Giù
alla Stina, la cascina dove Gheorghe allevava le sue strane pecore dalla
larga coda a spatola, il freddo cominciava a mordere le carni ben presto
quell’anno. L’autunno era stato breve e secco, ma appena erano cominciate le nebbie
notturne, l’umidità sull’erba si trasformava, durante le notti, in un velo di
brina che dipingeva di bianco le gole umide della valle. Durante le poche
giornate, in cui il sole temprava di un morbido tepore le gole, la brina si
trasformava in un velo leggero di vapore che si alzava fino alle cime degli
ontani, avvolgendo e confondendo le bianche cortecce delle betulle ma poi,
appena oltre le cime più alte degli alberi, il vapore spariva come una morgana
e quello che era stato, un’impalpabile illusione di ovatta, svaniva nel ceruleo
oltre le colline. Vidra passava le
giornate a seguire gli ovini e, come ogni giorno, il solito giro senza grandi
variazioni, non portava alcuna novità. Gli odori da seguire erano scarsi, le
volpi e i procioni erano quasi del tutto scomparsi, si erano spostati verso la
città attirate dagli odori delle pattumiere che potevano fornire maggiori
quantità di cibo nei resti degli uomini. Da quando non pioveva? Il canide aveva
poche possibilità di sapere quante volte era sorto e calato il sole dall’ultima
volta che la pioggia l’aveva bagnata tutta, gli animali non contano i giorni e
le notti, ma lei sapeva che le polle d’acqua in cui si dissetava, si erano
prima diradate e poi scomparse quasi tutte. Conservava i ricordi delle giornate
di pascolo solo da alcune azioni meccaniche che svolgeva abitualmente seguendo
l’uomo. Era il suo cane preferito da quando l’aveva adottata, molto tempo
prima, scegliendola nella numerosa cucciolata di cui la piccola faceva parte.
Aveva sentito gli uomini parlare tra di loro, poi quello nuovo si era chinato e
l’aveva presa nella sua grossa mano, un piccolo e breve tremore, seguito subito
dal piacevole calore amico di quel corpo umano, leccò quella mano ed
immediatamente senti che sarebbe stata fedele al suo nuovo padrone. Il moldavo
era arrivato in quella fattoria vicino Sibiu, dove era nata la cucciolata, con
un vecchio camion russo, a caricare del fieno per le sue pecore, la siccità
patita nella moldova, non aveva fatto neanche nascere l’erba quella primavera e
poi, appena erano cominciate le giornate calde di maggio, quel poco di verde
nei prati era subito seccato, arso dalla mancanza di pioggia, il terreno
argilloso delle colline, era diventato prima un pavimento duro poi, sembrava un
budino in cui si erano aperte infinite fenditure, sgretolandosi verso valle
appena sopra le povere case di terra e lamiera sul lato destro della valle. Più
giù, sulla piana dove le giumente brade pascolavano coi loro puledri, il fiume
era completamente secco e nell’invaso del lago in fondo alla valle, al barrage,
l’acqua era ormai solo una macchia grigia e
melmosa a ridosso dello sbarramento di cemento. Il lago artificiale,
aveva perso l’abitudine e riflettere un rassicurante cielo blu ed ora aveva
assunto lo stesso colore grigio-ramato dell’arida infinita distesa
raddoppiandola nella sua disperazione. La canna selvatica, che cresceva
abitualmente sulle sponde più in alto, nel tentativo di sopravvivere
all’arsura, aveva seguito l’acqua che si ritirava ed era arrivata dove l’invaso,
negli altri anni, conteneva acqua. Il gran caldo le aveva fatto crescere delle
grosse pannocchie di semi in cima che ben presto erano scoppiate riempiendo
l’aria di impalpabili stelline bianche dai lunghi filamenti, simili al pappo
dei tigli e dei denti di leone, che spesso si appiccicavano sulle labbra e
tentavano di entrare nel naso mentre si respirava. Fu mentre attraversavano il
vecchio ponte militare di ferro, l’ultimo residuato bellico del luogo, dieci
anni prima, che all’uomo venne l’idea di chiamare il suo nuovo cane, col nome
del fiume che segnava il confine ovest della provincia di Vaslui: Vidra.
