giovedì 7 marzo 2013

Il petalo


Il petalo

All’inizio si sentiva addosso un certo disagio. 
Nulla di preciso ma, seppur stretto tra gli altri e Dio solo sapeva quanto gli erano simili, lui si sentiva come fuori posto, diverso. Eppure guardandosi e scrutando gli altri, non percepiva differenze sostanziali che gli confermassero quella sua diversità anzi, sostanzialmente erano proprio tanto somiglianti, si sarebbe potuto dire ad una prima occhiata che erano proprio uguali, quasi gemelli, ma pure, lui non riusciva a sentirsi al suo posto nemmeno tra gli altri. 
Erano sicuramente i suoi fratelli e quella la sua famiglia, sapeva con certezza di essere un loro consanguineo, ciò non di meno, non riusciva a sentirsi completamente a suo agio. Non conservava il ricordo cosciente di chi, tra loro, fosse primogenito, non sapeva se era nato prima o dopo qualcun altro, si era sempre visto tra di loro. 
Magari nei suoi primi ricordi era molto più piccolo, ma... tutti lo erano. Erano tutti molto più piccoli ma uguali... Ecco...Questo era il suo primo ricordo e tutti erano stretti tra loro come uniti a formare un’unica entità. Certo, ora non ricordava quando era cominciata quella storia del disagio, anche se ricordava perfettamente che era iniziata abbastanza presto nella sua vita.
 Non aveva ancora una sua personalità ben sviluppata, ma già si sentiva diverso da quelli che dovevano essere i suoi fratelli. Veramente, a lui sembrava che non ci fossero differenze sostanziali tra loro e gli altri. Gli pareva, piuttosto, che sia loro – quelli che gli erano stretti intorno – sia gli altri – quelli piantati intorno ad altri nuclei – fossero molto più simili tra di loro, di quanto lui non lo fosse ai membri di quella sua comunità.
Perciò li viveva quasi con la medesima equidistanza affettiva: erano tutti “entità altre”. È pur vero che era perfettamente cosciente della diversità che c’era tra di essi, ma non gli era mai sembrata così importante, mentre gli era sembrata subito strana quella sensazione di disagio che sentiva nella differenza tra lui e gli altri, tutti gli altri, al punto da essere oggi, quasi invalidante nei rapporti con loro.
Aveva lo stesso colore degli altri suoi fratelli, la medesima forma e anche la grandezza era la stessa... anche se certe volte a lui sembrava che proprio questo era il problema, si sentiva molto più grande degli altri. Ma poi si guardava intorno e vedeva che non lo era affatto, in quanto a misure, era proprio uguali agli altri e, ogni tanto, si sentiva perfino... più piccolo.
Poteva anche darsi che il colore, seppur bianco come tutti gli altri, avesse, almeno in qualche zona del suo essere, una qualche sfumatura che lo distinguesse. Ma anche questo non gli sembrava determinante per giustificare il suo crescente disagio. Molti altri, negli altri nuclei intorno al suo, avevano sfumature e macchie, angiomi che li segnavano e che, spesso, erano proprio del tutto di un colore diverso dai fratelli piantati
al loro fianco – completamente blu o gialli; a volte venati di striature rosse e violacee, eppure vivevano la loro vita ben attaccati alle loro radici, ben inseriti nella loro famiglia. Lui invece, non poteva fare a meno di stare male, un leggero malessere che era diventato sempre più diffuso e costante, venefico.
Mano a mano che quella sensazione cresceva, si affermava in lui una certezza: se non la fermava, in un qualsiasi modo, quella diversità avrebbe scavato un solco tra lui e gli altri ed alla fine gli avrebbe impedito di poter continuare a vivere insieme. Era come sentirsi trascinato da una leggera ma costante corrente che lo avrebbe staccato dagli altri. Sapeva anche che questo lo avrebbe fatto sentire in qualche modo speciale, unico...e questo, in un certo qual modo gli produceva un certo sapore, lo stimolava ed incuriosiva.
