il verso.
Il
gioco continuò anche mentre facevano colazione e risero.
Le
fette di pane abbrustolito ricoperte di burro e marmellata fatta in
casa, era un premio che la moglie, che lui chiamava, in quei
frangenti, affettuosamente Mamma, amava fargli, sapendo che
prima di mangiarle, il suo uomo si nutriva dell’odore del pane,
rimembrando l’infanzia. Ogni mattina lui le raccontava un aneddoto
della sua infanzia, ogni volta lei restava ad ascoltarlo contenta di
conoscere un particolare in più della vita del suo uomo, poi , quasi
sempre, raccontava qualcosa anche lei e pareggiava il conto.
Quel
mattino lui era preso dalle cose pensate la notte e non abbreviò la
colazione mangiando velocemente le sue fette e riempiendo di briciole
e gocce di marmellata la tovaglia.
“Mamma
ho sporcato qui…” il tono, volutamente piagnucoloso da bambino,
per evitare rimproveri e per farla sorridere.
“ Tu
hai un talento speciale per sporcare dappertutto...” si lamentò
lei sorridendo “...non so proprio...ma come fai?” lui si schernì
“ Ci
metto impegno.”
“Sì,
credo proprio di sì. Nessuno riuscirebbe ad imitarti. Tanto a lavare
ci devo pensare io.”
”Lascia
che ci pensi io Mamma“
“Si?...ci
vuoi pensare tu?”
“...si,
ci posso pensare io, basta che poi lo fai tu!”
“ Ah
ecco! Mi pareva...”
L’avrebbe
stritolato volentieri in quel momento, ma lei era già di nuovo in
cucina con le tazze sporche.
Antonio
trascorse la mattinata al telefono, il giro dei municipi si rivelò
però completamente infruttuoso. Le impiegate si rifiutavano di dare
informazioni telefoniche ad uno sconosciuto, la legge sulla privacy
le obbligava a non fornire informazioni sui vivi.
“ Mi
scusi...Lei dice che non può darmi informazioni sui vivi, vuol dire
che se io le chiedo informazioni sui morti, lei me le può dare?”
“
Certo signore, io e chiunque altro.”
“Allora
mi dica qualcosa di questo Antonio Piro, può dirmi se è morto?”
“
Si, certo! Un attimo che controllo se ci sono omonimi...no, non ce ne
sono, è solo lui. È morto a To
rino
una ventina di anni fa.”
“Sa
dove è seppellito?”
“No signore,
questo non glielo so dire. Lei però può telefonare al cimitero
centrale e gli daranno le altre informazioni” la signorina del
Comune era stata molto gentile, ringraziò lei e la buona sorte per
questo. A volte si incontrano impiegati così scorbutici che
rispondono a monosillabi e finiscono solo per irritarti pensò.
Sperava che gli andasse bene anche con la signorina del cimitero
monumentale. Si prese il tempo di studiare le domande che avrebbe
dovuto porre, le recitò un paio di volte per imporsi un tono gentile
e si rilassò aspettando.
Capitolo
nono
L’area
dei Famosi
Nel
reparto dei famosi del cimitero monumentale di Torino, riposavano
(non so quanto in pace) molti personaggi storici. Ed anche se non si
erano fatti molti anni di scuola, ogni persona avrebbe voluto avere
modo di incontrare nella vita. Se non altro li si erano visti scritti
sulle lapidi delle strade e piazze delle città italiane. Le ossa di
persone come Silvio Pellico, Dante Di Nanni, Camillo Benso di Cavour,
la Bela Rosin (la mantenuta del re Savoia, nata figlia di un
tamburino sardo, morta regina d’Italia, escort antelitteram) e tra
questi molti altri nomi illustri della cultura e dell’industria
piemontese, tra i monumenti marmorei c’era la tomba di Cesare
Lombroso (lo psichiatra famoso per aver determinato che i meridionali
d’Italia, proprio per le fattezze craniche, erano portati ad essere
meno intelligenti dei nati nelle regioni del nord Italia e portati
naturalmente alla delinquenza, dando ai Savoia la scusa per
poter perseguire con ferocia, gli oppositori all’annessione al loro
regno, etichettandoli come Briganti) davanti alla quale alla
Antonio Manutella si fermò a riflettere un attimo. Gli uomini
studiati da questo bel tizio erano i suoi eroi, gli uomini che
avevano pagato con la vita la difesa della sua terra. Gli studi di
quel medico riguardava anche il cretinismo dei popoli del nord
Italia, ma furono i meridionali ad essere crocefissi nella cultura
generale.
Il suo
compagno d’esplorazione non si trovava a suo agio in mezzo a quelle
celebrità.
“ Mò
me lo vuoi spiegare che ci facciamo qua?”
“
Stiamo cercando la tomba di un assassino!”
“
Azz...e tu proprio qua, tra tutta la gente più famosa d’Italia te
ne vieni a cercare un assassino?” L’amico napoletano che si era
portato per compagnia stava passando controvoglia la mattina in un
cimitero, ma il suo amico era venuto a trovarlo con la moglie e
mentre le donne stavano facendo un giro nel mercato di Porta Palazzo,
loro avevano fatto un salto nel cimitero di corso Novara.
“
Qua dentro c’è la più grande collezione di assassini che tu possa
mettere insieme cercando nei cimiteri italiani.”
“
Neh… e tu proprio qua mi devi portare a passare la mattinata? Ma tu
sei sicuro di quello che dici?”
“
Vedi questo Lombroso, stimato psichiatra e antropologo che
sta sotto questa sorta di tempio? Questo è stato il più grande
figlio di zoccola di tutto il mondo.”
“
Madonna mia, e che t’ha fatto sto grand’omm?”
Qualche
tomba più in là, una signora sulla settantina, stava lucidando il
marmo rossiccio di una monumentale tomba. La donna faceva andata e
ritorno da una fontanina vicino alla tomba davanti alla quale erano
fermi i due uomini, nella sua asciutta e dignitaria persona,
l’anziana donna sembrava tutta concentrata sul suo lavoro, ma ad
Antonio non sfuggì l’attenzione che lei metteva nell’ascoltare
la loro conversazione.
“
Questo deficiente, studiava le teste dei meridionali che i soldati
dei Savoia, scesi a conquistare il sud, per annetterlo al loro regno,
mozzavano e spedivano quassù ed in base ai suoi studi, questo
gentiluomo, stabilì che noi eravamo geneticamente portati
a delinquere e, sicuramente meno intelligenti dei suoi
compaesani.”
“
Hiii…vedi che galantuomo, sarà per questo che gli hanno messo
tutto sto blocco di pietra addosso, per essere sicuri che non se ne
uscisse fuori n’ata vota?”
“ Eh
Carlo, se questo era qui ora, tu, cu quella capa che ti ritrovi, sai
dove venivi andavi a finire? “
“ No
non lo so. Dove?”
“Dritto
al manicomio di Collegno!”
“
Quale Collegno, quello è stato chiuso tant’anni fa!”
“Lo
so, lo so Carlo…” la signora aveva aumentato le sue andate e
ritorno, dalla tomba che stava lucidando alla fontanina, con una
brocca per l’acqua, Antonio notò che la bocca della signora si era
leggermente increspata in un serico sorriso nell’ascoltare il loro
dialogo.
“...ed
è solo per questa fortunata combinazione che tu sei qui libero.”
“ Di
quale fortunata combinazione parli, scusa?”
“
Quella per cui il manicomio è chiuso e questo delinquente è qui
sotto.”
“ Eh
che fortuna ho avuto neh?”
L’amico
di Antonio era un omino alto intorno al metro e mezzo scarso, con la
testa incrugnata nelle spalle come se, una mano pesante gliela avesse
incuneata direttamente nella cassa toracica, fermandone la crescita.
Il pover’uomo non aveva neppure l’idea di quanto il suo amico
fosse serio.
