L’emigrazione
di ieri e di oggi:
Già,
l’emigrazione è sempre e solo migrazione di uomini e donne, di cuori e di anime
ma, se ci si chiede di parlare di quella di ieri e di oggi, probabilmente è
perché ci siamo resi conto che ogni migrazione ha delle sue peculiarità: la
prima per i credenti è stata quella di Eva ed Adamo, dopo il furto delle mela
furono cacciati dal paradiso terrestre, oppure quella del Darwiniano Omo
Erectus ( che non è il Trota che “ce l’ha duro” ma il nostro antenato
australopiteco che si eresse su due piedi e, scoperto che poteva camminare
meglio, iniziò passo dopo passo e solo quando ebbe più fame di prima si rese
conto che era troppo lontano da dove era nato e cominciò a lavorare sul posto
al fine di darsi una casa ed un modo di sfamare coloro che dipendevano da lui.
Si rese conto solo dopo, quando gli indigeni, i nativi di quel nuovo posto,
cominciarono a difendere il loro territorio e a chiamarlo terroncello, che era
diventato un emigrante.
Le grandi
migrazioni successive mutarono ancora: la prima grande migrazione di cui
possiamo parlare perché ci riguarda direttamente, è quella risalente a 150 anni
fa, quando gli eserciti francesi e inglesi, organizzarono e foraggiarono
montanari piemontesi e bergamaschi, per trucidare e saccheggiare il sud. Ai
figli sopravvissuti di questa terra, non fu lasciato altro che la pelle addosso
e una unica scelta: emigrare nelle nuove immense terre disabitate delle
Americhe per cercare di sopravvivere e
sfuggire alla cattiveria dei piemontesi. Attenti…in questa emigrazione noi non
possiamo ancora parlare di emigrazione “italiana”, poiché questa è una cosa
dalla quale abbiamo il dovere di emanciparci:, l’emigrazione NON E’ MAI STATA
ITALIANA! Prima del 1860 esisteva l’emigrazione dalle regioni del nord dell’italico
stivale, con il Piemonte in testa, per il quale un certo Cavour si accorse
subito di una cosa strana: più la gente partiva e più si stava peggio, non si
poteva campare sulle spalle dei pochi che restavano. L’emigrazione faceva
partire numeri importanti di bocche da sfamare, quelli che restavano si
impadronivano delle terre e delle case lasciate dagli emigranti ( proprio come
hanno fatto spesso, i nostri fratelli rimasti qui, espropriando chi era partito
della sua quota ereditaria). La casa regnante aveva meno persone da tassare,
meno introiti. Che regno è una landa di valli e montagne di castagneti desolati
senza strade e terre coltivabili? Senza gente da sfruttare nelle risaie, senza
sudditi infine, il regno dei Savoia era più povero e ridicolo. Rischiava di
scomparire. I moti risorgimentali spingevano verso un’unica nazione, in Italia
non ci sarebbe più stato spazio per due case reali e due stati. Al sud siamo
circondati e isolati dal mare, il nord aveva oltralpe l’esercito di Napoleone
che dopo Waterloo, non si poteva più permettere di mantenere le sue truppe
nelle terre occupate e che si stava ritirando da queste dopo un dominio di
sedici anni, periodo in cui i francesi ( molti dei quali si erano sposati e
piantati li ormai) svilupparono la rete stradale piemontese e studiarono un
piano di industrializzazione adatta al luogo. I francesi spinsero Cavour verso
l’ammodernamento del regno piemontese, che si diede un nuovo strumento che rese una delle zone
più povera e arretrata della penisola, lo stato più moderno tra gli stati
europei: Lo Statuto Albertino. L’occupazione del Regno delle due Sicilie portò
nelle casse piemontesi le ricchezze necessarie per lanciare un settore
produttivo industriale moderno e redditizio. Un fiume di soldi di tasse saliva
verso il nord depauperando il sud mentre riempiva le casse piemontesi. Furono
queste le condizioni che resero sempre più impossibile vivere qui e sempre più
allettante arrendersi, ancora una volta, alla cattiveria dei piemontesi i quali
scelsero per noi un unico destino: emigrare per andare a sopravvivere in
Piemonte in condizioni spesso disumane. Sembra eccessivo oggi fare una simile
affermazione, ma se qualcuno ha memoria storica della propria emigrazione. Si
ricorderà dei cartelli “affittasi a non meridionali” i quali non erano affissi
perché davvero non ti avrebbero affittato l’alloggio, a solo per strapparti un
affitto uadruplo e senza regole, facendoti sentire nel contempo accettato, “
si, a nessun’altro l’avremmo mai dato, ma lei sembra uno di noi, non l’avrei
mai confusa con quelli lì…” già, e tu ti sentivi gratificato, ti avevano fatto
capire che era meglio mimetizzarsi, assomigliargli e perdere l’abbronzatura
troppo scura, e quella abitudine di mangiare i strasc-net ch’i cim d’ rep,
quell’odore ti tradiva dalla tromba delle scale, buono era pure se imparavi
quale parola del loro dialetto e sostituivi quell’inflessione così
caratteristica… e tu mutavi, cercavi di imparare d’uj p’rù-n bagnè ‘nt-l’olij.
