mercoledì 23 maggio 2012

Lucia P.


Capitolo primo



La sorte comune






















Qualche giorno dopo la festa di Sant'Antonio da Padova, il 13 giugno del 1957, la famiglia Marasciuti, orfana del capofamiglia mancato da pochi mesi, si stava preparando a lasciare il luogo in cui erano nati.

Gli ultimi giorni della loro vita nel paese natio, li stavano vivendo in una incredibile agitazione. Tutti sembravano presi da una misteriosa, quanto affannosa, eccitazione.

La vedova era stanca già dal mattino. La poverina palesava le sue notti insonni, tante dovevano essere le preoccupazioni che la opprimevano. Le figlie invece, sembravano già essere con la mente fuori dal paese. Da qualche tempo avevano cominciato a parlare tra di loro, come se stessero vivendo in un’altra dimensione. Si comportavano come se quello che li circondava non fosse il loro palcoscenico, la loro vera vita, ma un scomparto del treno che le stava per portare via.

Pareva quasi che facessero allenamento a vivere un’altra interpretazione di sé stesse, come se stessero provando dei costumi teatrali e facendo delle prove sul vecchio palco, dove, fino ad allora, si era svolta la loro recita. La scenografia era ancora quella abituale del vecchio spettacolo, ma i testi che recitavano erano stati scritti per il prossimo, ancora da definire, da ambientare. In un posto non ancora conosciuto, indefinito, ma sicuramente diverso dalle stoppie secche, delle macchie verdi scuro degli uliveti e quelle verde brillante delle vigne dei colli .

Anche il loro parlare in dialetto si andava farcendo di parole di un incerto italiano che, incespicando, spesso rendeva comiche le loro estemporanee esibizioni. Forse questo era quello che facevano tutti coloro che sapevano di dover affrontare nuove realtà, eccitanti esperienze e nuovi e sconosciuti pericoli. Si allenavano.

Ora che stavano per uscire da una scena, collaudavano i loro strumenti,sviluppavano muscoli mentali, per affrontare la prossima avventura. Una sorta di rodaggio, di ripetizione dei ruoli per entrare in scena più preparate, correggendo e limando gli errori di una lingua imparata più sui romanzi e giornali femminili che non a scuola.

“Io, quando saremo a Torino…” diceva Clelia sottovoce alle sorelle minori “ voglio comprarmi le scarpe con il tacco…” e quelle sgranavano gli occhi e la bocca come se la stessero sentendo bestemmiare.

“Non ci sapresti neppure camminare sui tacchi a spillo...già ti vedo come cadi…” la canzonava Assunta, la seconda delle figlie femmine.

”Aspetta tu che mamma ti permetta di comprare le scarpe col tacco a spillo...siamo ancora a lutto...” E poi non riuscendo a trattenere la curiosità che malcelava il suo pensiero a riguardo ”.. con quali soldi le compreresti?”

“Mica ho detto che voglio i tacchi a spillo, non voglio mica sembrare una di quelle io…un po’ di tacco però sì lo voglio...” e faceva con l’indice ed il pollice una distanza di due-tre centimetri “ ...i soldi li avremo, andremo a lavorare…Non voglio mica andare in giro per Torino, come una contadina pugliese...che si vede da lontano in mezzo agli altri…”

“Ma perché tu a Torino devi andare in giro in mezzo agli altri?” Lucrezia si alleò con la sorella, sembravano coalizzate per demolire le belle fantasticherie della maggiore. La quale non diceva quelle cose solo per se anzi, il suo scopo era far sognare e distrarre le sorelle minori, infondendole fiducia nel loro futuro . Coltivando progetti.

“...E che, devo stare chiusa in casa? Devo fare la Cenerentola? Leonardo ha detto che Torino è una grande città, è stata la capitale d’Italia fino a poco tempo fa, c’era il Re, la Regina. Lì la gente è ancora abituata alle cose di corte. Chissà quant’è bella.!..” sospirò.

“Ma quale capitale d’Italia….dove l’hai letto, non è Roma la capitale d’Italia?”

“Si, si “ la zittì Assunta mentre la maggiore fulminava Lucrezia con lo sguardo. ”... lo era prima...molto tempo fa.”

“Ahhhh...e io che ne sapevo...io credevo…e lasciami che mi fai male...”

Clelia sembrava essere quella con più aspettative da questa partenza, aveva dei sogni e si aspettava di poterli realizzare. Aveva già superato il senso di amaro che sentiva in bocca al pensiero di lasciare il fidanzato del paese. Lo aveva accettato come un prezzo da pagare all’emancipazione della sua famiglia. In realtà era anche intimamente contenta di poter avere una scusa per mollare il suo bracciante agricolo dalle mani nodose e dai modi rudi. C’era, nell’esternare i suoi progetti, una leggerezza di pensieri. Lei, più adulta delle altre, si rendeva conto di quel fardello di debiti, di povertà che le opprimeva, togliendo a lei e alle sue sorelle la possibilità di coltivare dei sogni.

Assunta invece, coltivava i suoi pensieri in silenzio, il suo desiderio era di riuscire a trovare un posto da commessa in un negozio di moda, ma, in realtà, aveva il terrore di andare a finire alla catena di montaggio della Fiat. Odiava pensarsi sporca di grasso e rintronata dal rumore, si sentiva male solo a pensarlo.

“Io farò la commessa!” affermava con decisione, mentre dentro di sé pregava.

Per le più piccole l’emigrazione era solo l’obbligo di andare dove andava la Madre e a ritrovare il fratello maggiore. Anche loro vivevano quella situazione con ansia, sentendola pregna di cose nuove, ma non sapevano immaginare in nessun modo il loro futuro. Si sentivano sicure solo per il fatto che avrebbero raggiunto Leonardo, il quale aveva assunto il ruolo di padre dopo la morte del genitore. Lui era l’unico uomo della loro famiglia adesso e non si stava sottraendo alle responsabilità che gli erano cadute sulle giovani spalle.

Nelle famiglie meridionali, il primogenito e la prima figlia femmina, venivano chiamati dai minori con dei nomignoli (Tutuccio il maschio e Sciuscella la femmina). Questi nomi erano il segno di rispetto dei piccoli verso i più grandi, ma legavano i più grandi a dei doveri verso i piccoli, in sostituzione dei genitori.

Era normale che un ragazzo di diciotto-vent’anni fosse un uomo capace di caricarsi sulle spalle una famiglia. Il mondo era uscito da poco da due guerre mondiali e da vent’anni di nazismo e fascismo che avevano tolto i mariti e i fratelli dalle famiglie lasciandosi alle spalle, una scia di vedove ed orfane. Perciò le sorelle di Leonardo sapevano che avrebbero avuto la sua protezione per sempre.

Lucrezia sperava solo di allontanare le sue gambe ancora ferite, dalle stoppie del grano appena trebbiato:” Mi basta sapere che non dovrò ammucchiare i covoni il prossimo anno, non ne posso più di queste calze spesse per proteggere le gambe dalla paglia secca e dalle spine”.

“Anch’io...” le fece eco Assunta “...brava! L’anno prossimo non voglio assolutamente più lavorare vicino ad una trebbia”.

“E chi lo vuole fare?” Approvò Clelia. “ Tutta quella polvere…”

“Credevo che ti piacesse...eri sempre così allegra…” la stuzzicò ancora Lucrezia.

“Ehhh…” sospirò la giovane “...era l’unico momento che potevo stare in mezzo ai ragazzi!” Clelia strizzò l’occhio alla seconda che le rimandò complice un sorriso.

Le ragazze sembravano recitare i loro timidi sogni o forse, stavano cauterizzando la nuova ferita che si stava aprendo nella loro anima: quella di dover lasciare il loro paese, i giovani fidanzatini, i loro parenti ed amici, le loro pur povere certezze.

La loro vita, segnata già drammaticamente, dalla precoce dipartita del padre, ora le costringeva ad una prova incredibile per una povera vedova con tante femmine intorno. Contemporaneamente però la poveretta era come sollevata al pensiero che in tutta quella incertezza, trovava che andare via dal paese, equivalesse ad aprire le finestre per fare entrare aria più respirabile nei polmoni.

Con un sospiro di sollievo pensava che non avrebbe più incontrato, più volte nella stessa giornata, i suoi creditori di fronte si quali abbassare la testa. Non sarebbe più stata costretta a fare la spesa da Palmina senza soldi.

La commerciante, una florida signora sempre allegra con una grossa macchia viola sulla tempia destra, le ripeteva ogni volta che il suo debito segnato sul quaderno del negozio, era di gran lunga il più corposo di tutta la sua clientela e che lei non poteva farle credito all’infinito; non vedeva come avrebbe potuto pagarlo.

La vedova si aggrappava alle rimesse del figlio lontano e alla pietà della commerciante, doveva assolutamente dar da mangiare alle bambine.

Alla fine, Palmina cedeva ogni volta con un sorriso, ma sul conto ci metteva una piccola aggiunta che aveva sulla sua clientela, lo stesso effetto di chi curava una scottatura buttandoci sopra dell’acqua bollente.

Le povere donne del quartiere dicevano che il Signore l’aveva segnata con quel grosso angioma sulla tempia, per segnalare alla gente l’avidità della donna. Qualcuna di loro asseriva che si accorgeva di quando Palmina rubasse dal fatto che la macchia diventava più vivida.

Le ragazze Marasciuti intanto avevano preso da qualche giorno a camminare lungo le strade di terra del paese, come se fossero già sui pavimenti marmorei, immaginati in piazza Castello, e le loro compaesane cominciavano a guardarle come forestiere, ammiccando al loro passaggio.

Anche il popolo del piccolo villaggio rurale si preparava al distacco esibendo una indifferenza intrisa di invidia e sibilline disgrazie che presagivano la perdita di chissà quale virtù per le giovani orfane Marasciuti.

Da quindici giorni, la famiglia stava vivendo in coabitazione con i Fortinterra. L’altra famiglia era simile alla loro, non solo per la perdita del capofamiglia, quasi contemporanea alla morte del padre, ma anche per l'età della vedova e dei figli: cinque femmine ed un maschio loro, mentre tre femmine e tre maschi si stringevano alle vesti nere dell’altra vedova.

La prima aveva aspettato la trebbiatura del raccolto per avere un po' di soldi - le servivano per poter liquidare almeno una parte dei debiti del funerale e pagarsi le spese del trasferimento - ed ora, venduto il frumento e pattati una parte degli impicci, erano quasi pronti.

La seconda pareva rassegnata al suo destino: Non aveva ancora quarant’anni, ed era rimasta vedova da tre. Sei figli piccoli, quello più grande aveva solo diciassette anni e nessuna intenzione di imitare il primogenito dei Marasciuti.