La
signora stava ancora lucidando il granito della tomba rossastra. Ad
Antonio sembrava che quella donna, così eterea e di una eleganza
antica, non avesse nessuna intenzione di finire quel lavoro. Quasi
che fosse legata a quel suo compito da un invisibile obbligo. Quando
furono alla sua altezza, lei alzò la testa ed incrociò lo sguardo
dell’uomo.
“Buongiorno
signora...vuole una mano?” la donna sembrò cogliere appieno lo
scherno ludico nelle parole dell’uomo.
“ No
grazie...è mio nonno…” spiegò con un cenno verso l’imponente
blocco di marmo.
“
Suo nonno signora?..” Antonio si spostò di fronte al blocco dove
poteva leggere le iscrizioni sulla facciata di marmo “... Ma ha un
cognome napoletano signora…lei non mi pare…” la scritta diceva
di un generale dei carabinieri nominato, dal re Vittorio, membro del
primo parlamento dell’Italia unita.
“ Ma
questo era napoletano, come faceva ad essere senatore del governo
piemontese?”
“
Lui era un generale dell’esercito Borbonico, durante le battaglie
per l’Italia unita, nel risorgimento, si schierò coi Savoia e
venne a vivere a Torino, dove fu nominato senatore”
“
Hiiii, che bel nonno che aveva lei signora, un traditore del suo
paese... e mi dica, lei è nata qua a Torino, che cosa ha fatto nella
vita? Oltre a pulire la piramide del suo degno avo, si capisce…”
“
L’università...e poi sono stata per quarant’anni la direttrice
della Gam.”
“Ah!
Complimenti davvero signora.” il tono tra il serio ed il faceto
rendeva il dialogo leggero ed interessante ma metteva, al contempo,
la possibilità di comprendere del suo amico fuori gioco ”...e
faceva la direttrice della Gam tra una lucidata e l’altra al
mausoleo?”
“
Che cos’è la Gam guagliò, che lingua parlate?”
“ La
galleria d’arte moderna di Torino…”
“Ah!”
“Stavate
cercando qualcuno?” La donna chiese con gentilezza.
“
Si, veramente stavamo cercando un assassino, ma quello ha violentato
e ucciso solo una ragazza, un po’ poco per avere l’onore di stare
in mezzo a tanta celebrità. Eppure ci hanno detto di cercarlo in
quest’area.”
“
Può darsi che sia sotto…”
“
Sotto signora? Sotto che cosa?”
“Qui
sotto ci sono altri piani dove ci sono quelli meno importanti.”
“Ah…
e già, questa è la crèm, la panna degli assassini. Quelli minori
stanno sotto...nei piani bassi.” la signora assentiva seria, ora
sembrava stanca di avere a che fare con due persone che stavano
concedendosi troppa allegria in un posto imponente e serio come
quello. Indicò ai due l’entrata del sotterraneo. Tre piani più
sotto c’era una intera città di morti, con strade e viottoli che
si incrociavano come un labirinto, in un cunicolo stretto e
soffocante trovammo la tomba della donna che cercavamo. La sorella
del fidanzato di Lucia era seppellita in una cella di quell’immenso
vespaio. Una foto della donna era ancora attaccata al loculo, la
faccia olivastra risultò immediatamente antipatica all’uomo che
manifestava apertamente la sua soddisfazione di averle ritrovata in
quel tugurio. Antonio disprezzava quella donna quasi più dei
fratelli che avevano violentato e uccisa la ragazza, lei donna
giovane non aveva avuto nessuna comprensione per una sua coetanea
innamorata, né aveva provato pietà per il fratello che la voleva
sposare, neppure come donna aveva manifestato il minimo ribrezzo per
ciò che aveva spinto a fare ai fratelli. Avevano la stessa età, ma
questa aveva potuto vivere libera la sua vita grazie al fatto che
all’epoca era minorenne, anche se non sembrava finita meglio,
seppellita in quel sotterraneo così infido e lontano dalla luce del
giorno come dalla sua terra. Antonio fece un paio di scatti
fotografici alla foto sulla tomba e si diresse immediatamente verso
l’uscita. Di solito davanti alla tomba di un defunto si raccoglieva
in un intimo pensiero che somigliava molto ad una preghiera per il
defunto, in questa occasione aveva provato solo una grandissima
indignazione con la quale avrebbe voluto ricoprire quello loculo
degno di una simile ospite.
“Che
tu sia maledetta per sempre” il pensiero inespresso fece lo
stesso rumore di un grido in quei bui ventricoli sotterranei. Gli
stava per mancare il respiro, si affrettò verso l’uscita risalendo
verso la luce, fu fuori prima ancora che l’eco di quel suo pensiero
si spegnesse nella sua mente.
Il suo
amico, dimenticato in quella strana visita, arrancava dietro di lui
in silenzio. Aveva assistito in silenzio a quella trasformazione del
suo amico, di solito scherzoso oltre il necessario, prima eccitato
dalla ricerca e poi, una volta trovato l’oggetto del suo
affannarsi, irrigidirsi in quel modo. Giunsero all’aperto
ansimando,Carlo arrivò trafelato alle sue spalle.
“
Vuagliò, ma come, tenevi tanta fretta di trovarla e quando l’hai
trovata te ne scappi così?” non ricevette nessuna risposta, ma
una strana occhiata vuota che sembrava chiedere chi diavolo fosse,
“ Mi
hai detto che cercavi uno che aveva ammazzato la fidanzata e qua
abbiamo trovato una donna, chi era quella?”
“ La
sorella era, ecco chi era quella ” avrebbe aggiunto qualche epiteto
speciale per colei che lui riteneva la vipera che aveva segnato la
sorte di una ragazza felice dei suoi diciotto anni e del suo amore.
“ La
sorella di quello che ha accisa ‘a guagliola?
“ Si
“
“
Hi…a che signora distinta siamo venuti a fare visita, ecco perché
non ci ha neppure offerta una sedia, un caffè…” Carlo fece
appello al suo spirito napoletano per far riprendere l’amico che
sembrava aver perso il buon umore del mattino.
“Quella
disgraziata era gelosa della felicità di quella che doveva diventare
la cognata”
“ E
solo per questo ha spinto i fratelli ad ucciderla?
“
No, non solo per questo, una donna di Serracapriola voleva sposare
il fratello ed avrebbe portato in dote, oltre al corredo, ventimila
lire in contanti. Quei soldi erano ambiti dal padre del giovanotto
per poter fare la dote a quella disgraziata qua sotto, per quei soldi
lei spinse il padre ad impedire al fratello di sposare con un
matrimonio riparatore, la povera Lucia”.
“
Proprio una bella famiglia, neh? Per ventimila lire hann accisa na
guagliola...che erano animali questi?”
“
Già…”
“Ed
ora dove andiamo?”
“Al
cimitero sud”
“
Nata vota? E no Antò! E tu mica mi puoi portare a fare il giro di
tutti i cimiteri di Torino stamattina, abbi pazienza…”
“ Va
bene, hai ragione, andiamo a riprendere le mogli e...è ora di
pranzo.”
“
Meno male, anche se l’ambiente non era chissà quanto
appetibile...io una certa fame ce l’ho, tutta quella
strada…capiscimi a me...”
“
Si, si ti capisco, vieni che vi porto fuori a pranzo, ti và un
ristorante cinese?
“
Mah…vogliamo andare a un ristorante cinese? E facciamo così, come
vuoi tu. Quando uno paga…”
“
Che figlio di ‘ntrocchia che sei Carlo...va bene pago io, andiamo
dai.”
Capitolo
decimo
L’album
è pieno
La
canzone si andava ormai completando nella sua mente...
………..
Tutti
i compaesani voi sentite
Che
brutta condanna che ci hanno dato
Mio
padre a vent’anni e noi in galera a vita
Questo
pentimento tragico come non muore
Nessuno
ha pietà di questo cuore
Vorrei
che questo cuore si spezzasse
Quando
io vedo questi infami cancelli
Vorrei
che quell’anima mi perdonasse
Non mi
perdona no! Son scellerato
Dentro
queste mura piange, questo carcerato
Vorrei
che un giorno mi apparisse
L’ombra
di quell’anima adorata
Lucia
si chiamava era innocente
Due
fratelli scellerati e senza cuore
Senza
pietà l’hanno uccisa e tolto l’onore
………..