Così, mentre a tratti coltivava quella sua diversità per accrescerla, appena scopriva che la distanza tra lui e gli altri del suo nucleo aumentava, cercava di frenarla per la paura di staccarsi e rimanere solo. Quando cominciava a frenare però...era ormai troppo tardi – la distanza tra di loro era aumentata ed ogni volta era più lontano…
Ormai era cosciente che la differenza cresceva in maniera esponenziale, di minuto in minuto e che le radici, ogni volta di più allo stremo, stavano sfilacciandosi e deteriorandosi in maniera irrecuperabile.
Prima o poi, si sarebbero spezzate e lo avrebbero liberato da quel ancoraggio nativo, rassicurante sì, ma anche limitativo e coercitivo.
Paura.
La sensazione di benessere derivante dal inevitabile separazione da quel ancoraggio era sicuramente liberatoria, ma conteneva dentro di sé al contempo una sottile incertezza che a volte lo faceva vibrare tutto, l’insicurezza pareva scuoterlo dal suo interno. Lui sapeva benissimo che, seppure simile agli altri, era fortemente diverso. Questo era ormai un dato acclarato, certo e non si discuteva più.
In verità non aveva ancora completamente afferrato in che cosa consistesse questa sua diversità, ma che questa esistesse ed aumentasse di giorno in giorno era chiaro, proprio per questo si era come arreso all'evidenza: l’avrebbe assecondata senza più resistergli, l’avrebbe vissuta e basta!
A volte la coltivava addirittura. Come ad affrettarne il procedimento ed il conseguente distacco, preso com’era dalla curiosità di capire alla fine, dove l’avrebbe trascinato. Smise di lottare contro quella corrente e la velocità aumentò. Sembrava che più avanti sul percorso, qualcosa, una sorta di risucchio, una cascata, facesse aumentare la velocità fino a renderla pericolosa. Quando aveva quella sensazione cercava di frenare
e si guardava alle spalle cercando qualcosa a cui aggrapparsi, a volte lo faceva tenendosi all’appiglio che gli offriva la radice forte, ben piantata, del suo vicino, fratello o sorella che fosse, ma loro stavano vivendo una loro vita e non si erano pienamente resi conto del suo travaglio, le energie che possedevano servivano
ad ognuno per sostenersi al loro ancoraggio.
 La fine fu inevitabile: un giorno, non capì bene se era fine inverno o primavera precoce, un vento forte e gelido lo staccò traumaticamente dalla corolla alla quale era attaccato coi suoi fratelli e cadde.
“Da solo finalmente...” pensò mentre rabbrividiva senza capire se era più per la paura o per l’eccitazione. Il petalo si staccò dalla corolla della sua margherita-madre e cadde. Sul prato tra le erbe si senti  immediatamente infinitamente piccolo ed in pericolo, ma il gioco che il vento lo costringeva a fare, aveva i suoi lati divertenti. Il petalo, staccatosi dalla famiglia, capì subito che la sua non era un problema di misure, o meglio, le misure giocavano proprio a suo sfavore, anche se tra i suoi si sentiva a volte più grande degli altri, qui, in questo mondo enorme e sconosciuto era proprio il contrario e lui si sentì talmente piccolo ed in pericolo che spesso rimaneva atterrito dal terrore.
Ma neppure questo stato d’animo durava a lungo, appena cominciava ad avere paura, appena l’insicurezza si faceva strada in lui, da un posto sconosciuto e segreto del suo io, cominciavano a fluire nuove ed insospettate energie che lo tiravano fuori degli impacci in cui si ritrovava invischiato.
Cominciò a guardare dentro di sé con curiosità e rispetto, attirato dallo scoprire che le energie di cui disponeva, erano sufficienti a badare a se stesso. Capì che poteva tentare di costruire le basi per una personalità che potesse farlo emergere da quei bassi intrighi di foglie morte e erbacce maligne in cui, spesso in verità, si sentiva infrascato.