A lui non gli riusciva di assumere un ruolo responsabile nei confronti dei fratelli più piccoli.

Faceva quello che riusciva a fare, ma non era un buon tutuccio Alberto Fortinterra. Aveva voglia di vivere la sua giovane età spensieratamente. Il ragazzo aveva un carattere difficile da contenere e la povera madre non vedeva nessuna possibilità di poter affidarsi a quel figlio. Non era quella la sua via d’uscita.

Quando la vedova Maria Torvino ricordava ai figli del padre morto, Leonardo abbassava la testa e faceva quanto fosse necessario per tenere tranquilla la madre. Quando lo faceva Filena il risultato prendeva una piega completamente diversa. Era come se il figlio si ricordasse che, ormai, non aveva più nessuno da temere.

Il raccolto della trebbiatura dei Fortinterra bastava appena a pareggiare il conto di famiglia alla bottega di Palmina e poi, loro non avevano parenti emigrati che potessero tendergli una mano per tirarli fuori da quell’imbuto di disperazione, dove erano precipitati dopo la morte di Salvatore dettoTurillo Marasciuti.
































Capitolo secondo



Una vita senza destino



















La vedova Marasciuti e la figlia Clelia passavano le giornate fuori casa facendo il giro dei creditori, nella ricerca di una soluzione delle pendenze e, dove non era possibile, firmavano cambiali promettendo che appena fossero giunte a Torino avrebbero pagato gli impegni.

Leonardo, era partito per il Piemonte, subito dopo il funerale del padre, a cercare un lavoro e una casa. Lo zio Pasquale lo avevano accolto ed aiutato a sistemarsi, ed ora avevano trovato anche un alloggio di ringhiera per la famiglia.

Senza l’aiuto degli zii Torvino sarebbe stata assai dura per il giovane. I meridionali migranti a quel tempo, erano ritenuti clandestini senza permesso di soggiorno. L’Italia non era ancora il paese di tutti gli italiani.

Per questo era molto importante avere dei parenti presso i quali poter richiedere la residenza ed un contratto di lavoro. Poi diventava tutto più semplice. Il lavoro ce n’era in abbondanza. Ogni vetrina di negozio, fabbriche o cantieri esponeva il cartello cercasi operai o commesse.

La seconda metà di giugno era particolarmente calda quell’anno. Durante il giorno si sentiva, in tutto il paese, il fischio delle cinghie delle trebbie, che slittavano sulle grosse ruote di metallo dei rumorosi trattori Landini a testata fredda. Le trebbie ruggivano mentre inghiottivano i covoni ed una nuvola di polvere giallognola, si alzava al di sopra del rangrivello che ventilava la paglia.

La polvere veleggiava nel cielo azzurro, posandosi poi dappertutto e tormentando gli uomini, le donne e i ragazzi sudati intorno alla grande macchina. Quell’alone di polvere impalpabile, veniva trascinato dal vento in tutte le vie del paese ed era la disperazione delle donne anziane che curavano il restringimento della conserva, stesa nei piatti a concentrarsi al sole. I pomodori spaccati a seccare sui terrazzi si ricoprivano di quella specie di talco sottile e spesso erano da buttare.

La famiglia Marasciuti stava seguendo la stessa sorte di tante altre partite prima, e chissà quante ancora sarebbero state costrette sulla stessa strada, appena se ne sarebbe presentata l’opportunità.

In quel periodo sembrava che tutti, in quel paese, fossero legati da un filo invisibile che li trascinava ad un unico destino costringendoli all’esodo.

Era diventato normale vedere partire qualcuno.

Intere famiglie, coi loro cognomi, scomparivano quotidianamente dal piccolo paese.

Prima e da solo, partiva in modo quasi furtivo, l’uomo di casa, alla ricerca di un lavoro e di un alloggio e poi, se le cose andavano per un certo verso, l’intero nucleo lo avrebbe seguito, altrimenti, in sordina, così come se n’era andato, sarebbe tornato a riprendere il suo posto in paese, senza mostrare la sua sconfitta agli altri.

Ma per uno che ritornava, decine di famiglie, legate da un filo parentale o da una grande amicizia, si inseguivano sulla strada ferrata. La destinazione era sempre la stessa: Le grandi stazioni delle città del nord, destinate alle periferie del triangolo industriale che si andavano ingrossando quotidianamente di desolanti quartieri dormitori in cemento armato, pronti ad accoglierli per arricchire le tasche dei costruttori e speculatori.

Tanti erano anche i giovanotti che emigravano al seguito delle fidanzate, non volendo rassegnarsi a perdere il loro primo amore, spezzato da questa nuova e sconosciuta malattia. Era come se le farfalle volassero via, costringendo i maschi della specie ad inseguirle dovunque, senza badare a dove andavano a posarsi.

Molti giovanotti, non volendo perdere il loro amore, mettevano in atto la fuitina. Ponevano così i propri genitori di fronte al fatto compiuto. In questo modo si creavano altri agganci con nuove famiglie imparentate dal matrimonio dei due giovani e creando nuovi presupposti di altre migrazioni per ricongiungimento.

Essere un emigrante era diventata, per i giovani da sposare, quasi una opzione in più, una sorte di bonus in dote: Significava dare ad un’altra famiglia una occasione di poter abbandonare la mancanza di un futuro in paese in cambio della possibilità di una alternativa.

Appena dopo la fine della seconda guerra mondiale, tra gli anni cinquanta e settanta del secolo scorso, era come se qualcuno avesse alzato le braccia su un mare invisibile e le acque si fossero aperte a una diaspora che prosciugava di giovani vite, i caldi paesi agricoli del sud riversandole, alla fine di un percorso sconosciuto, in un destino che lì non arrivava, come se una naturale strozzatura gli impedisse di scendere così a sud.

L’emigrazione era un fenomeno che riguardava anche le campagne e le montagne di ogni regione del centro e del nord, le città avevano bisogno di braccia a basso costo per ricostruire i danni dei bombardamenti e le industrie metalmeccaniche si andavano sviluppando e moltiplicavano la necessità di lavoratori.

Le montagne si spopolarono e in tanti si spostarono dal delta del Po veneto verso il Piemonte.

Ma quello che accadde ai piccoli comuni agricoli meridionali, fu una diaspora su grande scala. Un rivolo continuo alimentava quel il ruscello che unendosi ad altri conterranei sconosciuti, formò un fiume umano che li avrebbe portati, mille chilometri lontano, a popolare la periferia intorno alla Fiat della città sabauda e all’Alfa Romeo di Arese, vicino Milano .

La prima capitale italiana, dopo l’unità nazionale aveva avocato tutta a se la ricchezza nazionale e le tasse di tutti gli italiani, ed era diventata il perno centrale del nord industriale.

Una marea di corpi ed anime, affamate dalla voglia di un destino meno crudo di quello avuto in sorte nel Comune in cui erano nati, si riversavano quotidianamente in città non ancora pronte ad accoglierli. Qui, insieme al lavoro, trovavano il pregiudizio e la paura verso chi veniva a rubare il lavoro, e questo creava spesso corti circuiti, tra le persone che non erano preparate ad accettare quella invasione del proprio territorio.

La situazione in cui molti si vennero a trovare non era migliore di quella dalla quale erano fuggiti e nella lotta per un posto di lavoro, un tetto per la famiglia, i nuovi arrivati si affidavano a gente senza scrupoli e ritegno. Gli strozzini e faccendieri di ogni risma si moltiplicarono velocemente ed affittavano a prezzi molte volte superiori quelli reali che il mercato esigeva, gli alloggi di ringhiera, marcescenti e senza servizi del centro storico.

Le mansardine dei sottotetti intorno alla stazione di Porta Nuova, a Porta Palazzo o di via Po, soffocanti d’estate e gelide trappole nei rigidi inverni piemontesi, senza acqua e gabinetto, costavano come un alloggio di grande cubatura con servizi. Molti affittavano i letti a ore, secondo i turni degli operai. Nello stesso letto dormivano due/tre persone al giorno.

Tanti erano quelli condividevano un letto nella stessa stanza per risparmiare sulle spese, i soldi servivano al paese alle famiglie, per sopravvivere e magari, per poterli raggiungere in un secondo tempo.

Il centro della città, bello ma semidistrutto dalla guerra e in male arnese, della vecchia Torino, si andava riempiendo di nuova vita, di nuovi idiomi.

Sulle bancarelle di Porta Palazzo e dei mercati rionali, comparivano nuove verdure e frutti mai visti prima: la catalogna cimata, e le lumachine pugliesi; le cime di rapa e i lampascioli; la ‘nduja calabrese e la salciccia piccante; le arance e le paste siciliane, le cozze insieme a tanto pesce mai venduto prima.

I camion dal sud trasportavano un fiume di vino, di olio e tanti altri prodotti, che correva su una autostrada ancora da completare nel tratto Ancona-Pescara e, mentre nutrivano i corpi emigrati, tenevano legati quei fili parentali e culturali con la propria terra.

Intorno alle città intanto, i cantieri ingoiavano le vecchie cascine di periferia inglobandole nei nuovi quartieri-ghetto, isolati dormitori: le Vallette; la Falchera; via Artom; Borgata Lesna.

Interi paesoni in verticale, eterogenei senza alcun servizio o luoghi di socializzazione. Erano dei veri e propri calderoni in cui venivano rimestati i nativi di tutte le regioni, gli emigranti.

Mentre gli indigeni si arroccavano, senza cogliere l’occasione di misurarsi e crescere con gli altri, nel quartiere bene della Crocetta o sulle falde della collina monregalese che costeggiava il lato est del Po, da Moncalieri a Pino Torinese.

I nuovi arrivati dalle regioni del sud Italia scoprivano in Piemonte, di essere immigrati clandestini, di aver bisogno di un permesso di soggiorno per poter essere assunti con i libretti, o un contratto di affitto legale.

Le leggi sembravano disconoscere il fatto che erano italiani in Italia. Trovavi un lavoro legale se avevi da almeno sei anni la residenza nei comuni limitrofi alla sede di lavoro e per avere la residenza dovevi avere un contratto a tempo indeterminato. Un imbroglio legislativo dietro a cui si nascondeva il razzismo e consentiva ogni tipo di speculazioni sui deboli, depredati da una unità nazionale che era costato al sud la perdita di ogni ricchezza e di un destino di pari dignità agli altri cittadini.

Uno dei centri periferici di Torino, borgo San Paolo, di vecchia tradizione operaia prima piemontese poi veneta, diventò, in quel periodo, il luogo di naturale inserimento per le famiglie provenienti dal sud. Molti pugliesi dell’alto tavoliere si stabilirono in quel quartiere. Mentre, nel piccolo comune meridionale, a nord del Tavoliere, un altro cognome stava per essere cancellato dall'anagrafe.