La
canzone, ritornava nella sua mente a bocconi, una frase alla volta,
come se la mente gli fornisse degli anticipi della drammatica storia,
una traccia da seguire su quella che ormai gli appariva come una
strada in discesa, ormai sulla dirittura dell’arrivo. Alcuni giorni
dopo aveva fatto visita anche al cimitero sud della città
piemontese. In compagnia di un altro amico di infanzia emigrato:
Carmine. Con il compaesano, aveva cercato tra le tombe del cimitero
di strada del portone, ed in fondo al confino ovest, il più
lontano dall’entrata, avevano trovato la tomba di quello che era
stato il fidanzato di Lucia. Un vecchio coi baffoni bianchi, in stile
col piccolo primo re italiano, alla moda di un secolo prima, su una
foto ceramicata, era incollata sul marmo della lapide. Scattarono
alcune foto anche del responsabile di quel truce omicidio e, per
quanto lo ritenessero in parte vittima del padre e della sorella,
Antonio non contenne il disprezzo per non aver saputo difendere il
suo primo amore. L’amico era stato messo a conoscenza di molti
particolari della storia e della rabbia di Antonio, sapeva per grandi
linee della sua insonnia e di quando avesse cercato i suoi fogli. Da
quando era iniziata quella ricerca, si erano visti parecchie volte e
molte volte aveva assistito a quanta disperazione produceva la vana
ricerca dei fogli del professore. Lucia era diventata una persona di
famiglia in casa Fortinterra e, come amico di vecchia data, anche lui
aveva dato, dentro di sé, un posto a quella ragazza.
“
Non ci sono anche le tombe degli altri?” chiese Carmine.
“
Gli altri chi?”
“ I
fratelli, il padre, non mi avevi detto che erano morti anche loro?”
“
Si, certo che sono morti, ma non so dove sono seppelliti.”
“
Ah, non sei riuscito a rintracciarli?”
“
No, ho fatto parecchie telefonate ma nessuno parla volentieri di
questa storia.”
“
Già...Io non l’avevo mai sentita raccontare prima che me ne
parlassi tu.”
“ Lo
so. La gente non ama ricordare questa storia. I parenti degli
assassini vogliono cancellarne la memoria, quelli di Lucia ancora non
sono in grado di parlarne senza provare un grande dolore, parlarne
serve solo a resuscitare l’odio ed il rancore, non tutti
riuscirebbero a dominarli.”
“ Ma
in paese proprio non la sa proprio nessuno questa storia, io non ho
mai sentito neppure un accenno all’accaduto. Neppure la canzone
conoscevo”
“
Mia madre la cantava mentre raccoglievamo il cotone, o nelle
vendemmie. Quand’ero piccolo sentivo cantare questa canzone, dalle
donne che toglievano l’erba dai campi e ti giuro che era bellissimo
starle a sentire mentre cantavano a più voci “
“ Io
non le mai sentite…” la voce dell’amico, sembrava essere venata
da commiserazione per se stesso, s’era perso nell’infanzia, cose
che oggi, vissute attraverso i ricordi di Antonio, gli apparivano
come grandi tesori. Li faceva suoi pretendendo ogni copia di foto o
documenti che il Manutella riusciva a trovare nelle sue ricerche. Se
li conservava per riempire i tasselli mancanti di quella sua
infanzia. Lui l’aveva vissuta in un salone da barba, ad imparare
quello che allora sembrava un buon mestiere, dove le persone
passavano la mattinata a baccagliare di calcio e di politica
spicciola.
Ora
che ne parlava con l’amico d’infanzia, si accorgeva che, la vita
di un paese agricolo del sud Italia, si svolgeva, soprattutto, in
quegli anni della prima metà del ventesimo secolo, attorno i campi a
primavera, nelle aie d’estate, nelle vigne in autunno e negli
uliveti d’inverno. In una cadenza ripetitiva di lavori svolti
manualmente da gruppi di uomini e donne. Lì le storie e le leggende
del paese venivano ripetute e tramandate dagli adulti ai più
piccoli, attraverso i racconti ed i canti. Una sorta di lettura di
giornale o libro parlato, dove le favole e le tragedie si
confondevano e diventavano un tutt’uno con la vita stessa.
‘Ntoniuccio ricordava ancora il peso del fango che gli si attaccava
agli stivali di gomma, comprati di qualche misura più grandi perché
” il bambino deve ancora crescere, gli andranno bene anche
l’anno prossimo” ma i calzari, pesanti e scomodi appena
acquistati, si rompevano durante un anno di lavoro e quello dopo, si
teneva quelli tagliati per non farsene comprare un paio nuovo si, ma
ancora più grandi. Le sue giornate nei campi, erano rubate alla
scuola, alla quale erano destinate le giornate invernali, quelle di
pioggia o, quando nelle campagne, tra un raccolto e l’altro, non
c’era molto da fare. Aveva sempre sentito la difficoltà di
crescere con una istruzione limitata, come un pesante debito verso la
comprensione delle cose della vita. Si sentiva come un meccanico che,
con una dotazione limitata e arrugginita di attrezzi, non bastanti
per fare bene il suo lavoro, era costretto ad operare su nuove auto
moderne, con le quali necessariamente, doveva adoperare attrezzi
fatti apposta, che lui non possedeva. Era perciò obbligato da questa
mancanza, a prelevare dalle stanze segrete della mente, quei ricordi
di insegnamento, limitati ed inadatti ma unici. Erano proprio
questi, gli unici strumenti coi quali affrontava le sue giornate,
così diverse nel mondo moderno che si era rivelato, a chi era nato
contadino nelle campagne del sud, fu costretto all’emigrazione
nelle città industriali del nord. Ora, quei ricordi erano diventati
strumenti brillanti e basi forti della sua cultura e li adoperava
con maestria per approfondire la ricerca della sue radici.
“
Però se non sai come sono finti gli altri membri della famiglia…di
questa storia, alla fine non si capisce niente.”
“
Perché non si capisce niente? È tutta qui! Sappiamo come successe
il fatto, chi lo ha commesso, come sono stati catturati, dove sono
stati imprigionati e come sono morti…”
“Questi!
Questi che hai trovato! Ma gli altri?” l’amico aveva un ruolo di
pungolo verso Antonio, lo supportava come poteva nelle sue ricerche,
ma lo metteva con le spalle al muro pretendendo sempre di più, a
volte gli si rendeva antipatico, quando continuava ottusamente ad
insistere per volere di più di quello che l’altro aveva, ma lui
era convinto che se lo metteva sotto pressione, Antonio sarebbe stato
capace di dare molto di più.
“
Gli altri sono morti in galera”
“
Ah! Ma allora li hai trovati? Non mi hai detto niente.”
“ i
condannati furono tre, avevano avuto una condanna a vent’anni il
padre, per istigazione e per complicità, trent’anni, l’ergastolo
insomma per i due fratelli, uno, il più grande è morto in galera,
l’altro, il fidanzato della ragazza, è uscito dopo ventisei anni
per buona condotta.” l’amico lo guardava senza chiedere niente,
sapeva che se c’era altro ‘Ntoniuccio glielo avrebbe detto.
“ I
tre trovarono in galera un’accoglienza terribile, in quel periodo
le prigioni erano piene di ladruncoli e di residuati umani
incarcerati per diserzione nella prima guerra mondiale. Li trattarono
come delle serve…”
“Servi!”
“No,
proprio serve, anzi servette, li obbligarono a soddisfare i loro
bisogni repressi in galera, gli tolsero ogni dignità, per loro era
meglio una condanna a morte.”
“
Come hai saputo queste cose?”
“ I
tre erano stati separati, il più grande dei fratelli era finito al
Poggio Reale di Napoli, dove poi furono portati ( in un orfanotrofio
vicino al carcere) i suoi cinque figli, ai quali intanto, era morta
la madre.
