domenica 18 marzo 2012

In/Out

Dentro/fuori



Le persone hanno di me un’idea sbagliata.

Posso fare questa affermazione con assoluta certezza poiché ho molte testimonianze a sostegno di questo mio assunto e nessuna che ne mina la sicurezza con la quale la faccio.

Da dove traggo questa mia certezza assoluta? Ecco un esempio:

 Durante la presentazione del mio primo libro di poesie e racconti, nella biblioteca comunale del paese in cui vivo da sempre, il sindaco del paese, una signora che mi conosceva dal mio arrivo nel suo luogo natìo, volle per prima cosa comunicare a tutti, la sua sorpresa per aver scoperto che il sottoscritto scriveva poesie. Le sue parole furono nette:”…mai avrei immaginato che dietro una persona che io conosco dura, incline alla polemica, allo scontro, si potesse nascondere l’anima di un poeta, di un artista…” Ho riflettuto a lungo su quelle sue parole, conosco troppo bene quella persona e la so rispettosa e oserei…quasi affezionata a me, per questo non ho mai pensato che potesse celare nelle sue parole qualcosa d’altro che non fosse una genuina sorpresa e basta. Non era la prima a dire quelle parole e da allora temo che non sarà neppure l’ultima. Quello che mi faceva pensare alle sue parole non era il fatto che non immaginasse il poeta in me, la poesia è un esercizio dell’anima così interiore, che non si manifesta fino a quando uno si auto-denuncia pubblicamente, ma era quella sua locazione del poeta che stonava:”…dietro una persona…” io non mi sarei mai espresso in tal modo. Una persona non cela assolutamente nulla “dietro alle sue spalle, a meno che non si intenda un oggetto o altra persona, coperta volontariamente o no, dalla sua mole. Credo che il luogo in cui ognuno di noi conservi una stiva di sorprese per gli altri e, non di rado, per sé stesso, sia dentro non dietro. Pur tuttavia ognuno di noi può sicuramente testimoniare, come ci capiti frequentemente di ascoltare persone che accusano qualcun altro di nascondere, celare, coprire, occultare dietro al loro agire, cose che non amano far sapere a terzi. Questa incongruenza è resa possibile dal fatto che è uso comune nell’era moderna, dare importanza all’apparenza e non alla sostanza dell’uomo e l’apparenza é proprio ciò che ci appare di una persona, il suo essere fisico, dal quale pretendiamo di  riconoscerne i segnali che ci fanno trarre le nostre valutazioni sull’individuo che abbiamo davanti: di che ceto sociale può fare parte, che tipo di lavoro o professione potrebbe svolgere, se è una buona persona o meno. Individualmente ognuno si arrabbierebbe non poco, con chiunque osasse fare una valutazione di noi, basandosi sulla nostra esteriorità, pretendendo un giudizio solo dopo che ci abbiano conosciuti più intimamente per come siamo fatti dentro, fatto questo che fa a cazzotti con quando si è detto fin qui. Difatti, se ognuno è convinto che la persona è quello che c’è dentro di noi, perché si dà tanta importanza a quello che si vede fuori? Credo che questo sia il male moderno determinato da una società che ha educato i propri cittadini ad avere e non ad essere, la nostra moderna società basata sul consumismo e sul possedere, sul PIL e sul profitto, non sulla ricerca di una ricchezza e di una pace interiore. Questo è l’errore di fondo che ha partorito, alimentato e cresciute le nostre paure moderne, una società basata solo sull’essenzialità dell’effimero, che mentre coltiva ed accumula oggetti esterni, inutili orpelli, come esibizione di sicurezza sociale e benessere, mina la crescita e la serenità di quello che le persone debbono essere dentro.