Quelli che rimanevano, lo avrebbero ricordato ancora per un po', poi anche i Marasciuti sarebbero stati dimenticati, così com'era capitato a tutti gli altri partiti prima di loro.

La casa in cui avevano convissuto per quella settimana le due famiglie orfane, era un solo grande stanzone di pianta quadrata, in fondo al quale, una parete divisoria di compensato separava il ricovero per la giovenca dei Fortinterra da quello per le persone.

I due gruppi familiari avevano condiviso senza problemi non solo lo spazio, ma anche il cibo a tavola e le poche e povere masserizie. Per poco più di una settimana, erano stati come una unica grande famiglia, con due vedove e tanti orfani.

La condivisione di un destino gramo aveva reso meno greve le loro giornate e anzi, una certa allegria aveva pervaso i ragazzi e li aveva uniti nella novità di quella vita in comune, aveva coinvolto tutti al punto di farli sopravvivere senza coscienza alla mancanza di uno spazio intimo proprio.

Le due settimane passarono in fretta, i ragazzi non ebbero neppure il tempo di litigare una volta.

Quel luogo era stato prima la stalla di una famiglia di proprietari terrieri soprannominati i Fattori, intendendo proprio con quel nomignolo indicarli come medi proprietari, di buon censo nella graduatoria della società locale, ma il cognome della famiglia era Albieri.

Dopo la morte del vecchio capostipite, la grande famiglia era retta con mano ferma dalla matriarca Nerina, una donna astuta e capace di tenere a bada tutte le attività dei suoi quattro figli maschi, i ragazzi, tutti ormai sulla trentina ed accasati per proprio conto tranne l’ultimo, continuavano però a far perno attorno alla madre, la quale teneva i cordoni della borsa ben salda nelle sue mani, così come le proprietà terriere.

Gli Albieri rappresentavano uno dei ceppi antichi rimasti, originari del paese. Molto prolifici e ramificato in diverse attività nel piccolo centro. Avevano un paio di masserie con grandi appezzamenti agricoli, la prima nella zona del “Trentino”, e l’altra in contrada “ Piange Mamma”. I Fattori possedevano anche il nuovo grande forno elettrico, col quale fornivano pane a metà dei negozi del paese, oltre che a venderlo direttamente nel loro forno, sito in contrada Camarota, sul lato ovest del paese.

La grande famiglia controllava il commercio del grano e possedeva uno dei due mulini per il frumento del paese, che però era l’unico elettrico (l’altro ancora ad acqua, macinava ormai poca roba).

Erano pure i proprietari dei primi grandi trattori per lavorare la campagna comparsi in paese.

L’assegnazione, da parte del governo, di una mezza versura di terra (tremila metri quadri), alle vedove e ai figli dei caduti della guerra sul Piave, aveva ripagato la coscienza nazionale, per gli uomini del sud morti per difendere l’Italia dagli austriaci. Nello stesso tempo, aveva garantito mano d’opera a basso costo ai grandi latifondisti della zona, poiché quei tremila metri quadri di terra non avrebbero di certo sfamato nessuno. I reduci ci avevano piantato più che altro vigna, per il vino. Le vedove coltivavano grano per un anno e l’anno dopo lo tenevano a maggesa ricavandoci una fruscella di ricotta dai pastori abruzzesi che scendevano lungo il tratturo per la transumanza, durante l’inverno.

Così gli Albieri e gli altri proprietari, potevano contare quotidianamente su decine di braccianti giornalieri che elemosinavano in piazza o alla masseria una giornata di lavoro, mentre loro potevano scegliere i lavoratori migliori al minor costo.

Guidata saldamente dalle mani della vecchia signora, aveva mantenuto le vecchie tradizionali occupazioni. Le nuove leve maschili però, erano state mandate a frequentare i licei di Foggia e alcuni l'università a Napoli, così ora la famiglia aveva in paese un notaio ed un dirigente della banca Dauna.

Letizia era figlia più grande degli Albieri, una ragazza dalla pelle bianca come la farina, non usciva mai di casa per non abbronzarsi (per non confondersi con le contadine ramate dal sole). La signorina sarebbe dovuto andare in sposa ad un amico del fratello. Primogenito di un'altra famiglia meno facoltosa, ma piena di figli maschi, che in un paese agricolo era considerata una ricchezza, almeno come possedere la terra: i Giubasso.

Il giovane Andrea, il fidanzato della giovane, era riuscito a frequentare il liceo, in un convento di Ancona e poi l'università napoletana nella facoltà di giurisprudenza. Riuscì a laurearsi però, grazie anche, alle somme di denaro che la ragazza si faceva dare dalla madre, per mantenerlo agli studi. Copiose erano anche delle prebende, celate da borse di studio, attraverso i favori dei clero, con il quale la famiglia poteva vantare grandi legami, per via del quarto figlio divenuto prete.

Le frequenti visite dell'arciprete in quella casa, erano però un mormorio sulle labbra di tutti. Quando poi, in occasione della festa patronale, anche il vescovo u ospite a pranzo da loro il bisbigliare del paese tentò di diventare una vera e proprio voce, ma il vescovo, durante la messa, tenne con fervore, un sermone sul peccato dell’invidia e la maldicenza e il tono si zittì, almeno per un poco, nel paese.

Dopo per, appena lo scaltro giovanotto ottenne la sua laurea in legge lasciò la giovane Albieri (in paese si mormorava che fosse pure incinta!) alla sua sorte e s’involò.

La vecchia Nerina rifece i conti delle somme, prelevate dalla figlia per il mantenimento di quel bellimbusto mai apprezzato, e le recuperò dall’eredità della ragazza. La quale, con la dote ridotta al minimo, finì per sposare un mezzadro della famiglia.

Il giovane avvocato dei Giubasso invece, si accomodò nel nido più accogliente di un’altra allodola, più giovane e con finanze più floride. Nilla era l’unica figlia femmina di un altro facoltoso proprietario terriero: Anchise Malivinti detto “Brushkone”. Conobbe la signorina per il tramite del fratello di questa, suo coetaneo. Anche il giovane Malivinti frequentava ( almeno così pensavano i suoi) l’aula magna della facoltà di legge a Napoli. Ma il ragazzo amava la bella vita e lo sport. Tra i quali il suo preferito era correre dietro alle gonne delle giovani partenopee. Mentre accumulava esami da dare ogni anno, senza mai riuscire a mettersi in pari, con gli impegni presi col burbero padre. Dal terzo anno in poi però, grazie alle dritte di Andrea Giubasso, le cose si appianarono. Andrea era intelligente e scaltro, aveva appreso dal fratello prete, come usare le scorciatoie e sfruttare le correnti. Così, era diventato attivista del movimento giovanile del MSI, il partito fascista che sopravvisse alla caduta di Mussolini. All’interno del partito aveva immediatamente ricoperto la carica di segretario e questo lo aveva messo in contatto con tutti i vertici. Molti di questi erano cattedratici universitari ed alcuni proprio della facoltà che frequentava, per cui, per il giovane ed i suoi amici, fatti passare tutti per giovani attivisti del partito, non esistettero problemi di studio o di esami. Alla festa di laurea del Malivinti il giovane Giubasso fu presentato come uno dei più brillanti avvocati del foro di Napoli e di sicuro futuro politico.

I due scaltri giovanotti organizzarono dopo poco il matrimonio tra Nilla e Andrea. Così che tutti, continuavano a vivacchiare alle spalle del padre della sposa, mettendo a nudo le scarse potenzialità acquisite in materia legislativa.

In poco tempo riuscirono a sfiancare le tasche del burbero agricoltore, il quale li costrinse ad allontanarsi tutti e due dal paese. Il Giubasso chiese aiuto ai fratelli del padre, emigrati a Torino, dove cominciò a fare praticantato presso uno studio di avvocati trovato attraverso il prete e il partito. Il cognato si sistemò a Roma, dove si era trasferita una vecchia fiamma dei tempi del liceo.

Una volta svuotate le stalle dai molti cavalli, sostituiti dai trattori azzurri della Ford, la matriarca degli Albieri aveva affittato le vecchie stalle come abitazioni, alle famiglie povere e numerose, le quali non potevano dare importanza alle rifiniture della casa e necessitavano di grandi spazi a costi accessibili, per via della numerosa prole.

L'antica costruzione, fu così elevata ad uso abitativo per la famiglia del fratello del padre della vedova Marasciuti, Pasquale Torvino.

Pasquale aveva stretto rapporti parentali coi Fattori attraverso un vincolo di “sangiovanni “, facendosi battezzare la bambina da uno dei figli.

Qualche anno dopo però, appena finito un duro inverno senza lavoro, l’uomo era stato costretto ad emigrare con tutta la famiglia a Torino. Era il 26 marzo del 1949. Un piovoso sabato primaverile.

Aveva giurato a se stesso e ai figli che in quelle condizioni non avrebbero più vissuto. Poi, in una giornata in cui si era scatenato sul paese un temporale che pareva volerlo inghiottire tutto, partirono.

La pioggia aveva impregnato i loro fagotti e le loro valige di cartone, al punto che sembravano volersi sbriciolare già prima di salire sulla corriera per San Severo, erano partiti da un paese che li guardava muto e un poco invidioso, dai vetri appannati.

Quella povera famigliola, con quattro bambini piccoli e malvestiti sbarcò, dopo un viaggio allucinante su un treno sporco e lento, in una città straniera che mal sopportava la numerosa prole.

I Torvino trovarono grandi difficoltà a sistemarsi. I piemontesi non solevano dare alloggi in affitto a chi aveva bambini. L’uomo era costretto a lavorare dalla mattina alla notte per pochi soldi e senza contratto. I bambini erano spesso pieni di raffreddore e tosse e lui non aveva assistenza sanitaria. Per i primi anni non avevano trovato un destino migliore di quello dal quale erano scappati. Molte volte sarebbero voluti tornare al paese.

Spesso però, chi ha poco di cui vivere non ha la possibilità di tornare indietro, così i Torvino si adattarono a dei sacrifici che, in quella città sconosciuta, erano maggiori della fame e di quel freddo patito al sud ma poi, lentamente, le cose cominciarono a migliorare.

Pasquale trovò casa grazie al prete della chiesa del quartiere e, dopo la casa, arrivò anche il lavoro alla Fiat di Rivalta e, qualche anno dopo, la casa dal Comune che fece diventare quei quattro rampolli la loro fortuna.

Così i Torvino e i loro quattro bambini si sistemarono bene e furono poi proprio loro, a dare ospitalità al nipote Leonardo all’arrivo nella città della Fiat.

Ora toccava alla sua famiglia raggiungerlo, per cercare un destino che lì, nel posto in cui erano nati, non c’era.