Il
padre fu rinchiuso nella casa circondariale di Ancona, il piccolo,
quello che era il fidanzato della ragazza in quella di Frosinone.”
“ E
poi…? Come si seppero queste cose?”
“Quando
il piccolo uscì di prigione, nel cinquantadue, tornò al paese, ma
la madre non lo volle più in casa. Due suoi fratelli più giovani
erano emigrati a Torino qualche anno prima , così lui se ne andò su
da loro. Nel millenovecentosessantasette, sposò una donna calabrese,
non ebbero figli, è morto intorno agli anni ottanta.”
“Sai
com’è morto?”
“Si.
Viveva arrangiandosi a fare piccoli lavoretti saltuari e raccogliendo
cartone dalle pattumiere, una mattina all’alba, intorno alle 5,
fu travolto da un furgone e ucciso sul colpo, lo lasciarono lì
sull’asfalto fino a quando i primi passanti non chiamarono la
polizia.”
“ Ha
fatto una brutta morte anche lui.”
“
Non aveva fatto neppure una bella vita.”
“ A
Torino qualcuno dei nostri compaesani sa chi era?
“
Certo! I primi nostri compaesani emigrati erano suoi coetanei e
compagni d’infanzia.”
“
Qualcuno lo frequentava?
“ A
Torino erano arrivati i nipoti, figli di quel fratello morto in
carcere, non so cosa gli sia mai stato raccontato, so che uno di
loro, si chiamava Antonio come lui, lo frequentava assiduamente e
dopo morto, si curava della sua tomba.”
“
Hai parlato con il nipote?”
“
E’ morto quattro mesi fa.” indovinando la prossima domanda
Antonio Manutella anticipò l’amico.
“ Un
incidente di moto.” Carmine lo guardò come a sottolineare la
stranezza di due morti per incidenti nella stessa famiglia poi, forse
rendendosi conto che quel tipo di morte, nell’era dell’automobile
e delle moto erano diffusissime, cambiò la sua domanda in corsa.
“
Sai dov’è seppellito?” l’amico si aspettava quella domanda da
tempo, si spostò di lato, girò sui tacchi dando le spalle al suo
accompagnatore e allungò una mano a spostare un mazzo di fiori nel
vaso che copriva una foto e una scritta:
“Qui!”disse
trionfante per quella scoperta, casuale.
“ Tu
lo sapevi!” l’amico sorrise gustando finalmente tutta la
pandomina messa in atto davanti a quella tomba, coperta, sospettava,
ad arte dal suo interlocutore.
“ No
ti giuro, sapevo che era stato seppellito in questo cimitero, ma non
che fosse di fianco allo zio.”
Il
carniere era quasi del tutto pieno quel giorno, alcune fotografie
degli attori di quella triste storia colmarono la misura.
Lungo
la strada dissertarono del più e del meno, di calcio e di donne. Il
loro argomento preferito da sempre: l’Inter , della quale erano
ambedue tifosi e del loro primo amore, le ragazze del paese che erano
rimaste nel loro cuore migrante, padrone di un posto speciale. La
cappa grigia che occupava la mente di ‘Ntoniuccio sembrava essersi
allentata, aveva riportato alla luce una storia drammatica, avvenuta
quasi un secolo prima, nel paese dove erano nati e che era stata
sepolta sotto la polvere del tempo o forse, cancellata volutamente in
parte dal silenzio nel quale l’avevano lasciata cadere coloro che
l’avevano subita per riuscire a sopravvivere, in parte da coloro
che erano stati parte della famiglia dei carnefici, vittime a loro
volta, travolti dal disprezzo e dal disonore nel quale era caduta la
famiglia; in parte dimenticata per colpa dell’emigrazione, che
aveva tranciato quel filo conduttore che fa tramandare dai vecchi ai
giovani, una cultura che passa attraverso le parole dette.
Erano
emigrati quando avevano 15 anni e ora, ultrasessantenni ambedue,
sentivano, forse per la prima volta di conoscere più a fondo il loro
paese, un paese dove i loro padri, erano arrivati da Ischitella;
paesino garganico dov’erano nati.
Emigranti
figli di emigranti, ma con una conoscenza del paese che li aveva
visti nascere, più profonda di molti di quelli che ci vivevano da
sempre, ignari e sordi alla storia che le pietre che calpestavano,
avevano da raccontare. E la loro l’Inter era in testa al campionato
di calcio da tre settimane.
Capitolo
undicesimo
La
spinta
Il
giorno dopo si svegliò tardi.
Di
solito dormiva poche ore a notte.
Quando
si attardava a letto, concedendo qualche ora in più di sonno al suo
corpo, si svegliava di buon umore e pieno di energie, come fosse
primavera.
Quella
era da sempre stata, la sua stagione preferita.
Dopo
l’inverno, in cui concedeva pause al suo iper attivismo abituale,
quella era la stagione in cui si buttava fuori dal letto e da casa,
ed invadeva la vita degli altri con una riserva di energia, che
faceva venire il fiatone a chi gli stava vicino.
La
moglie, che aveva sentito i suoi rumori dal piano di sotto, arrivò
dopo poco con la colazione.
“Ma
cosa stai combinando?…” la poveretta per poco non diede il giro
al vassoio dalla sorpresa.
Il
letto matrimoniale era ancora disfatto, era pieno di roba sua tirata
fuori dall’armadio.
“Cosa
succede adesso?” gli chiese la poveretta “Ti sei svegliato male?
“No
cara…mi sono svegliato benissimo.” Antonio le sorrise.
“Ed
hai deciso di fare il cambio di stagione?”
“Vado
al paese!” disse senza fronzoli l’uomo. Non aveva mai amato i
giri di parole intorno alle cose anzi, spesso era così diretto che
diventava sconcertante.
“Vai
dove?!…” lo guardò come se non riuscisse a metterlo a fuoco.
Sapeva che il marito aveva dei momenti in cui agiva con la stessa
incoscienza ed impetuosità di un bambino. In quei frangenti sapeva
anche che non c’era molto da fare per fargli cambiare idea. Pareva
un bue che aveva determinata una certa direzione e a nulla sarebbe
valso ogni tentativo di fargliela cambiare.
“Vado
al paese!” concesse una ripetizione dello spartito e si capiva che
quella era una concessione senza altre repliche.”
“ Va
bene. Ora metti le corna sul cuscino e fai colazione.” il modo di
rivolgersi al marito poteva sembrare duro solo a chi non la
conosceva. In realtà era uno dei modi teneri di rivolgersi al suo
bambino, nella loro intimità. Sapeva benissimo che se lui
aveva deciso che doveva andare al paese, lei non avrebbe cambiato
quella decisione, lei doveva solo capire perché ci voleva andare.
Quando
si erano conosciuti lei gli faceva un sacco di domande su come era
fatto lui. Lo voleva imparare. E lui gli ripeteva di se stesso un
solo concetto:la pratica dell’obbiettivo.
“
Cos’è? “ le aveva chiesto.
“Quando
tu hai un obbiettivo, un sogno da realizzare, un desiderio...devi
decidere da che parte attaccarlo per riuscire ad ottenere quello che
vuoi. Poi scegli la tattica e ci provi. Se però non ci riesci al
primo tentativo, devi riprogrammare un nuovo piano, fino al
raggiungimento del tuo obbiettivo.”
“ E
se non ci riesci?”
“Devi
provarci con convinzione...se un desiderio è forte e tu sei
motivato, la tua determinazione ti farà raggiungere lo scopo.”
“
Allora com’è che io non riesco ad appagare il mio sogno?” lei
non stava mirando a niente in quel momento, voleva solo suggerirgli
la domanda successiva.
“ E
qual’è il tuo sogno che non realizzi?”
“
Quello di veder crescere un uomo che continua a comportarsi come un
bambino.” gli appoggiò il vassoio sulle gambe e bloccò la sua
reazione probabile. Le sarebbe saltato addosso per giocare. L’aveva
fregato.