Questo del dentro/fuori non è un pensiero che mi si è affacciato ora, al traguardo dei miei sessant’anni è, piuttosto, un compagno del mio cammino, di vecchia data. Piuttosto ciò che mi ha sempre meravigliato è il fatto che è nato, dentro di me, partendo dal lato opposto a come, poi,si è sviluppato. Quand’ero ragazzo, il cinema mondiale cominciò a produrre film a colori, i primi colossal con questa nuova tecnologia furono le storie dell’impero romano: Ben Hur, i Dieci Comandamenti, Quo Vadis, i miti greci di Ercole ed Ulisse, film avventurosi di storie e leggende che sulla mente di un ragazzo di allora, facevano una presa enorme, almeno, la fecero sulla mia. Il fatto che erano a colori, con le tuniche dei romani di un rosso porpora stupendo che, finalmente, lasciava diventare di un bianco candido le corte gonnelline delle ancelle romane, aveva un peso eccezionale per il sottoscritto, credo che sia questo il motivo di una mia predilezione del rosso di quella gradazione; una sorta di imprinting cromatico nella mia giovane mente. In quei film c’erano sempre le scene della feroce persecuzione romana verso i primi cristiani, il Circo Massimo romano: il Colosseo, era il luogo simbolo di quella strage di innocenti i quali, disprezzati come umanità, venivano gettati in pasto a belve feroci affamate. Quello che mi colpiva in queste scene  non è mai stata la truculenza del sangue, ma l’accettazione della morte come inevitabile e, al fin dei conti, sminuita di quella drammaticità dolorosa che le attribuiamo oggi. La morte, in qualsiasi modo arrivasse, altro non era che l’unico mezzo con il quale si poteva liberare l’anima, la quale si ricongiungeva a Dio in una nuova vita. Vero è che a quel tempo, in Palestina, era stato da poco  crocefisso Gesù e la gente aveva vissuto quel dramma, in diretta. Lo sconvolgimento mondiale che quell’accettazione del sacrificio del figlio di Dio in persona, della morte come unico modo per la risurrezione dell’anima, era forte nei suoi seguaci, d’altronde, la vita delle popolazioni, divisa tra guerre, carestie e malattie incurabili, doveva sembrare meno accettabile della morte stessa, figuriamoci quella degli schiavi. Ma la cosa che colpiva la mia giovane mente affamata di vita e non di morte, era questa idea del sentirsi liberati dentro, come se il corpo null’altro fosse che la zavorra che tratteneva, in mezzo alle sofferenze, la possibilità dell’anima di avere finalmente la vera vita. Ritenevo che fosse incredibile che la gente, a volte giovane come me, abbracciasse la morte offrendosi il leone che lo sbranava e non parlo della finzione chiaramente cinematografica, ma del fatto storico vero. Noi avevamo le scarpe di cartone, i pantaloni rotti e tanta fame, tante esigenze da placare ed una bramosia di futuro che era quasi una malattia. Gli anni che seguirono furono quelli della ricostruzione dei danni della seconda guerra mondiale, quelli del boom economico, il miracolo italiano, che poi tanto miracolo non era, poiché quello era il periodo in cui per ricostruire e finanziare il rilancio dell’industria italiana, che allora più di oggi voleva dire la Fiat, i politici italiani ipotecarono il futuro italiano col debito pubblico che oggi ci strozza. Quello fu il periodo in cui attraverso la neonata televisione si cominciò ad educare i popoli al consumismo sfrenato e le persone cominciarono a guardare con invidia tutti quelli che possedevano i simboli moderni della realizzazione del nuovo essere umano: sempre di più quello che aveva fuori e sempre meno quello che uno era dentro. Il fatto può sembrare strano perché proprio qui da noi, la diffusa presenza della chiesa cattolica che da quel Cristo discendeva, doveva educare la gente alla consapevolezza dell’anima, invece di quella della proprietà terrena, ma anche il potere temporale della chiesa è cresciuto col benessere economico ed il gregge, pastori compresi, hanno marciato sempre più decisi dritti verso il Rolex e l’auto di grossa cilindrata, oggetti del desiderio di un numero sempre maggior di persone e di popoli. Nessuno più si sogna di accettare una vita semplicemente così come gli capita di nascere e alla parola povertà è stata applicata una sordina, sembra quasi che non la si possa più pronunciare. Le persone si complicano la vita in una frenetica ricerca di una ricchezza maggiore ogni giorno, gli stati ricchi fanno guerra, costretti anche dalle richieste delle banche e dei loro industriali che vogliono mantenere ed aumentare il loro potere economico sul mondo, dai cittadini che vogliono mantenere ed aumentare il loro tenore di vita, agli stati possessori di ricchezze naturali, specialmente quelli che hanno fonti di energia come gas e petrolio, per concedere a tutti la possibilità di vivere una vita da ricchi. Questo ritmo del consumo delle risorse sta portando le persone sull’orlo di un baratro morale dal quale è difficile che si possa risalire. La gente sta andando sempre più spedita verso la ricerca dell’immortalità, tenta con ogni mezzo di non farsi scappare la gioventù, vuole essere sempre giovane e bella, ha sempre più paura di morire. Nessuno più pensa che una persona è quella che è dentro, ognuno valuta l’altro dal conto in banca e da ciò che possiede, perfino la clonazione è diventata una possibilità sempre meno remota ed è probabile che in qualche posto del mondo, qualche scienziato pazzo, finanziato da qualche pazzo potente, stia già facendo esperimenti sulla clonazione umana. Abbiamo ucciso quello che eravamo dentro ed ora che sappiamo che ciò che siamo è solo quello che siamo fuori, sappiamo che appena saremo morti fuori è tutto finito, niente nuova vita dell’anima, niente resurrezione. Per questo l’uomo ha paura di morire. La storia del Cristo, lontana ormai  oltre duemila anni viene vissuta da coloro che si dicono fedeli come se fosse una leggenda, una favola e il risultato è che mentre continuano a ripetersi che il paradiso è la loro meta, che la loro anima non morirà col corpo, continuano a legarsi ai beni terreni come se non volessero e dovessero mai abbandonarli, ecco perché continuano a dire che dietro il modo di essere di una persona si deve nascondere qualcosa.

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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.

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