Capitolo terzo



La partenza dei Marasciuti





















La grande stanza dove vivevano ora le due famiglie, era costruita in mattoni pieni su quattro grandi archi romani che chiudevano al centro del quadrilatero, i quattro spicchi della volta. Il pavimento fatto degli stessi mattoni, posti piatti nella terra. Un tempo, proprio quella casa, era stata la più grande stalla del paese e si affacciava su due strade. L'ingresso principale si apriva all’altezza dell’angolo inferiore del Parco della Rimembranza di forma triangolare, proprio di fronte alla chiesa del santo patrono, dove c’era uno dei quattro grandi pozzi freatici, mentre la seconda entrata, si affacciava su via Firenze, dove ora abitavano i Fortinterra.

Dal grande pozzo di fronte alla chiesa, si rifornivano d'acqua, tutti gli abitanti del quartiere ed era un punto di incontro dei carrettieri. In tanti si fermavano all'alba e al tramonto, ad abbeverare i cavalli. Anche le donne si ritrovavano a lavare i panni in una delle due vasche di pietra, poste ai lati della grande cisterna.

Di costruzione probabilmente medievale, aveva il diametro di oltre tre metri. Due gradini facevano cornice al pozzo con il loro merletto bianco di pietra. Della stessa pietra bianca, proveniente dalle cave del vicino promontorio, era fatta la vera, l'apertura quadrata per il passaggio dei secchi. La vera, era poi quello che in dialetto era chiamato il boccale, cioè la parte rialzata che proteggeva l'entrata della cisterna. Sul collare superiore della vera, la pietra era segnata da solchi profondi due-tre centimetri e coste altrettanto larghe e bianche che sembravano vertebre sbiancate al sole, erano le scanalature che col tempo, le funi con le quali si tiravano su i pesanti secchi di legno, avevano limato nella pietra lasciando una traccia come un merletto, firma di tutti coloro che avevano tirato su acqua e del tempo.

Di pozzi freatici ce ne stava uno in ogni casa o, almeno, in quasi in tutte le vecchie case del paese, poi, nel ventennio fascista, il Duce aveva istituito l'Acquedotto Pugliese ed era stata costruita la rete fognaria e le condutture che portavano acqua alle otto fontane pubbliche distribuite in modo che fossero poco distanti da ogni abitazione così, in seguito, anche nelle nuove costruzioni private si installava un impianto idrico, col tempo i pozzi privati e quelli pubblici furono in breve, riempiti di macerie o chiusi.

Nella grande casa delle due vedove, piena di vita e di voci in quelle due settimane, c’era ora un gran silenzio.

I Marasciuti partivano e i Fortinterra li stavano accompagnando alla corriera per la stazione ferroviaria del paese vicino. Solo il più piccolo dei Fortinterra, ‘Ntoniuccio, si era rifiutato di salutare i partenti.

Da quando gli era morto il padre, il bambino si era chiuso in un risentimento immediato verso chiunque lo lasciasse. Incapace di comprendere e distinguere una partenza da una morte, aveva già sviluppato, un grande rancore verso chi se ne andava. Se qualcuno voleva salutarlo, lui girava la schiena e lo cancellava dalla mente, come non fosse mai esistito, lo metteva immediatamente, fuori dal suo mondo.

Gli altri, ignari del vero senso di quella chiusura, restavano interdetti dal muro che lui erigeva tra loro e non sapevano come superarlo, il ragazzino scivolava in un limbo in cui nessuno riusciva a raggiungerlo. Ora che i Marasciuti dovevano partire, lui si era rifiutato di salutare tutti, compresa Liliana, sua coetanea e compagna di giochi.

Così appena tutti furono usciti, lui tolse dal pavimento la metà di un mattone che si era rotto sotto il ferro della Giumenta e cominciò a giocare da solo con le biglie di vetro colorate. L’altra famiglia non esisteva più.

Quando sarebbe tornato il fratello di due anni più grande di lui, avrebbero riempito lo scuro stanzone, con il rumore delle biglie e con le loro litigate.

Intanto lui si allenava a bocciare la biglia incastrata nella riga di terra, tra un mattone e l'altro, con quella che stringeva tra il pollice e l'indice della destra. Dal pavimento veniva su un odore di terra umido scavata di fresco. In quel punto il loro maialino (un regalo che aveva ricevuto dal giovane porcaro, fidanzato con la figlia del vicino) la notte, faceva un buco nel pavimento, forzando col muso tra gli intersizi dei mattoni che pesavano quasi quanto lui e loro dovevano risistemare ogni mattina la terra e i mattoni. La cosa era diventata una sorta di sfida quotidiana tra i due fratelli e la bestiola che, educato in casa tra tanta gente, cresceva come un cagnolino.

La sua biglia rimbalzò fino a perdersi nella zona in ombra nell’angolo della casa, vicino al pozzo, aguzzò gli occhi per cercare qualche riflesso del vetro in quell’angolo quasi buio, poi la trovò vicino ad una scarpa nera sporca di terra e la raccolse, poi alzò lo sguardo verso l’alto, ora riusciva a distinguere meglio le cose e la vide.

La ragazza era seminascosta dall’ombra.

E tu, tu non te ne vai?” le disse, lei si mosse un poco più avanti , in piedi davanti a lui, tra l'ombra e la luce dell'angolo scuro.

“No, io non vado.”

“E rimani qui? Stai qui con noi?..” si sentiva già meglio ora, era contento di non essere solo.

...meno male...” pensò “ finalmente qualcuno che non và.

Certo, io sto qui...non posso... pareva volergli spiegare ma poi ci rinunciò “...io non devo andare.” la ragazza parlava in modo incerto. Era lo stesso dialetto, ma le parole, anche se le capiva, sembravano diverse...più tronche, rude.

Il bambino si girò un attimo a guardarla, era spuntata dall’ombra dove c’era la sarola per l’acqua, come fosse stata nascosta dietro la grossa anfora di terracotta, ma lei era più alta dell’anfora. Da dove veniva?

Forse era il suo vestito grigio scuro che l’aveva nascosta nell’ombra di quello che era l’angolo più buio del grosso stanzone.

“Ti cercheranno...”

Non mi cercheranno. Perché dovrebbero?...Non sono dei loro.”

La luce del giorno, riverberando sul bianco delle case di fronte, diventava accecante fuori, ma nel vano della porta filtrava appena, come se restasse impigliata, nella grossa rete di spago annodato, che proteggeva la vita in casa dagli occhi dei passanti in strada e, nondimeno dalle mosche che d’estate si nascondevano alla calura, nel fresco interno.

Il piccolo si girò a cercare le sue biglie di vetro.

Vuoi giocare?” Ricevette in risposta un leggero sospiro, la giovane girò la testa verso l’entrata.

Si girò di nuovo verso di lei, la ragazza era più grande di lui, sembrava del’età della sorella maggiore; una signorina. Una donna di quell’età non giocava di certo a biglie con lui. Lei restava ancora lì, sul taglio della zona tra l’ombra più scura e la poca luce che arrivava in casa. Il suo vestito, nero e grigio, era elegante, quasi riluceva alla poca luce che lo sfiorava. Una volta aveva visto una camicetta di Colomba che faceva così, dicevano che era di gelso. Aveva i colori cangianti.

Lui aveva un pantaloncino di tela, la madre lo aveva ricavato dalla stoffa di un paracadute, una volta era bianco ma lei lo aveva messo in una bacinella con altra roba ed aveva tinto tutto di nero, per portare il lutto del padre, mentre la camicia gliela aveva lasciata bianca, ma col tempo si era sporcata, ed ora pareva avere grosse macchie rugginose.

In quella casa c'erano solo donne vestite di nero e, ai suoi occhi, il vestito della ragazza, con quei giochi di grigio perla, gli pareva molto elegante.

La faccia della ragazza era scura, ma non abbronzata, sembrava sporca di terra, di un colore freddo, teso, grigiastro e marrone.

“ Non ti ho mai vista…non eri con loro?”

No, te l’ho detto.” le si accocolò vicino.

Sono partiti tutti...anche Liliana.” la più piccola della famiglia che stava partendo era il suo vero cruccio.

“Si, lo so.”

Io mi chiamo Antonio, ma mi chiamano ‘Ntoniuccio... il bimbio si schernì “...O anche Tonino...

“ Lo so.”

Di nuovo lui si girò a guardare interrogativo verso l’angolo buio, avrebbe voluto chiederle come mai lei sapesse tutto quello che lui diceva. La domanda però non gli uscì dalle labbra e lui la dimenticò subito. Tanto aveva capito che lei doveva essere una amica della sorella, anche se non ricordava di averla mai vista.

Faceva fatica a distinguerne la figura, ma lei sembrava intenzionata a non muoversi da quel posto, il volto triste guardava con insistenza la porta.

“ Che devi andare?” chiese il piccolo.

No...no, io non devo. Non posso.” girò lo sguardo verso il ragazzo e lui poté per la prima volta notare che i capelli neri, corvini, erano tagliati corti, fermati da un nastro nero lucido, poi il piccolo rivolse la sua attenzione alla biglia lanciata.

Gli si era infilata, dopo aver ruzzolato e saltato tra i mattoni, sotto la piega di un sacco di grano al centro del grande stanzone, dove erano stati accatastati in mucchio con il frumento trebbiato da poco.

“I maschi abbiamo dormito qua sopra...” disse battendo con la manina su un sacco di grano “...le donne nei letti.” non ricevette nessuna risposta.

“Tu come ti chiami?”

Lucia.”

...dove stavi?..con chi dormivi? ...con…?” La ragazza non sembrava interessata a quel discorso, la sua freddezza scoraggiò il bambino dal continuare. Lui si concentrò tutto sul suo gioco e sulla buca, dove cercava di far cadere tutte le sue biglie, che faceva correre schioccando il pollice della mano destra con uno scatto che fiondava la pallina di vetro verso la sua meta.

Con la piccola mano, provava a fare il tiro più teso e forte, facendo rotolare la sua pallottola lontano e, anche se frenata e dirottata dalle scanalature di terra tra i mattoni, spesso centrava il suo bersaglio, dopo una corsa segnata da rintocchi muti sul pavimento, che diventavano meno chiari mano a mano che la biglia perdeva di forza e velocità.

Le due vedove erano arrivate alla fermata della corriera che doveva ancora arrivare, circondate dalle figlie femmine, tutte vestite di nero, sembravano uno stuolo di tristi cornacchie atterrate in piazza.

Filena Fortinterra abbracciò l’amica e le figlie.

“Dobbiamo andare a casa...Tonino è da solo…”

“Non ti preoccupare, andate e…grazie di tutto.” Maria Torvino le strinse una mano sul braccio.

Filena si girò a guardarla con lo sguardo afflitto.