“
Buna diminiaţa” gli disse con un leggero
bacio.
“
Buna diminiaţa” le rispose.
Il
buongiorno nella lingua madre di lei era una tradizione tra loro che
durava ormai dal primo giorno del loro incontro. Lui le aveva chiesto
espressamente quel gesto per crearle un momento iniziale della
giornata, in cui a lei arrivasse il saluto della mattina con il quale
cominciava le sue giornate nella casa della madre, prima di emigrare.
A lei
piaceva molto quel loro primo momento ed aveva aderito con gioia. Ci
tenevano tanto ad iniziare sempre così la giornata, che lei non
vedeva l’ora di alzarsi a preparargli le fette di pane abbrustolito
e spalmargli il burro, ricoprirlo di marmellata fatta con le sue mani
e portargli a letto il suo tazzone di caffelatte fumante. E lui pure.
“Allora
vai al paese?”
“Si!”
“ E
me lo dici così? Se non venivo su con la colazione eri già partito,
vero? Hai sentito tua sorella?
“ E
come te lo dovrei dire...no che non ero partito, mi devi fare la
valigia…”
“
Ah! Solo per questo vero?
“
No...dovevo aspettare anche la colazione...eh eh eh.” lei sorrise.
Come si poteva resistere a quel modo fanciullesco recitato per lei
dal suo uomo?
“
Eh, già...la colazione...non la puoi perdere vero una colazione
così.”
“ Lo
faccio per te. Per la buona diminiaţa...mica
me ne andrei senza darti il buongiorno…”
“Ah...ehh,
certo che buongiorno sarebbe per me se non avessi da lavorare
mezz’ora al mattino per prepararti la colazione? Ne morrei!”
“ Eh
già!”
“
Vuoi andare a trovare tua sorella?”
“No.
Non c’entra lei, non l’ho neppure sentita…”
“
Non l’hai chiamata ieri?”
“
No...si, ma non c’entra lei. Devo andare al paese per un’altra
cosa. Lei neppure lo sa.”
“ Ed
allora cosa ci devi andare a fare al paese, non mi hai parlato di
questo tuo progetto. Com’è nato, tutto così all’improvviso?”
“Si.
Devo andare.”
“
Devi proprio…? Dovresti avere un buon motivo per andarci in questo
momento...mi lasci sola…sai non è che i soldi...”
“ Si
lo so. Maledizione...non riusciamo a mettere da parte un centesimo.
Ma io devo andarci!”
“
Beh...se ci devi proprio andare ci vai. Che vuoi che faccia, vai a
passare qualche giorno con tua sorella, tra i tuoi amici. Che fa…ti
farà solo bene.”
“ Ma
io non vado a trovare gli amici o mia sorella...ci devo andare e
basta!”
“ La
pratica dell’obiettivo?”
“Già!”
“va
bene, mi arrendo!” cominciò a prendere il vassoio della colazione.
“
Dove andrai a stare...quanti giorni?”
“
Dove vado a stare...da mia sorella, dove vuoi che vada a stare?”
“ Ed
io che avevo detto?” fece spallucce la moglie. Sapeva quando il
marito era attaccato alla sorella maggiore che l’aveva in balia
quando lui era piccolo, mentre la madre lavorava.
“ Ma
no ti dico! Lei non sa niente...vado solo a darle fastidio.”
“ E
allora non ci andare…”
“Devo!”
“
Come mai devi...tutto a un tratto?”
“Si...Lucia…”
“Ancora
lei?” Antonio stava per provocare alla moglie una crisi di nervi e
se ne rendeva conto. Ma non sapeva che farci.
“
Devo andare. Non lo so perché, non me lo chiedere, io D-E-V-O
A-N-D-A-R-E A-L- P-A-E-S-E, capito mamma?”
“
Si.” lo fisso negli occhi “ Devi. Ti preparo la valigia.”
“Grazie,
mamma.”
“
Quando andrai?”
“Stasera.”
“
Non fare guai...ti prego.”
“
Non temere...non succederà niente.”
“
Quanti giorni?”
“
Non lo so...non molti...spero.”
Il
lungo viaggio sul Pullman lo passò in uno stato di incessante
dormiveglia. Non riuscì a dormire che piccoli tratti della notte,
anche se non fu mai completamente sveglio. Il grande autobus sembrava
cullare i passeggeri, costretti tutto il viaggio nel loro posto con
le ginocchia contro quello davanti.
L’autobus
lo aveva sfinito col suo dondolio. Aveva trovato un posto vuoto solo
sull’assale delle ruote, dove le vibrazione della corriera sono più
forti ed è impossibile perdersi neppure un sussulto in tutto il
viaggio. Ogni ruga dell’asfalto della strada si ripercuote senza
filtro sulla schiena del viaggiatore e alla fine si scende con la
sensazione di essere stati tutto il tempo in un frullatore.
Il
mattino dopo arrivò al paese che era ancora buio. Alla fine del
viaggio sei costretto a riconnettere tutte le giunture prima di poter
riprendere il controllo del corpo. Il Bar di fronte alla fermata era
aperto, alcune persone stavano fumandosi una sigaretta fuori dal bar.
Decise che era meglio prendere un caffè.
Un
paio di persone lo riconobbero appena entrò nel bar. Scambiò
qualche saluto e poche battute.
Il
barista lo conosceva da sempre.
“Tu
Antonio...prendi ancora il latte macchiato?” gli chiese dopo uno
sforzo mnemmonico durato meno di un secondo.
“Si
certo, Gino...il mio latte macchiato.” si sentì compiaciuto del
fatto che il barista si ricordasse così bene di lui. La sensazione
piacevole era come un benvenuto.
“Prendi
un cannolo alla crema. Sono freschi, buoni. Li ho appena sfornati.”
non era un ordine, ma sarebbe stato difficile rifiutare il consiglio.
Preferì
prendere il cannolo. Uno degli avventori notò la sua titubanza.
“Ma
tu guarda questo.” Si avvicinò al bancone di fronte alla macchina
del caffè dove il barista stava sfumando il latte, facendo soffiare
il vapore nel bricco del latte.
“Ma
se uno non lo vuole il tuo cannolo, deve per forza prenderlo?”
“Embè...E
allora cosa torna a fare al paese se non per il cannolo ed il mio
caffelatte?” Che ne capisci tu, cammina va, vai a lavorare che s’è
fatto giorno.”
“ Ah
uno viene al paese per prendere il tuo caffelatte e cannolo? Eh sì,
mica ce l’hanno a Torino il latte e la crema, no?” Il giovanotto
alzava la voce di quel tanto che bastava a coinvolgere gli altri nel
gioco. Stava montando su una scena per poter scherzare e trascinare
tutti in una risata. Gli astantii si girarono tutti verso il barista
ed uno di loro, ignaro di chi fosse il nuovo arrivato con la
valigia...
“Che
ne sai tu se arriva da Torino, non può venire da Milano?”
“Il
barista ne aveva fritti di polpetti come quei due ragazzoni.
“Andate
a lavorare vi ho detto. Conosco quel signore da quando è nato. L’ho
cresciuto con i miei cannoli alla crema.” la risata collettiva
riempì il locale.
“Ah!
Tu hai cresciuto lui a cannoli e caffelatte, o lui ha mantenuto te
coi suoi soldi e ti ha fatto comprare l’insegna nuova?”
Antonio
aveva finito di fare colazione, dopo aver pagato uscì dal locale
salutando tutti con un sorriso.
“Vedo
che non avete perso il buon’umore…” ammiccò uscendo dal bar.
Appena
sulla strada un auto gli si piantò davanti. “Ehi Lei, dove crede
di andare. Vuole stare attento alla strada? Che qui non siamo mica a
Torino, qui le stiriamo i pantaloni...”.
“Michele...a
quest’ora? L’amico era sceso dall’auto per salutarlo.
