Secondo me è perché noi abbiamo aperto una finestra nella nostra solitudine per “stare insieme” e ci siamo pure accorti che così è, perfino, meglio: saziamo il nostro bisogno di stare insieme, parliamo del nostro passato e dei nostri interessi, perfino del nostro presente e futuro, senza mai mettere in discussione niente davvero.
Sembriamo davvero una bella comunità. Abbiamo realizzato davvero un in/out, risaldato quei fili sfibrati di radici e cultura tranciati dalla emigrazione e ci sentiamo perfino più completi di coloro che vivono come comunità in paese. Abbiamo davvero risolto un grande problema? Non lo so con certezza, ma so che questo tipo di rapporto mancava e che nel coltivarlo mi riapre quel tratturo chiuso dalla lontananza con le persone del mio paese e col paese stesso. Questo mi fa stare bene e penso che sia lo stesso per coloro che ogni giorno hanno imparato a stare qui su questa piazza virtuale, non volendo più farsi mancare “quattro passi in piazza o nella villa” con l’amico del paese per discutere del più e del meno. Ricordare insieme cosa siamo stati e cosa siamo e magari, con qualcuno, cosa avremmo voluto essere e qualche sogno per il futuro.
Questo non può essere “male”, anzi...sicuramente è bene! Perché? Ma perché noi, come gruppo associato di sanpaolesi emigrati e no,
abbiamo dato un indirizzo diverso alla Comunità virtuale, abbiamo cioè unito allo stare insieme qui, su questa piazza virtuale, un intento di praticare questo essere Comunità anche fisicamente. Lo abbiamo fatto con l’organizzare la festa di Sant’Antonio a Giaveno nel 2010, appena nati, la festa degli emigranti al Paese nell’agosto dello stesso anno, abbiamo partecipato e mantenuta attiva la Associazione durante questi suoi pochi anni di vita con la nostra presenza e collaborando con altre associazioni, nazionali ed internazionali, su attività culturali che ci vengono proposte e di cui siamo promotori. Questo nostro impegno culturale non è rivolto, storto collo, solo all’indietro al nostro passato, ma al presente ed al futuro non solo nostro, ma lavoriamo (e sodo) nel territorio in cui ci troviamo, in cui ci invitano ad operare, con la comunità viva ed esistente che ci circonda. Questo è il senso di solidarietà che abbiamo espresso verso tutti gli emigranti che arrivano sul territorio in cui viviamo, e che è la strada che proponiamo ai nostri iscritti di condividere, ovunque stiano vivendo. Solidarietà con il territorio e con chi arriva, ricordandoci che un giorno eravamo noi a scendere da un treno.
La solidarietà non è una cosa che fatta qui, si ferma dove la operi, poiché essa ha una forza insita che mette in moto un processo buono infinito che la fa arrivare dovunque. Ecco perché l’essere solidali coi profughi africani che sono arrivati in Piemonte ha un senso forte: aiutando loro ad inserirsi qui, guidandoli e seguendoli in una integrazione non più lasciata al caso, ha permesso al governo italiano il poter distribuire sul territorio nazionale, quella marea di popolo che, per fuggire alla guerra di Libia, arrivava a Lampedusa. La nostra solidarietà ha dato la possibilità ai cittadini di Lampedusa di riavere per sé la propria terra invasa.
Quindi, ripeto, quello che stiamo facendo come comunità è bene poiché non siamo solo virtuali, ma fisicamente in contatto con gli altri, con noi stessi!
Ma come lo stiamo facendo è “bene”?
Voglio dire, per essere davvero comunità, anche solo virtuale, noi dobbiamo consentire a noi stessi e quindi a tutti , di lasciare che l’altro permei la nostra personalità, non difenderla come una fortezza chiusa, ma aprendoci all’altro, consci che l’apertura non può che portarci arricchimento, non temendo la disgregazione della nostra torre, ma plasmando ogni giorno quello che siamo per correre, goccia d’acqua nel fiume della vita, verso il nostro naturale approdo:il mare. Il mare in cui tutti saremo il tutto e il niente.
Ma cosa c’entra tutto questo con il coraggio?
C’entra, c’entra...c’entra se noi ci rendiamo conto che non clikkare solo su mi piace, ma esprimere il proprio pensiero, fare anche nomi e cognomi, dire la propria sull’argomento in discussione, non significa “criticare” col senso negativo che gli dà qualcuno, ma significa assunzione di responsabilità per quello che si dice, porsi come essere umano vivo, con la carne del proprio corpo, di fronte alle cose che non sono virtuali, ma fisiche e che un giorno si incontrano, significa “prego accomodati e parlami, entra dentro di me e cambiami, dammi il tuo punto di vista, fammi crescere.”
Questo non è solo l’unico sistema che io conosca per essere parte di una comunità, ma è, soprattutto, il mio dirvi che la mia personalità è forte, certa, non ha paura che quello che tu farai la sgretolerà. Poiché io non mi aspetto dal mio vicino un attacco, ma un contributo. Non lo temo, ma lo aspetto. Posso stare attento e vigilare affinché il nuovo non mi procuri del male, ma resto in attesa, non chiuso in difesa.
Per questo io vi chiedo di nuovo: cos’è il coraggio? Per alcuni è l’atto eroico? Per altri è la capacità di un rivoluzionario di sovvertire l’esistente’ Per altri ancora la capacità di accettare il proprio destino con stoicismo? Per molti è l’essere buoni? Ma allora perché diciamo che per commettere un efferato omicidio ci vuole “un coraggio barbaro”?
Ecco, io vi propongo di conoscerci meglio e di dire agli altri, a tutti, che cos’è secondo te il coraggio. Poi ne trarremo le somme.
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