“ Di che? Lascia perdere...se non dovevate partire mi sarebbe piaciuto continuare a vivere insieme. Stai attenta, a te e alle ragazze…”

“Anche a me, lo sai...Mi raccomando Filena stai attenta anche tu ai ragazzi…” Anche le ragazze salutarono le amiche.

Lucia ora era seduta su una sedia vicino alla saròla e guardava giocare, Tonino non le aveva più fatto domande, ma ogni tanto si girava a guardare i tenui riflessi delle scarpette di vernice nera.

Il bambino era contento di quella muta compagnia, ed ogni tanto la guardava di sottecchi sorridendo.

Fuori in strada si sentivano le voci della madre e delle sorelle di ritorno.

Stanno torn...” stava dicendo girandosi verso l'angolo buio, ma la frase gli morì in bocca. Nell'angolo buio non c'era più nessuno. Fissò la sedia vuota.

Un secondo dopo la casa si riempì di voci e rumori e lui corse incontro alla madre.

La donna si chinò per abbracciarlo.

Ehi, Ntoniuccio...che hai fatto, di nuovo il buco nel pavimento? Ma sei peggio del maialino tu...il mio ometto...lui rimane da solo a casa e combina pasticci...ma allora non ti devo lasciare solo...”

La mamma si lasciò cadere su una sedia, il figlio saltò subito sulle sue gambe stringendosi alla madre.

Non ero solo Mamma...c’era una signorina...c'era una amica di Colomba...

Ah si?...una sua amica?...e tu la conosci, chi era? Dove è andata ora, è andata a casa sua?”

No non la conoscevo...” il bambino si rese conto di non poter spiegare dove fosse andata la ragazza, segnò col piccolo indice la sedia nell'angolo scuro, ma non disse più niente. Omise anche di dirle il nome.

La donna rivolse il suo sguardo verso la sedia e la grossa anfora, di fianco c'era il porta-bacile con l'asciugamano appesa e pensò che il bambino ne avesse confuso i contorni con la presenza di qualcuno.

Si è nascosta nella saròla? “ scherzò facendo saltellare il piccolo sulle ginocchia “ non si sarà mica gettata nel pozzo?” cercò di scherzare per alleggerire quella piccola fronte aggrottata.

Il bambino la guardò serio. Forse quella era l'unica risposta valida, ma non poteva crederci.

La madre si accorse che il suo ometto stava prendendo sul serio il suo scherzo, per un attimo si accigliò preoccupata ma poi strinse gli occhi a guardare nello scuro angolo, sul pozzo c'era il coperchio che ne chiudeva il collo.

Si girò con aria interrogativa verso Colomba che era entrata in quel momento, con la piccola Alba in braccio, seguita da Concetta.

“ Dice che c’era una tua amica con lui...”

“ Ma chi?...io non credo che...che ne so…”

Non le piaceva quel pensiero, si alzò, uscì col bimbo fuori alla luce dove Lucio, il suo amichetto, stava giocando con Lorenzo e Francuccio, altri bambini riempivano la strada con i loro giochi.

Tonino scivolo dalla madre e si unì ai giochi ed al baccano degli altri.

Non devo più lasciarlo solo in casa” disse la vedova alla comare Teresa, la mamma di Lucio, che sferruzzava su una mezza sedia, davanti alla sua porta dirimpetto.

Perchè è successo forse qualcosa? Che cos’ha combinato?”

No...no niente, dice che c'era una signorina con lui...una amica della sorella. Hai visto entrare o uscire qualcuno?”

“Addirittura? Hhmm, no. Non ti ha detto chi era?”

“No...una signorina, così mi ha detto…”

“ No. Lo sentivo chiacchierare, ho pensato che stava giocando...ho tenuto d’occhio la porta e l’orecchio teso, ma era solo. Non è entrato né uscito proprio nessuno.”

“Meno male, avevo paura che...con 'sto cavolo di pozzo in casa, non si può vivere tranquilli.”

“Madonna mia...il pozzo, mi fai venire i brividi...Ma il pozzo non c’entra niente. La casa è che...Voi siete qui da poco, ma tu sai chi ci viveva prima lì?”

“Si, Maria mi ha detto che ci abitava il fratello del padre no?...” la vedova attraversò la strada e si sedette sulla soglia di pietra della comare. La donna fece una pausa coi ferri, si passò il pollice e l'indice agli angoli della bocca, come a stirarsi le labbra.

“Si. Qui ci abitava la famiglia Pasquale Torvino.Tu lo conoscevi? Aveva sposato una che si chiamava Gisella (non so di chi fosse figlia) e avevano quattro figli. Li conoscevi?

“Conosco i nomi delle famiglie ma di loro non ricordo niente…”

“Beh...erano più grandi... la sorella di Gisella, una bella ragazza di diciotto anni, si chiamava Lucia...”

La donna si tolse dal collo il filo di cotone blu con il quale stava elaborando un paio di calze per il marito e appoggiò la matassa di cotone con i ferri sulla sedia, mentre si alzò stiracchiandosi.

Aspetta un attimo comare Filena che prendo un ombrello da farlo riparare al Lliò che sta arrivando, se no quello se ne va” entrò in casa zoppicando “ mi si è addormentata la gamba…” disse fregandosi la grossa anca destra.

Fai..fai, con comodo che i ragazzi stanno facendo i compiti, che devo fare...” Teresa era già in casa.

“ Parla comare, parla che ti sento...”

...No, che dicevo...niente, Ntoniuccio è qui che gioca con Lucio, gli altri so andati a giocare, non so dove sono, che devo fare...non so cosa gli devo fare da mangiare stasera..., si girò a dare un’occhiata ai ragazzi che giocavano in strada “...qualcosa farò...”

La povera vedova aveva sei bocche da sfamare, il più grande appena di diciassette anni, la più piccola di sei, Tonino era il quinto, ne aveva due di più.

“Dove hai lasciato la bimba?” Teresa stava facendo cenno con la mano al vecchio sbandato, per farlo avvicinare “...dov’è Alba?”

“L’ha presa con se Colomba. Meno male che c’è lei…”

“Si, hai una brava ragazza. La signora Teresina porse un ombrello nero con due raggi spezzati al girovago, che passava per le strade del paese in cerca di qualche lavoretto, in cambio di qualche soldo, ma spesso recuperava solo qualche tarallo, un pezzo di pane, un bicchiere di vino, in cambio delle sue piccole sedioline per i piccoli, coperchi per sarole, riparazioni di ombrelli e delle “scjkafareje “grosse tinozze di terracotta nelle quali le donne lavavano i panni.

L'uomo arrivò seguito a distanza da un nugolo di piccoli scapestrati scalzi che lo seguivano per le strade di tutto il paese rifacendo il verso al suo grido “...'u lliò!” gridava lui per avvisare le donne in casa “'u lliò!” gridavano quegli scapestrati.

Ad ogni strada se ne ritirava qualcuno che si era allontanato troppo da casa ma, con lo stesso ritmo, se ne aggiungeva qualcun altro. Il vecchio artigiano ambulante si accovacciò con le spalle al muro della casa, cavò dal suo tascapane a tracolla una sotola, aghi e spago, una pinza e del fil di ferro, tirò fuori da una specie di feretra una manciata di raggi tolti a vecchi ombrelli, ne scovò quelli più simiglianti alla necessità e cominciò il suo lavoro.

“ Che mi stavi dicendo comare Terè?..”

Che ti stavo dicendo comare Filé..?

“ Il fatto di quella guagliona che ...”

Ah sì! 'Mbehh...così si diceva...io poi non so se è tutta verità o cosa...” la donna prese in mano i ferri e la matassa e si riaccomodò sulla sua bassa seggiola “ la sorella minore della moglie di Pasquale Torvino, quello viveva in quella casa dove abitate voi ora...”

“Si, il nipote di Torvino il vaccaro?

“Quale vaccaro...quello faceva la guardia campestre… aveva una mucca si, ma...macchè vaccaro...”

“Non era quello che abitava quaggiù, nel quartiere della Corea?” Filena indicò con la mano la direzione del quartiere più disgraziato del paese.

“Si proprio quello, quello è il fratello del padre di Maria, ora l’hai accompagnata, non sai che è una Torvino? È la nipote di Pasquale Torvino! Ora...quelli sono emigrati a Torino tanti anni fa...saranno una decina di anni...quasi...hanno lasciato tutto quello che avevano e si sono trasferiti.

La vedova sembrava non seguire bene tutto quel discorso “...E questi qua, cosa c’entrano con le ragazza che dice mio figlio?”

La sorella piccola della moglie, si chiamava Lucia, stava sempre qui, a casa della sorella sposata. Quella, si racconta, che è morta dentro un pozzo, forse...

Di questa casa?..” la povera vedova era diventata bianca dallo spavento. Nel contrasto col suo vestito nero diventò cadaverico. ...è terribile!

Nooo, in un pozzo di campagna, intorno al paese, ma io non so dirti quale.”

“ Madonna , mi hai fatto tremare comare Terè...noi facciamo tutto con quell’acqua...per carità di Dio...e allora?..”

Niente, qui in strada la gente diceva che quella poveretta se n'è dovuta andare perchè rivedeva la sorella in casa.”

“Madonna, che spavento mi hai fatto prendere comare, ma la vedeva perché era abituata ad averla sempre in casa...sarà stata quello.”

“Noo-o...” la signora Teresa, bassina e di taglia piuttosto forte, si accorse che il vecchio Lliò stava sbirciando sotto la sua gonna di cotonina azzurra che si accorciava parecchio da seduta, aiutata dalle cosce piuttosto grassocce e si alzò.

“Quella la vedeva proprio...”

“Ma tu ci credi a queste cose?..Io no!”

“Comare Filena...L'hanno vista anche altre persone”

“Chi?”

“ Comare Iduccia, quella che abita all'angolo, ad esempio...”

Ma dai comare Terè...quella è...” evitò di fare inutilmente il nome, ormai s'erano capite “...ma se dicono che quella è sempre ubriaca.”

Teresa scosse la testa in un cenno di disaccordo.

“Non è vero che è sempre ubriaca...chi te lo ha detto che è sempre ubriaca…quella l’ha vista proprio”

L'omino aveva finito il suo lavoro, lo consegnò alla donna che prima di prenderlo in consegna già si lamentava per come lo aveva fatto.

“Ma se non l'hai ancora visto...” reclamò il poveretto “...lo fai per non pagarmi.”

“ No, lo faccio perché so come lavori tu. Fai schifo. La rovini la roba che dici di aggiustare. Ti do più di quando meriti.” tornò fuori con un pezzo di pane, un mezzo tarallo dolce, tre centimetri misurati di salsiccia ed un bicchiere di vino.

“Ma non puoi darmi dei soldi?” chiese il poveretto.

“Soldi...e chi li vede quelli? Ti pago più di quanto do a mio marito, anzi, bevi in fretta che, se quello vede che ti ho dato il suo vino, mi mena pure.”