Cresceva, insieme alla sua personalità, la coscienza di sé, del suo IO. Sentiva che la sua riserva interna accumulava ricchezze e, parimenti, la sua autonomia acquistava posizione, potere e, mentre questo avveniva, gli altri cominciarono a guardarlo con considerazione e timore. Spesso anche con una sottile e deleteria vena di nociva invidia. Ma non si poteva storcere il naso davanti a tutto quello che quella crescita portava, aveva piena coscienza che lui esisteva ora, nonostante si sentisse spesso solo, quella sua libertà gli stava regalando esperienze che non avrebbe mai potuto fare se fosse rimasto legato a quella margherita dove era nato, tra tutti quei petali che lo stringevano, quasi fino a farlo sentire soffocare, a volte. Quello strappo di quella folata di vento freddo, seppur traumatico, era stato un incidente necessario, spesso benedetto. Non poteva negare però che spesso gli venivano meno le sue sicurezze, specie quando questa sua nuova vita, lo faceva sbattere contro difficoltà che, di primo acchito, gli sembravano insormontabili per lui da solo, ma appena si calmava e cominciava ad affrontare il problema che gli si parava d’innanzi, scopriva che a sua insaputa le sue energie e le sue capacità erano cresciute in maniera smisurata ed allora anche i monti più irti e pericolosi gli sembravano dolci colline da affrontare con una serena passeggiata. Molto spesso pensava alla sua famiglia e si riprometteva di tornarci, magari solo per una capatina, per verificare il benessere rassicurante di essere tra i suoi vecchi affetti, legami che forse erano stati tranciati troppo presto. Lo fece perfino qualche volta. Dopo aver rimandato tanti appuntamenti, alla fine cedeva alla nostalgia, alla voglia di rilassarsi un momento e ritornava sui suoi passi, ma succedeva sempre che, appena tornato tra i suoi, ricominciasse a sentire quella sensazione del disagio primordiale. In realtà era strano dover prendere coscienza che un petalo non era niente se non attaccato al suo fiore.
“Un petalo è tale solo quando è attaccato alla corolla del fiore tra altri petali?” si chiedeva sulla strada di ritorno da quelle visite, sempre più rade e sempre più frustranti alla sua vecchia famiglia. “Ma allora cos’è un petalo che si stacca, un essere che mira ad una vita sua, autonoma ed indipendente?”
Aveva visto che anche gli altri petali, pur rimanendo legati alle loro radici, avevano degli interessi autonomi ed ognuno un suo punto di vista sulle cose della vita, ma pure tutti continuavano a far parte del gruppo d’origine, lui no, se ne sentiva fuori ed il disagio tornava. Proprio come una volta. Questo però era più sottile, più difficile da affrontare, quando quella strana sensazione lo assaliva mentre era in giro per il mondo, mentre affrontava i problemi quotidiani, il pensiero di poter tornare alla vecchia casa, alla vecchia famiglia, gli dava
sicurezza, gli offriva un rifugio e delle speranze. Ma quando quel disagio lo assaliva qui, tra i suoi fratelli nel suo vecchio prato, l’unico modo di affrontarlo era andar via, tornare da dove era venuto e questo lo rigettava immediatamente di fronte al suo problema. Diventava impossibile evitarlo e così era costretto ad affrontarlo e superarlo. Il risultato era che questa palestra aumentava le sue capacità e le sue risorse, accrescendo dentro
di lui la dimensione della coscienza delle sue forze e del suo IO. 
“Chi sono però io... cosa sono?…” Questa domanda cominciava ad affiorare sempre più spesso alla sua mente cosciente. “Non sono più parte di un fiore, così non posso continuare nemmeno a pensarmi petalo. Ma allora cosa sono? Non sono un filo d’erba, parte di un frutto, membro di una comunità: dovunque vado sono un estraneo. Non ho un posto mio né un ruolo. Cosa nasce da un petalo? Niente!... Non sono un seme… ma allora cosa sono?…” 
Queste domande cominciarono a tormentare il povero petalo senza identità. Aveva anche provato a costruire una famiglia intorno a sé unendosi ad un altro petalo solitario come lui, ma come poteva funzionare?