Michele
era un professore di scuola che insegnava alle medie. Grande
appassionato della storia del loro paese, gli era stato molto di
aiuto nel cercare notizie su quella vecchia storia.
“Dove
vai, andiamoci a prendere un caffè”.
“
Veramente l’ho già preso. Sto appena uscendo dal bar …” aveva
tentato di glissare una nuova colazione, ma non ci sarebbe stato
verso, lo sapeva. La pratica dell’obbiettivo non doveva essere una
cosa che aveva imparato su al nord.
“Come
mai questa visita improvvisa? “
“Non
so...dovevo venire.”
“E’
successo qualcosa su? Gli altri stanno bene?”
“Si,
stanno bene...No, non è successo niente…”
“E
come mai allora…stai ancora cercando qualcosa su quella storia di
cui mi hai parlato tempo fa? Sali andiamo a casa!”
“Andiamo
a svegliare i tuoi?”
“Figurati!
Purtroppo no. Ci siamo separati, vivo da solo da parecchi mesi.”
“Come
mai non mi hai fatto sapere niente?”
“Pensavo
che le cose si sarebbero sistemate dopo un po’...”
“Ed
invece?…”
“Ed
invece...niente. Ormai siamo andati anche dall’avvocato.”
“Mi
spiace…” Antonio Fortinterra era sinceramente colpito, ma l’amico
ci scherzò su.
“Si...ci
debbo proprio credere. Tu sei spiaciuto della mia separazione? Ma se
tu sei un pluridecorato in questo campo…Quante volte hai
divorziato, tre?”
“Una.
Una sola volta.” erano giunti a casa dell’amico. L’ultima volta
che ci era stato era una casa piena di rumori, la voce della giovane
moglie ed il figlio che giocava ...stavolta era tutto buio e
silenzioso.
“Allora...sei
venuto a cercare nuove cose su quella storia che ti tormenta?”
“No...su
quello ho trovato tutto...Tutto, proprio fino alla fine…”
“Non
vedo l’ora che mi racconti.”
“Si,
dopo però. Ora ho volgia di lavarmi e di uscire. Tu non hai scuola
stamattina?”
“
Si, la terza ora...Dove vuoi andare?”
“Non
so. In campagna magari…voglio respirare.”
“Perché,
in Piemonte non avete più aria? Proprio dove stai tu, sulle
Alpi…l’ultima volta che sono venuto a trovarti mi pare che si
respirava ancora bene...meglio di qua...”
“Devo
uscire a fare una passeggiata.” si diresse al bagno dal quale tornò
dopo essersi rinfrescato.
“Lei
dov’è?”
“Dove
vuoi che sia...al suo paese, dal padre, da quando è andata via.”
“Non
riesci ad aggiustare le cose?”
“No.
Ci ho provato, lei sta bene, ha il figlio Lo prendi un caffè?”
“Un
altro caffè’ No...Non ce la faccio più...usciamo. Lo prendiamo
dopo.”
“Dove
pranzi?”
“Non
lo so...tu fai come se non ci fossi. Non so cosa farò.”
In
quel momento una macchina si fermò davanti alla porta il padre del
professore entrò in casa.
“Huèè….e
questo che ci fa qui, quando é arrivato?”
“Quando
è arrivato, poco prima è arrivato, quando se no, ieri?
“Aspetta,
dove vai. Che stai già per uscire? Aspetta che ci pigliamo un
caffè!”
“Ma
no...non voglio più prendere caffè...voglio andare fuori...in
campagna.”
“E
aspetta che ti porto io. Stai calmo un minuto, prendo un caffè ed
andiamo.”
“Ma
tu hai le tue cose da fare, io voglio bighellonare in giro...non so
cosa voglio fare.”
“E
che ho da fare io, sono in pensione da una vita. Aspetta che quello
che devi fare, lo facciamo insieme.”
Non
c’era verso. Era meglio rinunciare all’idea di uscire da solo.
Una
volta in macchina però, Antonio fu contento di aver atteso che il
padre del professore facesse colazione, poiché gli piaceva molto
stare con gli anziani del paese. C’era sempre qualcosa da imparare
con loro.
La
tranquillità con la quale gli anziani affrontavano le cose, gli
fornivano una mediazione positiva con i suoi modi decisi e forti. Si
diressero verso la piazza.
“Ma
io voglio andare fuori, non in piazza!”
“Dimmi...dimmi
dove vuoi andare. Io dovrei andare al Mercato di Serra, tu?”
“Va
bene per Serra, vengo volentieri da quella parte. Lasciami al Ponte
di ferro. Magari mi riprendi al ritorno.
Sul
Fiume ritrovava molta della sua gioia infantile, persa nei ricordi
della festa della Madonna del ponte. Il chiasso dei suoi giochi con
gli amici, proprio in quei giorni di metà aprile, lo riportava a
tanti anni indietro, quando dal paese arrivavano a piedi frotte di
ragazzini, che attraversavano le rovine della città romanica lungo
le pieghe delle bionde colline di argilla.
Si
ritrovò a seguire il corso dei suoi pensieri a ritroso quasi senza
accorgersene.
Cominciò
a camminare sul tratturo che dalle spalle della chiesetta del
santuario, seguiva il dorso della fiumara.
L’ombra
degli ontani e dei salici giocava nelle pozzanghere d’acqua grigia,
stagnante dentro i solchi delle ruote dei trattori passati di là
prima dell’ultima pioggia.
Non si
rese conto di dov’era arrivato neppure quando una sbarra di ferro
gli tagliò la strada. Un lucchetto teneva chiusa la proprietà
privata di un coltivatore. Scavalcò la sbarra e continuò il cammino
lungo quel segreto viottolo di campagna.
Laggiù
non si sentiva altro rumore che quello dolce del vento che frusciava
tra i rami e qualche rana gracidare nei pantani delle anse del fiume.
Dopo
un filare di vigna, la piega pianeggiante del terreno, prese ad
alzarsi in una piccola collina di terreno bruciato. Una cupola
naturale che sovrastava la cima degli alberi. Il terriccio
giallognolo era ricoperto di rovi, basse piante di bosso e di
pungente asparagina.
Il
passaggio di animali selvatici aveva creato un corridoio che
tagliava quasi netta la fratta.
Il
percorso non era molto comodo e le sua scarpe, non proprio adatto
alle escursioni campali, lo facevano scivolare spesso su quell’erba
che conservava ancora un poco di quella rugiada mattutina sotto la
quale l’argilla diventava liscia come il sapone.
Mentre
risaliva la china, si attaccava con le mani a qualsiasi pianta
trovasse sul lato destro del selvaggio percorso e, alla fine, riuscì
ad arrivare sulla cima della collina.
Lassù
l’erba era più rasa, e l’esposizione al sole e al vento aveva
asciugato meglio il terreno. Ne risalì per una decina di metri il
crinale e poi, girando le spalle alla collina, si sedette a guardare
il fiume.
In
quel punto il rivolo di acqua, si inabissava giù, quasi come un
orrido. Le cime degli alberi erano all’altezza dei suoi piedi ornai
e lui poteva ammirare la pianura che dal fiume si estendeva fino ai
piedi di Serra, ultimo comune del confine pugliese verso le montagne
del Molise.
La
pianura era un manto verde bandiera che brillava al sole, appena
mosso da un alito dal fresco venticciolo di metà aprile. Nel grano,
alcune macchie di papaveri e di fiorellini gialli di senape,
coloravano la pianura come un quadro di Monèt.
Di là
dei rami più alti dei saliconi , un piccolo casale bianco, quasi del
tutto diroccato, sembrava affogare tra il verde del grano. Rimase a
guardarlo a lungo come inebetito.
Poi
girò lo sguardo verso la strada di asfalto e notò una piega più
scura del grano. Sembrava un filo di orizzonte tra male e cielo, dove
non si capisce la fine dell’uno e l’inizio dell’altro elemento.
Intuì,
più che vedere, che quella era una strada.una strada che dalla
nazionale portava alla masseria. Una sorta di agitazione lo catturò.