Ora la vecchia cagna stava perdendo
molto pelo per il caldo e la fatica di giornate lunghe ed estenuanti. Al
mattino aiutava l’uomo a radunare le pecore intorno al pozzo, il padrone tirava
fuori dalla sorgiva secchiate d’acqua che versava nelle vasche scavate in
tronchi d’alberi coricati sul terreno , i cani e le pecore si dissetavano,
cercando di bere più acqua che potevano, durante la lunga giornata non ne
avrebbero trovata altra, poi, la fedele
cagnetta, cominciava a spingere le pecore su per la salita, seguendo quel poco
d’ombra che le scarne gaggìe, più spinose e con meno foglie degli altri anni,
proiettavano sulla dura argilla delle colline di Tomesti, la spalla della
radura, era coperta solo da una stopposa parvenza d’una vegetazione che
assomigliava ad una arruffata barba rossiccia, popolata da numerosi piccoli “papandujie”,
roditori simili alle arborelle, meno grandi di una donnola, che continuavano a
cercare qualcosa da mangiare in superficie, ripetendosi nelle loro frettolose
brevi corse, spesso interrotte per alzarsi ritte sulle zampe posteriori a
scrutare il territorio in cerca di prede e a controllare l’arrivo di loro
predatori. I cani però, non sprecavano molte energie nella caccia, avevano
imparato che gli animaletti s’infilavano sparendo, nelle minuscole fenditure
della dura argilla sottraendosi alla loro caccia ed il terreno era troppo duro
per tentare di scavare. Perciò evitavano di lanciarsi in infruttuosi e
stancanti inseguimenti. Appena fuori dal bosco, il gregge attraversava il
frutteto di prugne che si estendeva per molti chilometri, sotto gli alberi le
pecore trovavano qualche striminzito ciuffo da brucare ed un po’ d’ombra. Ogni
tanto si aprivano nella placca d’argilla, delle fenditure profonde come piccoli
canion dove, qualche ciuffo di verde
attirava gli ovini e a Vidra e agli altri cani, toccava stare attenti
per non perderne qualcuna, nessuno l’avrebbe riportata al gregge se l’avesse
trovata. Verso la metà del percorso abituale,
l’uomo metteva in una tana abbandonata di Tasso, la busta di plastica
che conteneva la sua giacca, un tozzo di pane, un poco di formaggio e una
bottiglia d’acqua da bere. Vidra l’accompagnava a compiere quel rito tutti i
giorni, mentre gli altri continuavano a badare al gregge, sapeva che poteva
fidarsi, uno di loro, uno spinone ungherese era di assoluta fiducia e, in sua
assenza, assumeva responsabilmente, il ruolo di capo branco, era attento alle pecore
e capace di dominare gli altri, l’uomo lo chiamava Don, il nome del Danubio nel
territorio magiaro dove l’aveva trovato. Gli altri cani, bastardi pezzati,
erano tutti nati lì, alla tzara, nelle pieghe delle colline d’argilla di del
piccolo villaggio rumeno, da una coppia di cani che l’uomo aveva portato con se
quando aveva smesso di lavorare sotto padrone, tanti anni prima ed erano ormai
con lui da parecchio, il maschio, Njstru, era il nome del fiume che una volta
segnava il confine ad est della Moldova, verso l’Ucraina, prima che la Russia
dividesse la grande regione rumena per annetterla all’Unione Sovietica e
costruire la Moldavia di lingua Russa. Il vecchio cane era rimasto solo, dopo
che un cinghiale aveva sorpreso da sola nel bosco, la sua compagna e l’aveva
uccisa. All’uomo erano rimasti tre cuccioli ancora da svezzare e lui li aveva
tirati su come poteva, riempiendo le loro ciotole di latte munto alle pecore
tutte le mattine, quando Vasile e Ghitza, gli ultimi due di una nidiata di
dieci figli, arrivavano dal paese con un
po’ farina per la polenta, un po’ di salame e col siero del formaggio fatto
dalla madre la sera prima. I cuccioli erano cresciuti seguendo i modi di Vidra e dell’ungherese ed erano diventati i
custodi fedeli del gregge e degli altri animali della stìna, due di loro( Tinka
e Ankutza) restavano tutto il giorno coi ragazzi che stavano intorno alla
cascina ad accudire la mucca e la vitellina, i maiali, le galline e ad
aggiustare il recinto costruito coi rami secchi tagliati nel bosco, solo il più
piccolo, Gorky, seguiva il gregge con
Vidra, Nistru, Jmmy e Bertutza. La sera al ritorno del gregge, dopo che i due
fratelli avevano finito la mungitura e la sistemati gli ovini per la notte, si
sdraiavano tutti intorno al pastore che spezzettava il pane duro, un tocco di polenta e un po’ di latte per
loro. I cuccioli e lo spinone a debita distanza dall’uomo, solo a Vidra e Tinka
era concesso di avvicinarsi al padrone, Vidra era la prima ad essere servita. A
volte, durante il ritorno all’ovile, l’uomo dimenticava di dover riprendere la
sua busta di plastica con la giacca il pane e l’acqua dalla tana dismessa del
tasso, ma a Vidra non sfuggiva più, le era capitato un paio di volte, quand’era
piccola e subito aveva scoperto che senza quel pane, la sera, non c’era niente
da masticare, né per loro né per l’uomo. Aveva imparato a sue spese che le
notti a digiuno, dopo le lunghe scorribande del giorno, erano più lunghe e
fredde. I cani ed il pastore, non avevano quasi mai occasioni di incontrare altri
esseri umani, dipendevano direttamente ed unicamente l’uno dall’altro e tutti
dai due fratelli che portavano ogni giorno il necessario alla loro
sopravvivenza.
Specialmente quello biondo cogli occhi
alabastri, Vasile, non l’avevano mai visto mancare un giorno.
Vidra e gli altri non conoscevano altri
luoghi, non avevano mai vissuto un’altra vita, ma intuivano che qualcosa ci
doveva essere dall’altra parte della collina dove, la sera, vedevano sparire i
giovani figli del loro padrone col carro e i cavalli. Ankutza e Jmmy li
seguivano fino sopra la collina dove c’erano i mucchi di fieno, poi si
sdraiavano al riparo ad aspettarli fino al mattino, quando alle prime luci
dell’alba sarebbero tornati.
Ogni
tanto, Vidra guardava di sottecchi l’uomo che, quando rimaneva solo, volgeva lo
sguardo in su, dove il tratturo spariva oltre la gobba del colle e tutte le
sere ingoiava i figli. Non capiva bene il perché, ogni tanto, lui avesse gli
occhi velati d’acqua, allora Vidra si sentiva triste senza capirne il motivo.
Biascicava
un tenero lamento strusciando il muso sulle vecchie scarpe dell’uomo, lui le
faceva una carezza, poi si riparavano nell’unica stanzetta. Un povero giaciglio
per lui, la cagna si accucciava davanti all’ingresso in attesa dell’alba.
Chissà cosa
c’era oltre la collina…
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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.
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