Lui pensava di completarsi con altri petali e spesso questa comunità aveva anche fatto da supporto alla solitudine e aveva regalato alcuni momenti di felicità, ma tanti petali messi insieme non fanno un fiore. Non si diventa un fiore se manca una corolla, delle foglie, uno stelo e delle radici. Non si riproduce una famiglia, una comunità se manca un fiore, dei pistilli, dei semi.
Il petalo cominciò a pensare che c’era qualcosa di sbagliato dentro quel suo IO così autonomo, così capace di essere forte anche da solo e iniziò a capire che il suo vero problema era questo: non aveva accettato di essere parte di una comunità, di una famiglia, aveva sviluppato da solo energie e forze che lo avevano fatto attraversare oceani e deserti, ma tutto questo non lo aveva reso affatto completo anzi, lo aveva solo allontanato da un progetto comune, affine ad un comando preciso ed ineluttabile: un fiore serve a riprodurre e perpetuare il miracolo della vita. Ogni parte di esso ha un compito preciso che nessun’altro può affrontare e tutti perseguono quell’unico scopo: allevare i piccoli semi che alla sua morte cadranno nel terreno e feconderanno la nuova vita. Ogni parte di quel fiore svolge un compito che fa parte di questo progetto: il profumo che emana la corolla serve ad attirare le api che lo feconderanno impollinandolo con gli stami di altri fiori, i petali chiudendosi sulla corolla la sera, servono a proteggere i semi dai freddi acuti che potrebbero
danneggiarli durante una notte di coda dell’inverno, le foglie servono a trasformare ossigeno ed anidride carbonica al fine di far vivere tutta la pianta, il gambo serve a sostenere in alto la corolla affinché il sole la inondi di giorno allo scopo di maturarle i semi scaldandola e le radici, infine, sono la cosa più importante,
servono a trattenere l’intera pianta nella sua terra natìa, a non farla estirpare dal vento e dalla pioggia, a nutrire ogni parte di tutta la pianta e a far sì che i semi, quando cadranno, lo faranno nella terra stessa che ha dato la vita a questa pianta- madre.
Alcuni di loro si perderanno portati via dal vento o dagli uccelli, ma anche questo fatto, è in realtà una opportunità, affinché la famiglia si allarghi garantendo la diffusione della specie.
Ma un petalo no. A un petalo non serve coltivare una grande personalità, quell’IO che tanto gli può servire nell’affrontare le difficoltà di una vita che non può finire che in un unico modo: LA MORTE. In verità anche il fiore muore, in tutte le sue parti, ma dalla sua morte rinasce la possibilità di una nuova vita, quindi questa non è MORTE, ma l’unico modo per sopravvivere.
Mentre la coltivazione dell’IO, la separazione di una parte da un progetto comune, quella è morte continuamente, ogni momento ed ogni giorno, poiché non esiste un petalo se non c’è un fiore. 
Così il petalo accettò la morte del suo IO. In un giorno di settembre, si piegò sotto una pioggerellina autunnale, cominciò a sciogliersi nella terra e morì. Il suo viaggio era terminato ed ora marciva: cosa nelle cose. Il lungo inverno fermò la sua decomposizione trattenendola, per tutta la sua durata, in uno stato sospeso, poi, con il disgelo, venne la primavera ed il processo di decomposizione ricominciò. Il petalo stava ormai concludendo il suo percorso, si rendeva ben conto che era alla fine ma, prima di perdere del tutto coscienza di sé, si rese conto che qualcosa stava trafiggendo la gelatina in cui si era decomposto. Una fitta sottile lo attraversava in un fianco, qualcosa di tenero ma deciso penetrava il suo io gelatinoso e lo risucchiava dentro di se; una piccola radice bianca, il germoglio di un seme caduto nel terreno: una nuova
vita.

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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.

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