E spesso sentivi orgoglio per il riconoscimento ai tuoi mutamenti eri un essere in divenire…piemontesizzato e
poi piemontesizzante a tua volta. Cambiavi la tua lingua e perdevi ogni giorno
di più la tua identità, già…un emigrante muta il suo linguaggio immediatamente
appena salta sul treno non avresti mai più detto “ Parto” ma immediatamente
dovevi sostituirlo con “ quando sono partito…” e quando arrivavi dove arrivavi,
non lo sapevi, ma molto del tuo linguaggio abituale, non lo avresti mai più
pronunciato, le frasi abituali sarebbero state cancellate dalla tua memoria per
sempre. La frase: “ Io quello lo conosco da una vita, non l’avresti mai più
detta, “…mi fido di lui come di me stesso, andavamo a scuola insieme…ed altre
frasi che erano le tue certezze, non le avresti mai più concepite. (racconto un
po’ della mia esperienza iniziale a Torino)
Ma questa era la nostra emigrazione, ed ora,
quella dopo ed odierna, in cosa è mutata?
Noi
emigravamo come braccia, operai agricoli che diventavano metallurgici (come si
diceva allora) noi eravamo poco secolarizzati ma da questa condizione potevamo
solo crescere ed io credo che siamo cresciuti molto: il nostro provenire dalla
terra ci ha tenuto molto attaccati alle nostre abitudini;alla cucina casalinga,
al consumo di olio e vino proveniente solo dalle nostre terre, non conoscevamo
il mondo e non eravamo abituati a pensare alle vacanze come all’opportunità di
viaggiare e conoscere, ma unicamente come un periodo in cui tornare al proprio
paese, cercare tra i nuovi cittadini che non conoscevi i volti mancanti di coloro
a cui potevi dire:” siamo stati a scuola insieme…lo conosco da una vita…”
I nostri
figli sono cresciuti senza poter essere educati ad andare il due novembre e
qualche volta durante l’anno al cimitero a trovare i propri avi, senza aver
timore che nel paese in cui stavano crescendo ci fossero parenti che li
tenevano sott’occhio per coltivare in loro valori come rispetto, legame
parentale, rapporti di gruppo di appartenenza, insieme a quelle auto censure
che ne limitano le intemperanze giovanile che quando è senza controllo può
essere spesso distruttiva e autodistruttiva.
La nuova
generazione non emigra…viene svezzata nella incubatrice dove nascono, fino alla
fine del liceo assorbono i contributi dei già poveri comuni meridionali, i
contributi di province e regioni, per poi andare a continuare gli studi presso
le loro università, dove vengono spesi i soldi del mantenimento della famiglia,
“corretti” nella loro cultura quando sono ancora in formazione per sentirsi
“cittadini” di quella città gia da allora, loro non sono emigranti, non si
sentono tali, poiché loro sono usciti di casa per studiare e dopo essersi
laureati, la città offre loro un posto di livello accettabile al loro titolo,
perché cosa tornare al paese? Così medici; ingegneri; architetti e avvocati…danno nuove linfe a città
sclerotiche, potenti economicamente e sullo strapiombo della geriatria senza
questo ricambio di nuove energie provenienti già uomini e donne da fuori. E
tutto questo senza sborsare un centesimo. Noi paghiamo il valore ed il plus
valore di una lavatrice prodotta al nord, ma loro non sborsano un nichelino per
un uomo cresciuto al sud.