La vedova fece un gesto di saluto e si ritirò.

Il vecchio ambulante riprese il suo giro col suo chiassoso codazzo di scugnizzi, che si era messo a giocare con gli amici della strada. Ma, come fossero pagati per quello che facevano, riprese a far eco al grido del girovago: “ U Lliò!...'U banch tell!...I cuperchije!…i siggjtelle!….’o Lliò! …”



















































































Capitolo quarto





'U Mastr” (il Maestro)

La passione della musica

















Il suo amore per la musica andava oltre la passione del musicista.

Quando suonava la cornetta, il biondo ciabattino, sembrava tirare fuori una energia insospettabile in un fisico così asciutto che non bastava a riempire i vestiti.

Il “mastro” (maestro) era già adulto quando scoprì il suo grande amore per la tromba e la sua poca propensione ai lavori agricoli.

Non avezzo a lavori pesanti, aveva frequentato da ragazzo le botteghe degli artigiani del cuoio e della pelle. Qualcuno confezionava o riparava scarpe, altri invece facevano i finimenti per cavalli: selle, tiranti e redini, some e collari.

Uno di loro (un vero artista) era il perno intorno al quale giravano molte persone nel paese e, per la sua abilità, era stato soprannominato nel paese, il Cavalluccio non solo per derivazione del suo mestiere, che questo artigiano svolgeva con serietà e competenza, ma proprio perché lui firmava le sue opere, adornandole con un cavallo rampante in metallo lucido.

Lui era il migliore, il sarto dei cavalli, il re dell’alta moda equina, un vero must dell’epoca. I finimenti prodotti, cuciti sulle misure dell'animale, calzavano perfetti sul destriero, esaltavano la fierezza del quadrupede e inorgoglivano il carrettiere.

Oltre al cavallino, attaccava un arabesco per un campanello d'ottone, dal suono argentino, ai fianchi superiori del collare per l'attracco al calesse, o sul pettorale dell’equino. Oppure un campanello dal suono più tonico per il carro, che quando si tornava dalla campagna di notte o al buio prima dell'alba, il suono ritmico del campanello serviva a far individuare il veicolo nel buio . Ancora più cupo per i Carrettoni con i quali si trasportava il grano mietuto e la paglia dalle trebbie.

Quel suono serviva anche a fugare la paura del buio del carrettiere, ma mai a dirlo a nessuno, i carrettieri avevano di se l’idea sprezzante, dei pavidi timorosi del buio e della notte. Questo si poteva dire con sicurezza, almeno da quando era stato debellato il Brigantaggio dalle campagne e dalle masserie ed erano, finalmente, ripartiti i piemontesi dalle terre del sud.

Nella bottega di quest'ultimo artista del cuoio, si riunivano ogni pomeriggio gli appassionati di musica per una suonata insieme. Ad una certa ora, si toglievano i tavoli per lavorare il cuoio, impregnati di profumi di pelle e di pece, si mettevano via le sotole, aghi e spaghi, sparivano le borchie, le fibie e i campanelli e si tiravano fuori gli archi e i fiati, le chitarre e le fisarmoniche, i piatti e i tamburi.

Quella bottega, sul lato sud della piazza del paese, era solo una stanza, ma ogni giorno, diventava un auditorium. Radunava persone a cui regalava spettacoli e socializzazione gratuitamente, ogni pomeriggio.

La sede di quel virtuoso del cuoio ed eccelso maestro di violino, diventava il centro culturale della musica del piccolo comune.

Lì si formavano i nuovi artigiani sellai e i musicisti del paese.

Quello era il punto di raccolta di molti suonatori e di amanti della musica. Cultori delle epiche melodie napoletane dell’epoca di Enrico Caruso le note di Terra straniera di Giorgio Consolini e Santa Lucia luntana di Antonello Rondi, seppure in sordina, inondavano la piazza. Anche qualche giovane cantante del paese partecipava spesso con extemporanea esibizione.

Francesco “il mastro” aveva cominciato a frequentare quella sorta di circolo privato del sellaio, per una specie di parentela di mestiere.

Dopo aver bazzicato i saloni da barba e i negozi dei lavoratori della pelle, aveva scelto di occuparsi in uno di questi ultimi. Cominciò come apprendista in un negozio di confezioni di scarpe e di borsette per donne, così, al seguito del suo principale che suonava il sassofono dall'amico sellaio, cominciò a frequentare quella sala dove si forgiavano eclettici ed plurivalenti artisti.

All'inizio il giovanotto rimaneva solo in ascolto per un po'. Poi appena possibile, spesso subito, trovava una scusa per potersene andare a cercare la sua Rosina, giovane ricamatrice alla scuola delle suore, nell'asilo del paese.

Le ricamatrici erano giovani donne di tutte le età.Nelle giornate calde, le suore le facevano sedere sotto l’ombra dei grandi ombrelli dei pini marini della villa comunale a ricamare. Le ragazze, coi loro grembiuli bianchi, sembravano primule, nel verde del grande giardino. Mentre lungo il muro di cinta, i ragazzi si attaccavano come lucertole al sole in ammirazione dell'oggetto del loro desiderio.

Il biondo ciabattino si era fidanzato da poco con Rosina, una ragazza molto più giovane di lui e, appena poteva, correva a quel muro con la grata.

Qualche tempo dopo però, anche lui aveva cominciato a solfeggiare e a leggere le prime note. Prima della sua entrata nella banda, cercarono di insegnargli a suonare il tamburo. Il titolare della grancassa stava invecchiando e non sarebbe trascorso molto tempo che avrebbe appeso il pesante strumento al muro.

Ma Francesco non se ne innamorò, anche perché la sua mole, se tale si poteva chiamare, non era quella dell'immaginario collettivo sul fisico del gran cassiere: un pancione voluminoso con il grande tamburo sulla pancia che solo per quella si teneva nella posizione giusta per battere e assorbire le vibrazioni.

Lui aveva il fisico così magro che i vestiti, per quanto aggiustati dalla sorella sarta su di lui, gli ballavano abbondantemente addosso. Non ci misero molto tutti gli altri ad ammettere che lo smilzo giovanotto avesse ragione.

Dopo qualche fallimentare esibizione, provarono a chiedergli cosa avrebbe voluto suonare tra gli altri strumenti che mancavano all'orchestrina e tra queste lui scelse la cornetta.

Già si vedeva con il leggero ottone elevato verso il cielo, soffiare le note più stridenti per stare sopra il coro, al di là del suono di ognuno, di tutti quei lucertoloni, attaccati al muro della villa, a guardare tra gli altri fiori, anche la sua Rosa.

Quando cominciò a suonare la cornetta, si accorse di aver scelto bene, come quando si sposò.

Aveva però fatto il ciabattino quel tanto che gli bastò ad essere chiamato “mastro”, e quel nomignolo, guadagnato per la seriosa meticolosità proverbiale del suo carattere, sinonimo del rispetto della gente, divenne, dopo un po di tempo, il suo cruccio.

Anche quando si diplomò all'accademia di Santa Cecilia, nella Capitale, e diventò insegnante di musica nelle scuole, la gente del paese continuò a chiamarlo Mast' Francisco (Mastro Francesco) per tutta la vita.

Quelli erano gli anni '60, gli anni diaspora meridionale. Il paese si svuotava di gente che, quotidianamente, con nelle valigie di cartone tutto quel poco o tanto che aveva, lasciava il paese per il nord industriale.

Non si accorgeva nessuno che non era il lavoro che inseguivano, ma gli altri che se n'erano andati. Legati da un sottile filo di parentela, le persone seguivano le persone partite prima, poiché erano le persone che producevano il lavoro ed una volta che quelle erano cominciate a diminuire, il lavoro per gli artigiani veniva a mancare ed erano costretti ad andare via anche loro.

Artigiani fini e creativi: sellai e ciabattini, falegnami e barbieri, fabbri e muratori, elettrecisti e meccanici, tutti alle linee di montaggio della Fiat.

Il professore di musica si era salvato in tempo, aveva ottenuto le prime supplenze e qualche soldo cominciò a guadagnarlo.

L'impiego nelle scuole garantiva sicuramente più possibilità di continuare a vivere al suo paese, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse rimasto legato al suo lavoro di artigiano del cuoio.

Non è che lo stipendio di un professore di musica, con poche ore alla settimana di insegnamento, fosse bastante ad una vita dignitosa per la piccola famigliola del Maestro, ma lui discendeva da una famiglia austera, che non avrebbe mai ammesso le difficoltà economiche e piegata al lavoro. Sembrava un personaggio uscito da quelle decadute e decadenti famiglie napoletane di Miseria e Nobiltà.

Negli anni difficili che seguirono, il professore mantenne il suo fisico elegante ed asciutto e la sua cornetta rivolta al cielo. Neppure si sognò mai di prendere in considerazione l’ipotesi di un altro lavoro, o di partire. Rosinella gli diede due figli e la sua vita scorreva senza clamori.

Nel mese di agosto, alla chiusura delle grandi fabbriche, la maggior parte degli emigrati tornava ai propri luoghi, nel tentativo frustrante di risanare quella ferita che una malattia prima sconosciuta, aveva prodotto nella loro anima: la nostalgia.

In quel mese del millenovecentonovanta, il professore di musica, incontrò nella piazza del paese, un uomo che aveva conosciuto sin da bambino.

Nel salutarsi, mentre passeggiavano tra gli altri compaesani nella piazza del paese, il musicista ad un certo punto si fermò, guardò il suo interlocutore, gli strinse la sua asciutta mano sull'avambraccio e gli disse serio :'Tonino..” “...Tu ora mi devi aspettare un attimo qui, io vado a casa a prendere una cosa per te”.

“Per me, maestro? Che cosa mi vai a prendere?” Antonio era sinceramente colpito.

Non ti preoccupare, aspettami un attimo...aspettami un attimo, ci metto un minuto, d’accordo?

D'accordo...” Antonio si guardò attorno cercando qualche altro volto amico. Seppure era lontano da trent'anni giusti, nessuno si era dimenticato di quel ragazzino sempre attaccato alle gonne nere di una giovane madre, rimasta troppo in fretta vedova.

Il ragazzo era cresciuto in paese fino all'età di sedici anni, poi, come gli altri, seguì la scia di quel fratello col quale giocava a biglie di vetro nella buca di un mattone rotto, in quel pavimento di terra, che un maialino cresciuto disfaceva ogni notte per cercare un po' di fresco.

Emigrarono in Germania dove rimasero fino all'età del militare poi, dopo i diciotto mesi di naja, appena tornato al paese, ripartì nel 1970, con la famiglia per la città della Fiat.

Nei suoi ritorni estivi al paese, il suo carattere estroverso, lo aveva aiutato a mantenere viva la sua amicizia con tutti, ed era ricambiato da molti.