Si alzò per vedere meglio oltre le frasche e capì: Quella era la
masseria del Rocchione.
Quella
era la masseria dove era stata tenuta prigioniera Lucia. Anche il
periodo era quello, il giorno...ah, sì...il venticinque aprile.
Pochi giorni mancavano a quella data e lui si rese conto che il posto
non era cambiato molto. Forse il fiume era più grosso una volta e ci
dovevano essere sicuramente più alberi, ma non poteva essere
cambiato molto, terreni agricoli erano e terreni agricoli erano
rimasti. Si sentì mancare le gambe. Di sedette di nuovo tra l’erba.
Ora
gli sembrava che gli alberi e l’acqua del fiume avessero alzato di
un tono il loro lamento.
Dal
basso della roggia, si elevava fino a lui come un pianto soffocato.
I suoi
sensi persero pian piano la lucidità e a lui sembrò di sentire
delle voci. Qualcuno stava cercando di chiamare, si dimenava per
sfuggire alla costrizione, una voce di donna ansava per liberarsi.
Qualcun
altro stava bloccando i polsi della ragazza intrecciano il giovane
grano e le fibrose piante della senape.
Le
macchie di papaveri ondeggiavano sul grano come se una macchia di
sangue affiorasse dal verde. L’ululato muto di quel campo di grano
sembrava essergli scoppiato nella testa come un urlo.
Non
vedeva più niente, un velo umido gli riempiva gli occhi, mentre le
grida soffocate di richiesta di aiuto si andava affievolendo. Stava
piangendo.
D’un
tratto sentì l’agitazione che lo comprendeva tutto senza dargli
tregua, si sentiva soffocare.
Quel
posto era a pochi metri da dove, due sciagurati fratelli, avevano
abusato violentemente e poi ucciso Lucia.
Quello
era il dosso da dove una donna, passando aveva assistito a quella
vile violenza.
In
quel momento si chiese che cosa ci faceva lì, mille chilometri
lontano dalla protezione della moglie, dalle sue fette e marmellata e
dalla sua vita.
Ora voleva alzarsi,
andare via. Mise la destra a terra per aiutarsi e...la sua mano si
posò su quella di qualcun altro. Spaventato si girò di colpo a
destra.
Avrebbe avuto voglia
di gridare, avrebbe dovuto sentirsi...si accorse invece che la sua
agitazione si era chetata adesso, si sentiva tranquillo, in pace.
“Quando sei
tornato?” Sembrava che la ragazza l’avesse aspettato a lungo in
quel posto. Non le rispose. A quella domanda aveva giù dato troppe
volte risposta per quel giorno.
“Tu...tu sei
quella Lucia?La Lucia di questa storia?” indicò il
grano dall’altra parte del fiume come se quello doveva spiegare
tutto. Quasi un grido gli uscì dalla gola, un grido che non era né
una domanda né una affermazione, solo un modo per prendere coscienza
di un dato di fatto ora, finalmente, chiaro.
“Si...“ lei non
lo guardava, sembrava attratta da una macchia di grano dove più
folti erano i fiorellini gialli e i papaveri. ”
“...e tu sei il
piccolo Antonio, ’Ntoniuccio”
“Ti ricordi di
me?”
“Certo...sei
cresciuto...”
“Si...si certo, ma
io ti ricordavo molto più grande.”
Avrebbe voluto
raccontarle di quanto aveva cercato di lei, di quanti giorni aveva
passato a chiedere ad ognuno dei suoi compaesani, di quante notti
insonni il suo pensiero gli aveva tenuto compagnia.
Ma si rendeva conto
di quanto fosse inutile, lei sembrava conoscerle queste cose.
“Eri tu che eri
più piccolo…”
“ Ho trovato
Antonio...quell’Antonio…”
Lei lo guardò senza
dire niente, forse sapeva anche questo.
“Anche la sorella.
L’ho vista….vipera! La sua rabbia era vera, gli occhi sembravano
volergli scoppiare.
“Ah...hai
conosciuto anche lei…” una piega della bocca sembrò disegnare
un leggero sorriso sul viso della ragazza, ad Antonio pareva che lei
fosse curiosa di sapere cosa ne pensasse lui. Poi capì che lo
sapeva. Lei non comunicava attraverso le parole, quello era il modo
dei corpi. Le anime non hanno quella necessità.
Lei sapeva.
“Si certo...e
ora...io cosa devo fare?” lo chiese come se non volesse la
risposta. Non capiva neppure se lo avesse chiesto a se stesso o
veramente a lei. Questa volta anche lui aveva la sensazione di
conoscerla già. Lei distolse lo sguardo dal grano e lui poté
finalmente guardarla alla luce del giorno. Era bella. Giovane e
bella.
Non sentiva la sua
ma voce, le sue parole gli riempirono la mente lo stesso. Lo
stordimento lo sconvolse.
“Torna a casa. Da
tanto tempo non c’è più niente da fare per me...Torna alla tua
vita,. Non mi scordare. Non permettere che mi dimentichino.”
“Basta così?
Basterà questo per sempre?”
“Dove sono io, da
tanto tempo...basta molto meno...per sempre.”
Un suono lontano di
clacson lo distrasse un attimo. Il suo accompagnatore era tornato da
Serra e lo stava cercando intorno al ponte e al santuario.
“Devo andare…”
disse girandosi verso di lei.
La collina era
vuota.
Si girò
istintivamente a cercarla nel grano.
La macchia di
papaveri che prima ondeggiava inquieta nel grano, ora era ferma.
Al centro della
macchia, qualcosa aveva spezzato il grano e i fiori. Come se qualche
grosso animale, si fosse rotolato rompendolo.
“Cinghiali! “
Pensò. “Un danno così sembra il risultato di diversi
maiali selvatici!”
Oltre quella
macchia, il campo intero era una distesa di verde puntellata di
giallo e di nuvole di un magnifico rosso che mirava dritto verso i
raggi del sole che sembrava sorto per dar loro il calore di un amore
vitale. Come a voler sottolineare che una parte di quel raccolto era
andato perso per colpa dei facoceri, ma il resto era un inno alla
vita che continuava.
Discese dalla
collinetta di argilla, ormai troppo calda per poter respirare bene e
si avviò per il selvatico tratturo senza vederlo.
La testa sembrava
volesse scoppiargli. Non riusciva ancora a capire come fare a calmare
quel tormento poi, da lontano cominciò adagio ad arrivargli una
voce. La melodia si impose nel vuoto assoluto dei suoi pensieri.
………..
Tutti
i compaesani voi sentite
Che
brutta condanna che ci hanno dato
Mio
padre a vent’anni e noi in galera a vita
Questo
pentimento tragico come non muore
Nessuno
ha pietà di questo povero cuore
Vorrei
che questo cuore si spezzasse
Quando
io vedo questi infami cancelli
Vorrei
che quell’anima mi perdonasse
Non mi
perdona no! Son scellerato
Dentro
queste mura piange, questo carcerato
Vorrei
che un giorno mi apparisse
L’ombra
di quell’anima adorata
Lucia
si chiamava era innocente
Due
fratelli scellerati e senza cuore
Senza
pietà l’hanno uccisa e tolto l’onore
Tutto é finito
tutto per noi é cambiato
Addio a mamma bella
e alla gioventù
Io maledico il
giorno quando è stato
E Dio non mi perdona
per questa bufera
Addio Lucia addio,
muoio in galera.
Addio a tutto il
mondo e a mamma bella
Addio giovani che
fate l’amore
Questo è l’esempio
che lascia Cenz’nell
Vorrei che questa
vita poco durasse
Io prego a Dio che
mi faccia morire
Non posso più
soffrire di questo dolore
Il cuore sempre
piange notte e giorno
Da quando abbiamo
ucciso il primo amore.
E Dio non mi castiga
per questa bufera
Addio Lucia addio,
muoio in galera.
………..
Copiose, le lacrime
calde, riempivano gli occhi di quel bambino che non sopportava gli
addii.
