Era il mese di agosto del 1970, quell’anno abbiamo abbandonato il paese per sempre.
In realtà, alcuni della famiglia erano già a Torino da un pezzo, presso la casa di una delle mie sorelle maggiori, sposata ed emigrata in questa città da anni. Io e mia madre eravamo rimasti in paese ad aspettare che lassù trovassero casa e lavoro e poi li avremmo raggiunti.
Dovevamo anche attendere che mia nonna, la madre di mia madre, ormai da molto tempo a letto in fin di vita, si spegnesse, non potevamo di certo lasciarla, né tampoco portarla con noi.
In realtà io non sarei mai voluto emigrare, il lavoro in paese non mi era mai mancato, mi adattavo a qualsiasi cosa e riuscivo ad avere buoni rapporti con la gente con cui lavoravo, amavo i luoghi in cui ero nato e cresciuto, ero felice per piccole cose o quando pescavo con le mani il pesce nel Fortore, eppure me ne andai.
Ero emigrato in Germania nel 1965, seguendo mio fratello di due anni più grande di me.
Da allora avevo fatto su e giù a periodi, tra questi, vissi qualche mese a Milano, dove avevo raggiunto la mia ragazza del paese, il mio primo amore, anche lei emigrata con la famiglia al nord in cerca di una vita migliore. Ero tornato dalla Germania traumatizzato dall’esperienza,volevo togliermi l’obbligo del servizio militare, per poter vivere in Italia e così, appena finito, tornai a casa.
Qui però le cose erano cambiate, gli amici erano partiti e le cose non erano più le stesse.
I paesi erano vuoti durante l’anno e d’estate i “ ciao neh?”, così venivano chiamati coloro che erano emigrati al nord, tornavano con le auto lucide e con i vestiti stirati e parevano pieni di soldi per potersi godere le vacanze al mare e correre su e giù con le macchine.
Così partii! Così partimmo tutti, con la convinzione che a nord o a sud, questo era comunque il nostro paese.
Arrivai a Porta Nuova, la stazione centrale di Torino, dopo un viaggio allucinante in treno con la febbre a quaranta, sdraiato su un asciugamano, nel corridoio di un vagone stracolmo di una umanità piena di progetti, velleità e tante scatole legate con lo spago, con mia madre e con le nostre poche cose e da quel momento mi accorsi che la mia essenza era cambiata: ero un terrone con la valigia di cartone! Torino, o meglio Grugliasco, fu subito per noi la casa, il lavoro ed una vita che giorno per giorno, si arricchiva di rapporti ed amicizie nuove. La mia mente di ragazzo emigrato, a secco di cultura, veniva trasportata verso mille avventure da stimoli nuovi ed eccitanti.
L’Italia in quegli anni era in fermento per i movimenti giovanili, che seguivano l’onda rivoluzionaria del “ Che “ e del maggio francese e si contrapponevano , sui posti di lavoro e nelle famiglie era tutta un’assemblea continua su ogni argomento: la libertà, il lavoro, la sessualità, la famiglia, il femminismo, tutte queste cose fecero su di me
Dopo un po’ ero uno dei militanti del Manifesto e suo marito.
Mi ero sposato senza neanche accorgermene, lo aveva voluto lei ed io avevo semplicemente detto ok. Avevamo trovato un alloggio in una villetta con giardino ed orto nel quartiere di “ città giardino”, periferia buona di Torino, un paradiso per noi e per me che sentivo la mancanza della terra. Il proprietario era un anziano signore piemontese, contentissimo della sposa insegnante e delle mie estrazioni contadine per via dell’orto, ma…accidenti a quel piccolo particolare….ero un terùn e lui proprio non si fidava a darci l’alloggio.
Io non mi ci ritrovavo nella visione che avevano di noi immigrati gli indigeni, mi sembrava così strano che mi chiamassero “ napuli “ o “ siciliano mafioso “ e poi, ma che voleva dire “ valigia di cartone ?” Tutte le valige erano di cartone in quegli anni, solo i signori potevano permettersi quelle belle in cuoio! Eravamo allora come gli extracomunitari di oggi, senza mestiere, senza casa e senza certezze.
Solo ora, dopo trentacinque anni di vita passati qui, comincio a sentirmi un italiano, non sento più quei nomignoli con cui venivamo etichettati.
Questo credo sia dovuto all'arrivo di stranieri da fuori. Proprio mentre qualcuno voleva ridividere il paese in regioni, il mondo s’è rimischiato in modo tale che ogni paese è una torre di babele.
Oggi siamo noi ad indicare gli altri come: extracomunitari, ladri di lavoro, clandestini.
Proprio adesso che nessuno la nomina più, la mia mente va a ritroso a quella valigia di cartone e mi piace cercare di capire, cosa volevano dire loro e cosa voleva dire per noi quella valigia, quella fragilità nella quale chiudevamo insieme alle poche cose che avevamo, tutte le nostre speranze, tutti i nostri progetti insieme alle nostre paure.
Già, le nostre vecchie inconfessate paure con le quali lasciavamo i nostri luoghi natii, i nostri affetti e i nostri morti e quelle nuove che ci nascevano e con le quali venivamo accolti nei posti sconosciuti in cui arrivavamo, con gente che parlava un altro idioma e che esponeva cartelli “ affittasi a non meridionali “, per i quali tu eri solo un terùn, un napuli, un extracomunitario.
Ecco che cosa era la nostra valigia di cartone: la nostra debolezza, nostra come di tutti i poveri del mondo costretti ad emigrare per non morire d’inedia.
È strano, ma ancora oggi non amo le valige di cuoio, se viaggio lo faccio con valige di stoffa, colorate.
Ma se ho tanta roba da portarmi dietro, cosa che mi capita di rado, chiedo aiuto e pazienza ancora alla mia vecchia valigia di cartone.
da "Dalla cenere di una quercia" Neos edizioni 2005
http://notiziariodelleeolie.myblog.it/2008/04/18/emigranti-con-la-valigia-di-cartone/
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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.
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