“Che fai? Come stai, quando sei arrivato, quando te ne vai?” alle sue spalle era arrivato Alfonso, amico di infanzia anche lui emigrato a Milano.

La frase era il modo scherzoso con cui i residenti si rivolgevano ai tanti emigranti che d'estate riempivano il paese, espropriando parecchio spazio ai residenti. Così per gioco era nata, quella frase preconfezionata e scherzosa che però sottolineava una esigenza vera, quando te ne vai era come dire é stato un piacere rivedervi ma lasciateci presto il nostro spazio.

“Ciao Alfonso, come stai, anche tu vieni ancora al paesello eh?”

Ho ancora la Mamma, mio fratello, mia sorella...che vuoi che faccia...io vengo per forza, per loro altrimenti...”

Alfonso era stato un ragazzo vivace che al paese esplodeva, lui aveva bisogno di un palco maggiore e Milano era il posto ideale per lui, dove aveva trovato la sua strada nella compagnia teatrale di un grande attore ed ora, anche se non più a Milano, continuava a seguire la sua strada nei teatri italiani. “ ...se non fosse così... che ci devo fare in questo posto del cavolo...”

“Ma dai...è il nostro paese...”

“Si certo...ma é il nostro paese, anche se gli stai lontano”.

“Beh...Si, certo...” L’anziano professore stava tornando a grandi passi, portava una cartellina di cartone rosa in mano.

Eccoti qua, ma non ti sei mosso per niente. Che bravo!” disse prendendo sottobraccio Tonino

Scusami Alfonso, dovevamo finire un discorso con il Maestro...ci vediamo ancora si?” L’attore fece un cenno di comprensione con la mano che sembrava arrotolare un matassa, come a dire si...ci vediamo più in là, ma poteva voler dire anche altro.

Allora Francesco...cosa c'è in quella cartella?” Il professore lo prese sottobraccio e lo diresse verso una panchina di marmo sul lato della piazza.

“Vedi Antonio, io amo la musica, tu lo sai...”

“Lo sanno tutti...”

“Si, forse hai ragione, ma tu devi sapere...Io ho la certezza che tu sei la persona giusta...”

“Giusta per cosa?..”

“Lasciami parlare...é quello che voglio dirti...” dopo si gettò in una lunga descrizione circa le sue esperienze musicali fatte e sugli incontri speciali che la sua vita di musicista lo aveva portato a consumare. Aveva avuto parecchie soddisfazioni e perfino una parte in un bel film e poi, quando il discorso stava diventando troppo lungo ed il giovane dava segni di non comprendere dove volesse andare a parare, ecco la motivazione di tanta prefazione.

...Ma è qui, qui in paese che io ho cercato e trovato la più grande soddisfazione!” Era eccitato, ma cercava di rimanere sempre misurato e controllava la sua emozione continuando a pulirsi le labbra, con il suo immacolato fazzoletto, come se stesse suonando la tromba ed avesse della saliva sulle labbra che invece erano asciutte, quasi secche.

Di cosa stiamo parlando Francì?” Lui aveva un filo sottile di parentela acquisita col professore, chi non ce l’aveva in una piccola comunità come quella? Ma il maestro contava di fargli comprendere che lui lo riteneva adatto al compito che gli stava affidando solo per stima personale, non per la sottile parentela.

Stiamo parlando di questi...” disse porgendogli un plico di fogli fotocopiati “ questi sono il frutto di molte ricerche che io ho fatto. Ho indagato sulle vecchie canzoni popolari che cantavano le nostre mamme quando lavoravano nei campi.

“ Le nostre mamme lavoravano nei campi Francì…? La mia vorrai dire...”

“ Si…” Leggermente infastidito dalla precisazione “ intendevo la generazione delle nostre mamme…”

“ Ma si...scherzavo.”

Queste sono le canzoni della loro infanzia e gioventù. Le ho musicate sull'aria originale che cantavano loro, tu devi averne una copia...”

Antonio era veramente grato al musicista per quel tesoro che voleva mettergli tra le mani, ma non capiva cosa potesse farsene lui, incapace di comprendere la musica e di cantare.

Non Importa, non importa. Tu sei colto, io lo vedo, lo sento da come parli. Tu devi averli per conservarli e un giorno saprai cosa farne, non devi cantarli tu, devi averli.”

L’emigrante, lo guardò un poco imbarazzato.

“Temo di deluderti. Io sono ormai oltre i quaranta, sono via da tanto tempo...Queste cose dovrebbero averle i giovani.” prese la cartellina piena di fogli, li guardò un attimo incredulo, poi la richiuse e la mise sotto il braccio.

Il professore appariva in pace ora. Continuarono a chiacchierare per un poco del più e del meno, senza più alcun riferimento a quei fogli poi, si salutarono.

Francesco si diresse verso alcune persone sedute davanti alla porta dove una volta c’era quel negozio di finimenti per cavalli dove aveva imparato a suonare la cornetta, ora c’era una targa che recitava:”CIRCOLO DEGLI AMICI”.

“Beh…” pensò Antonio “ certi posti nascono predestinati”. In fin dei conti quella stanza aveva avuto sempre quella funzione di ritrovo tra persone che condividevano un interesse. Continuava ad averla anche dopo la partenza del Cavalluccio, morto operaio dopo aver lavorato il resto della sua vita nel reparto selleria della Fiat a Mirafiori.

Finirono i giorni delle vacanze anche quell’anno. Finirono prima di quelli di agosto e Antonio Fortinguerra ritornò a nord. Il suo camper sull'autostrada viaggiava in una coda interminabile lunga quanto l'intera nazione.

I migranti che un mese prima avevano formato un fiume di automezzi infilati come perle nelle carreggiate d'asfalto che dal nord li riportava a casa, ora avevano invertito il senso di marcia nel ritorno a casa. Ogni tanto qualcuno superava qualcun altro o veniva superato da qualcuno, ma la formazione era continua e sembrava proprio quella delle anatre nelle loro lunghe trasvolate. A turno si era gregari e capofila.

La fatica del viaggio bastava quasi da sola ad annullare il fiato recuperato dopo un anno di lavoro e di nostalgia, un emigrante pensa ogni volta che il gioco non valga la candela e si ripromette che l’anno dopo non farà mai più quell'immane fatica, ma dopo un altro anno, rintronato dallo stress della vita in una grande città e smunto dalla nostalgia, si precipita di nuovo puntando al sud in coda alla formazione che migra verso casa.

Il rientro in Piemonte o in Lombardia dal meridione, é sempre traumatico, perché quando si torna al nord, il tempo è già grigio autunnale e alle prime piogge, le nebbie ti fanno piombare sulla corsia preferenziale che porta velocemente nel cuore dell'inverno. Ogni tanto non è neppure così, ma il risultato non cambia: quando si è al paese non si vede l’ora di rientrare a casa e, appena tornati in città vorresti fuggire di nuovo verso il mare.

Una volta ripreso il giro della vita abituale, come può essere normale in una città industriale, gli emigranti tentano di non ricordare troppo spesso le vacanze appena trascorse, sanno che altrimenti non riuscirebbero a resistere un altro anno intero.

Un emigrante è come la borchia di un grosso orologio a pendolo. Fa da una parte all’altra tutta la vita sfiorando i suoi due punti estremi e dopo un po’ si confonde non sapendo più quando sta andando e quando ritorna. Fa questo tutta la vita, col corpo e con l’anima.

Una volta in Piemonte, il camper rimesso in parcheggio, ‘Ntoniuccio ridiventa Antonio e tutto viene rimandato al prossimo anno.

E le canzoni popolari del paese tanto amate dal musicologo ex ciabattino e professore di musica? Finiscono dimenticate in un album fotografico nella libreria a casa di Antonio, e l'ex bambino giocatore di biglie di vetro colorate, torna ad essere il turnista nella azienda dove fa l’autista.

La quotidianità: si riveste di quella apatica pellicola giallognola, che si appiccica addosso ad una vita ripetitiva, appena le emozioni estive svaporano e sbiadisce l'abbronzatura.

Si riprende così in silenzio le vite di tutti, avvolgendole con le sue idiosincrasie quotidiane. La fatica di riprendere il corso normale del lavoro, così com'era prima di partire, impedisce alla mente di continuare a torturare l'emigrante con la mancanza del proprio paese. Nostalgia in parte appagata, con il breve periodo di vacanze e contrastata dalla voglia di ritornare all'altra casa, all'altro paese; quello dove ormai si vive da tanti anni.

Così le cose che capitano d'estate, vengono messe da parte, conservate in quegli angoli segreti per non smarrirle.

Spesso poi vengono dimenticate perché quelli sono angoli che non si ricordano più. Così i tesori estivi finiscono nel dimenticatoio, fino a quando ritrovandoli casualmente rinverdiscono le emozioni, ma non fanno più male.

Oppure si buttano via prima del nuovo viaggio estivo, un po' come capita alle conchiglie raccolte sulla spiaggia l’anno prima.

Per diversi anni il camper di Antonio Forteinguerra punta la prua verso altri lidi e il paese nativo diventa sempre più una piccola isola in fondo all'orizzonte dei ricordi, spesso e a lungo, avvolto completamente dalla nebbia del tempo.

Anche i rapporti più forti si sfilacciano e dal paese gli arrivano di tanto intanto, solo le notizie dei morti. Un rosario di mesti conteggi del paese che un emigrante ricorda, che se ne va un pezzo alla volta.

Gli anni passano ed un giorno, parlando con qualcuno del paese, gli arriva la nuova ormai non più tale, che anche il professore musicologo era morto.

Ora me lo fai sapere? Ci vediamo quasi tutti i giorni e me lo dici solo ora?” si lamentò con l'amico, mentre stava passeggiando nel mercato di Bruino.

“Non pensavo che tu non ne sapevi niente...credevo che tu neppure che tu lo conoscessi!”

“Se lo conoscevo? Eccome lo conoscevo! Tu pensa che... sembrava che un pensiero inatteso, fosse sopraggiunto d’un colpo nella sua mente. Una volta...” raccontò all'amico di quei fogli che il musicista gli aveva affidato un giorno, nella sua ultima visita al paese.

“Quello era fissato per le storie antiche del paese...dove li hai messi, li hai ancora o li hai buttati?”

“Mah...non ricordo...no! Buttati no! Li ho messi da qualche parte che non ricordo...devo cercarli.” Anche quel proposito però, dopo poco, si confuse con il clamore e i colori del mercato e non ritornò a galla più per molto tempo, fino a quando...

















































Capitolo quinto



'U Pnzarill





















“Lo senti lo senti? Quanto mi piace il suo canto...” la moglie di Antonio soffriva molto se qualcosa le interrompeva il sonno prima di averlo smaltito tutto. Se qualcuno o qualcosa la svegliava durante il sonno, lui doveva avere molta pazienza a sopportare per gran parte della mattinata il suo malumore. Solo il canto di quell’uccellino, molto mattiniero, nelle prime timide mattine del tardo marzo, quando non erano ancora diventate decisamente primaverili, aveva il potere di farla svegliare con una inspiegabile allegria.