Questo sta
determinando un nuovo problema per i comuni meridionali, sull’orlo del
fallimento: crescono i bambini fino a quando sono improduttivi e, quando
diventano produttivi e consumatori, li regalano alle città del nord, senza
contropartita. In paese restano solo persone anziane e malate. Al mio paese,
l’unica cosa che è nata negli ultimi 50 anni è un centro per assistenza di
portatori di handicap gravi ed un negozio di ausili per costoro; carrozzine e
protesi. Intanto hanno chiuso tre sale cinematografiche, due mulini, quattro
cantine (trattorie), due pescherie, l’unico albergo del paese, tante sartorie, il negozio del sellaio e
quello del di tre ciabattini, perfino due chiese hanno chiuso e stanno cadendo
a pezzi per mancanza degli oboli dei fedeli. Il prete è andato in depressione
credendo che la diminuzione dei fedeli fosse dovuta alle sue prediche. E non si
rendeva conto che mentre lui si scoraggiava c’era un prete a Torino che si
credeva chissà cosa per i fedeli che si moltiplicavano alle sue insulse
prediche.
Il nostro era
un paese diviso in due anche in questo: la gente del sud emigrava per morire a
Marcinel e per le vie d’Europa, il governo italiano firmava un accordo con
altre cinque nazioni europee l’accordo sull’acciaio e il carbone(CeCa) e col
governo belga quello del carbone contro uomini (il 23 giugno del 1946) questo
accordo destinava all’Italia un vagone di carbone per ogni uomo emigrato nel
loro Stato. Ma noi al sud abbiamo mai visto arrivare quel carbone? Ne abbiamo
ottenuto forse una contropartita? No! Il carbone serviva ad alimentare le
industrie del nord e a riscaldare le loro case. La Fiat, una delle ultime case
automobilistiche nate in Italia ha assorbito negli anni le numerose industrie
preesistenti, unicamente per il privilegio di essere diventata la maggiore
delle aziende piemontesi, a forza dei finanziamenti ad essa riservati e
garantiti dai Savoia, permettendole di far fallire ed inglobare aziende famose
già all’estero e perfino oltreoceano, che producevano la Isotta Fraschini, la
Ceirano, la Itala, fino a riuscire ad inglobare
l’Autobianchi, la Lancia, l’Alfa Romeo e la Maserati e la Ferrari…tutte
e mentre ingoiava tutto questo continuava ad ottenere finanziamenti e
mantenimento dei suoi membri tutti parlamentari.
I piemontesi
avevano studiato ed ora capivano che fare emigrare la gente significava
impoverire un posto: l’emigrazione è un regalo che i paesi poveri fanno ai paesi
ricchi.
Nella cultura
piemontese di oggi ci entra poche volte la parola “Emigrazione”, loro parlano
solo e sempre di “Immigrazione” : come limitarla, controllarla, incanalarla
dove serviva a loro ( a Torino tu non aprivi neppure un salone da barba senza
il consenso della Fiat) e comunque gestirla.
In Europa gli
emigranti italiani hanno pagato un dazio per la pochezza politica dei nostri
governanti, per la delinquenza diffusa nelle regioni infestate da mafia,
‘ndrangheta, sacra corona e camorra, in Germania ad esempio, siamo stati
chiamati “spaghetti fressen” (mangia spaghetti) ma questo titolo non ti
offendeva; noi siamo mangiaspaghetti quanto loro sono mangiakartoffle, questo
ci identificava di più, non toglieva niente al nostro modo di essere. Al nord
ci chiamano “Napuli,Terroni, Africani…”dando a queste parole il profondo
disprezzo di chi è nato al sud di Pavia. Disprezzando di fatto quello che tu
eri per nascita, senza colpe in cui riconoscersi, ma diventando colpevole solo
per essere nato al sud! Spingendo il tuo desiderio di recuperare questo
“difetto” naturale, con una mutazione psicofisica al punto di volergli
assomigliare in tutto e per tutto: un vero
lavaggio del cervello che ti induce a diventare più piemontesi
possibile. Quando nel ‘67 arrivai a
Milano, lavoravo alla metallurgica Broggi alla Bovisa, tra i miei colleghi di
reparto ve n’era uno che io stimavo un bastardo milanese, che mi parlava in
dialetto stretto e se non capivo(ed io non lo capivo) mi gridava parolacce
irripetibili, solo dopo sei mesi, quando cominciai a comprendere, a parlare con
lui seppi che era di Bari.....to be contined
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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.
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