Questa volta era lui
che doveva andare.
Si diresse verso il
suono del clacson.
Per la prima volta
l’aveva cantata tutta.
E cantandola l’aveva
rivissuta con lo stesso dolore di ogni giorno, da quando quella
storia lo aveva catturato.
Quel pomeriggio fece
una passeggiata con una ragazza del paese che non conosceva prima. La
figlia di un suo amico, anche lei viveva fuori dal paese e di quella
storia non conosceva niente.
Sembrava quasi che
avesse bisogno di passare il testimone a qualcuno più giovane di
lui, affinché nessuno dimenticasse Lucia.
La portò dove la
ragazza abitava con la vecchia madre, dove abitava la sorella, moglie
di Pasquale Torvino, sotto l’arco della pescheria dove Lucia era
stata una notte da morta, nel carro sotto l’erba e poi al pozzo
dove la giovane era stata gettata.
La compagna di
quella passeggiata, Valeria, era stravolta da quello che sentiva per
la prima volta. L’uomo stava alleggerendo il suo fardello
condividendola con una nuova persona, completamente estranea a quei
fatti.
Proprio come il
professore di musica l’aveva consegnata a lui e Valeria accolse
Lucia dentro di sé proprio come l’aveva fatto lui. Lucia era
diventata una storia che univa due persone estranee e li faceva
sentire più vicini di prima. Prima o poi sarebbe accaduto che tutti
in paese avrebbero saputo. Lucia li avrebbe legati tutti.
Ripartì dal paese
quella sera stessa. Aveva evitato di salutare gli amici. Se ne andò
dal paese con una grande pace dentro.
Capitolo
dodicesimo
La
sorpresa
Dopo
essere tornato a casa, Antonio non parlò più di Lucia. Non
raccontò a nessuno di quello che era successo al paese. Ogni tanto
sembrava che un rigurgito mentale gli riportasse a galla qualche
particolare di quella visita giù. Un giorno raccontò alla moglie
della separazione del suo amico dalla moglie. Lei aveva chiesto come
mai solo ora, due mesi dopo, le raccontasse certe cose.
“Non
so...non me lo ricordavo neppure più…” Lunghi periodi di
silenzio scandivano i ritorni di qualche pezzo di ricordo di
quell’esperienza. Antonio sembrava invecchiato molto durante quella
breve assenza da casa. La vita aveva ripreso il suo ritmo, e un
domenica dopo il pranzo...
“Mi
fai vedere qualche foto di quando lui era piccolo?” la fidanzata
del figlio aveva ripetuto quella richiesta da alcuni mesi, ma le loro
brevi visite, rade nel tempo, non avevano mai permesso di trovare
l’occasione giusta.
Quel
pomeriggio lui si sentiva più tranquillo, non rispose neppure, si
alzò e sparì nelle camere del piano di sopra. Lì il suo ragazzo ci
era cresciuto, prima che, dopo i diciasette anni, volle andare a
vivere con la madre, al centro del paese. Il padre aveva conservato
intatta quella che era da sempre, la stanza del figlio, tutto ciò
che lo riguardava, insieme agli albumi piene di foto di quando lui
giocava a calcio.
Quando
tornò nella tavernetta i ragazzi stavano finendo di sparecchiare la
tavola, mentre la moglie era già al lavandino con le mani nell’acqua
a lavare le stoviglie.
“Ecco
qua!” disse appoggiando sul massiccio fratino , una pila di album
fotografici “ qui ci trovi tutto il tuo ragazzo, dalla prima
all’ultima foto”.
“Vado
solo un attimo a lavarmi un attimo, ho mangiato la pizza con le mani
e non vorrei rovinare qualche foto.” fu di ritorno dopo qualche
minuto e cominciarono ad aprire i faldoni foderati di cuoio.
“Quello
colorato, si, quello con il carillon, proprio quello...è quello
delle foto appena nato.”
La
ragazza lo prese da sotto alla pila celiando divertita il fidanzato.
“Voglio
vedere quella nudo sul letto che fanno a tutti i bambini!” si girò
a guardare il giovane che si scherniva imbarazzato.
“Spero
proprio che non me l’abbiano fatta!”
“E
come no! “ Antonio si era alleato alla giovane ospite “...eri
pure carino…” In quel momento i primi voluminosi contenitori
scivolarono dalla pila e finirono sul pavimento. Dal loro interno
sgusciarono sparpagliandosi una ventina di fogli e qualche
fotografia.
“Tu
badassi a quello che fai, invece di cercare foto ignude di uomini.”
il giovane si vendicò dello sfottò della fidanzata.
“Scusatemi…spero
di non avere provocato danni”.
“Oh
nooo...che guaio…!”
“Ma
dai…” il ragazzo cercava di sdrammatizzare “ “ ...sono solo
fogli sparsi dappertutto...”
“Lascia
perdere, non è successo niente…” la tranquillizzò Antonio, poi
rivolto al figlio.
”...Per favore, raccoglimi quei fogli. Fammi vedere cosa sono…”
il figlio raccattò i fogli ed una foto in bianco e nero.
“Questo
non sono io…”
“Fai
vedere, aspetta, fai vedere anche a me…” la ragazza diede uno
sguardo alla foto e ricominciò.
“Nooo...non
sei tu, a meno che tu non fossi nata bambina…o meglio saresti stata
già una bella signorina...” prese la foto dalle mani del fidanzato
e gliela porse al padre.
Antonio
rigirò la foto, il suo sguardo rimase vitreo, il suo colorito
collassò verso il bianco livido di un cadavere mentre il cervello
in tumulto correva all’indietro impazzito e...un flash gli riportò
alla mente un angolo buio ed un odore di terriccio fresco. Poi sentì
il colpo argentino di una biglia di vetro che colpiva il suo
bersaglio colorato vicino ad un sacco di grano. Gli apparvero le
punte delle scarpe di vernice nera, alzò gli occhi e la vide lì,
davanti a sé. Un gesto involontario delle braccia come se volesse
alzarsi dalla poltrona...sul bracciolo la sua mano toccò un’altra
mano, ed il profumo della primavera arrivò alle sue narici come quel
giorno sulla collinetta tra l’erba. Lucia!...Quella Lucia!! Lei era
la Lucia della canzone di Funzenella.
Nei
suoi occhi sfumò veloce una macchia di papaveri rossi e di
fiorellini gialli. Un sottile alito di vento gli sfiorò le guance.
Tutto
durò solo un secondo. In casa era sceso un silenzio irreale che
sembrò inquietare il ragazzo, la fidanzata lo guardava sorpresa a
bocca aperta.
“
Papà, papà...che succede...stai bene?”
Si
scosse da quello smarrimento e vide il figlio e la sua giovane amica
chini su di lui.
Gli
occhi gli si riempirono di lagrime calde che si riversarono lungo
le guance
“Si...si
stò bene...ora,” si lasciò cadere pesantemente di nuovo nella
poltrona “...da dove l’avete presa questa?”
“
Era qui tra questi fogli.” gli porsero tre o quattro fogli pinzati
insieme, su uno di questi una clips vuota stava ad indicare il
foglio sul quale era stato fermata la foto. Il titolo scritto a mano
da una grafìa elegante era: ‘A canzon d’ Cenz’nella
“
Chi è quella ragazza? Sembra una foto molto vecchia.” Il figlio si
accorse che il padre era sbiancato e rimasto senza parola da quando
aveva visto quell’immagine “ Papà, sicuro che stai bene? Chi è
quella donna?”
“
Si. Non ti preoccupare...sto...sto bene.
L’ho
incontrata una volta, da piccolo...mi aveva detto di
chiamarsi...Lucia.” non disse ai due ragazzi del secondo incontro.
Non si
chiese il perché, sapeva che qualcosa di quella storia doveva
appartenere solo a lui.
Il giovane prese la
foto dalle sue mani, la girò. Sulla carta ingrigita dal tempo,
appena leggibile, una scritta a matita d’una grafia
incerta...Lucia P.
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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.
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