Cominciava a raccontare, ripetendola un numero indicibile di volte, di quando si svegliava da bambina, nella sua fredda casa in Romania, dove c'era poco o niente da mangiare o per vestirsi, per far cominciare bene la giornata, ad un esercito di bambini vogliosi di ogni cosa.

Il canto di quell'uccellino la faceva sentire felice, ricca. Non le importava affatto che il marito le dicesse che forse quel canto era il segnale che il lungo inverno stava terminando e che forse, era questo segnale, associato al tepore del timido sole, dopo i rigidi inverni della Moldavia, che le metteva addosso allegria.

“Non mi importa, non è come dici tu...” sorrideva mentre si alzava per andare sul retro della casa, dove ogni primavera nidificava quell'uccellino (segretamente benedetto dal marito).

“Sai come si chiama quel piccolino?”

“Che ne so...so come si chiama nel mio dialetto, non come si chiama in italiano, mi pare sia un fringuello.”

Ma và...non lo sai? Fringuello, hummhh sei sicuro?...”

“Ti ho detto che so come lo chiamavamo al paese...”

“E come lo chiamavate?”

“U p-nzarill!”

“Upinzarill?? e che nome è?”

U è solo l'articolo...come dire il...il pensierino...”

“Il pensierino?...sembra carino per quell'uccellino. Perchè pensierino?..”

Antonio si fermò un attimo, il capo chino come a guardarsi il grembo, in un silenzio che lo separò dall'ambiente che lo circondava, come forse facevano gli attori per entrare nella parte, poi rialzò lo sguardo verso la moglie e cominciò a raccontare la storia.

La moglie sapeva che quel silenzio preludeva ad un mutamento reale e faticoso del marito, lo vedeva in trasparenza, così come davvero era ora e ora, quando lui raccontava qualcosa del suo passato doveva ritornare ’Ntoniuccio ed ora lui era pronto.

U pinzarill, si diceva, era una bambino. Un ragazzino morto di morte violenta. Un morto innocente, buono. Ucciso dalla matrigna. La sua anima che non poteva lasciare la terra perché doveva compiere la sua missione...”

“La sua missione?.. e che missione aveva?”

“Si diceva che l'uccellino era lo spirito di chi veniva ucciso e nessuno lo sapeva e lui rimaneva sulla terra fino a quando non riusciva a fare scoprire chi era il suo assassino.”

“Davvero? Ma perché avevano legato un morto di morte violenta ad un uccellino così delicato? Povero innocente...”

“Non so quando sia nata la leggenda, ma si riferiva ai morti di violenza, ai giovani, ai bambini. Una volta era facile che le vittime fossero bambini innocenti...tanti bambini innocenti.”

“Madonna mia che brutta cosa!...perché dici questo? Perché i bambini?”

I bambini, ma anche le donne...sai quante donne?.. Ll’uomo era diventato triste come sempre quando gli tornavano alla mente i ricordi del paese.

Lui si sentiva un esule. Ben più che un emigrante. Ma questo argomento, cominciato con l'allegria della moglie per merito dell'uccellino mattutino, sembrava sceso irrimediabilmente verso una triste china drammatica.

“Beh...coraggio alzati!” la donna buttò all'aria coperte e lenzuola lasciando il marito nudo all'aria ancora fredda di marzo.

“Ma che fai...lasciami stare a letto!” la voce imbronciata e indispettita dell'uomo imitava il modo dei bambini, sapeva che alla moglie piaceva molto quando lui faceva così. La sceneggiata durò poco perché lui si alzò e scomparve lungo il corridoio. La moglie lo seguì con lo sguardo ancora ridendo del marito che ancora nudo si precipitava fuori dalla camera da letto.

“Ma non ti vergogni andare in giro per casa così?”

“Devo cercare qualcosa...subito!”

“Mah... e la storia dell'uccellino?”

“Si si...arrivo e te la finisco.”

Lei si mise a rifare il letto mentre Tonino sembrava stesse buttando tutto all'aria nell'altra stanza, da dove arrivavano rumori che preoccupavano la donna.

“Tu metti disordine di là ed io ti uccido.” minacciò seriosa.

“Non sto facendo niente...non ti preoccupare.”

Con te non è possibile...sei come dieci bambini tu.” lui tornò poco dopo con un raccoglitore di cartone rosso stretto in braccio come avesse ritrovato un gioco smarrito.

“Ecco...cos'hai trovato stavolta? Non ti mettere sul letto, l'ho appena rifatto!”

“No...aspetta che mi vesto e andiamo giù a fare colazione. “

“Cosa c'é il quel coso”.

“La storia dell'uccellino...spero”

“Davvero? Dimmela! “lei cominciò ad armeggiare in cucinino e la casa si riempi degli odori caldi delle fette di pane tostate e di caffé, mentre il marito appoggiato sul muretto divisorio che divideva l'angolo cottura dal resto della cucina ricominciò il racconto dal punto dove aveva lasciato, come se tutto quel movimento fatto fino ad allora, non l'avesse minimamente distratto dal pensiero.

“Mia nonna mi raccontava questa storia ogni primavera,ogni volta che sentiva cantare 'u p'nzarill.”

“Dunque?..”

Dunque, una donna aveva sposato un vedovo che aveva un figliolo, la matrigna non sopportava quel bambino e non sapeva amarlo come avrebbe dovuto, così un giorno decise di ucciderlo, disse al padre che il figlio era scappato di casa. Ne tagliò dei pezzi che cucinò in padella per la cena del padre e, non so come fece ma poi, mi sembra, che gettò il corpo in un pozzo”.

Dominiddio! “ la giovane donna si fece ripetutamente il segno della croce.” Perché lo uccise? Non posso pensare che lo diede al padre fritto!la donna sembrava sul punto di vomitare l’anima.

Pare che il marito della donna, faceva il guardiano delle vacche in una masseria al Ponte del Porco, molto lontano dal paese e che non tornasse a casa, se non la domenica. La donna aveva una tresca e si intratteneva spesso con il loro compare di nozze. Il figlioletto (ormai grandicello) pare che l'avesse visti insieme più di una volta . Sconvolto aveva minacciato la matrigna di dirlo al padre...”

“Ahhh, ecco!” l'interruppe lei per un secondo, poi lui riprese il racconto come per ridirlo a se stesso più che a lei. Era una cosa quasi del tutto dimenticata ed ora stava rinfrescandosi la memoria per non scordarla più.

“Quando il vaccaro tornava dalla masseria, portava sempre un pollo o un coniglio da mangiare a casa, la donna sostituiva la carne e teneva il pollo e il coniglio per lei ed il suo amante.

“Ma al mattino presto, un uccellino come quello che senti tu, cominciò a cantare davanti alla porta di casa. La donna si innervosiva ed il marito le chiedeva perché. A lui quel canto gli sembrava una musica dolcissima. Ma la cattiva matrigna non ne poteva più di ascoltare quel canto sottile che gli entrava nel cervello come una lama. Così decise di tentare di cacciare l'uccello, cominciò a lanciargli pietre o a cercare di batterlo con una canna, ma l'uccelletto saltava tutt'intorno come una mosca continuando a tediarla con il suo cantare.

Esasperata e sull'orlo di una crisi di nervi stava per scoppiare in pianto, allora, la donna chiuse l'uscio e si rintanò a letto. Ma il fringuello saltò sul finestrino sopra la porta e continuò a tormentare la donna con il suo canto ficcante.”

“Ficcante quel cantuccio cos' delicato?”

Delicato si, ma pare che nel suo fare tzuì-tzuìì tzuììì, mentre tutti gli altri, udivano un canto delizioso, la disgraziata ci sentisse delle parole che ripetevano un ritornello accusatorio che diceva: tzuì tzuì tzuì, che bello uccellino che sono io, mia madre puttanella, mi ha fritto nella padella, mio padre poverello non mi vedrà mai più, tzuì - tzuìì tzuììì.. e continuava così sempre.

‘Ntoniuccio aveva cantato la nenia dell’uccellino nel dialetto del suo piccolo paese pugliese, mentre la moglie straniera, lo guardava con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, per sottolineare l’impossibilità di comprendere il significato di quelle parole.

Poi, tornò Antonio e, a suo beneficio, le cantò la traduzione in italiano, nella quale, la canzoncina sembrava perdere un poco del suo magico ritmo ed efficacia. L’uomo aveva delle capacità recitative ammirevoli, entrava ed usciva dalla parte, con una naturalezza propria del mestierante, questo gli consentiva, mentre recitava la parte del narratore, di avere una voce ed una luce negli occhi diversa, quasi sognante. Al contrario di quando era costretto ad uscire dalla narrazione per essere il marito attuale. Era come se mentre raccontava, tirasse un velo impalpabile tra se e gli altri, una velina non del tutto trasparente, che ridava al racconto la patina ingiallita del tempo.

Proprio come se, chi lo stava a sentire, sfogliasse le pagine del libro datato dalla memoria. Il risultato che otteneva lo ripagava pienamente di questa sua abilità. Per chi lo ascoltava, era proprio come se stesse leggendo coi suoi occhi, le righe invisibili che il narratore snocciolava per le sue orecchie.

L’effetto strabiliante, era una trasposizione temporale e quasi visiva. Il suo pubblico aveva la sensazione di ascoltare il racconto dalla nonna del ragazzo, di essere lì con lui sulla scena, proprio mentre il fatto stava avvenendo.

Questa capacità recitativa, si era sviluppata in Antonio, fin dall’infanzia, quando il ragazzino, non ancora in età scolare, seguiva per le strade del paese, insieme ai suoi compagni di giochi, i vecchi cantastorie d’una volta.

Queste antiche figure, giravano i paesi, con un lenzuolo arrotolato su una canna secca, sul quale avevano dipinto delle vignette rappresentative e cantavano le loro romanze. I temi ricorrenti erano sempre quelli sul Brigantaggio e sui Briganti. Quei cantori gli fecero conoscere la storia di Nicola Morra o quella di Cicognitto, eroi d’una resistenza marchiata dall’infamia dalla storia ufficiale, scritta dai vincitori di una infame guerra mai dichiarata.

Imparò a memoria le romanze che cantavano i tradimenti di donne che finivano male, o di ricchi proprietari terrieri del sud, che pretendevano ancora la prima notte dalle giovani spose, le quali spesso si suicidavano per non cedere.

O, ancora, di mariti che vendicavano l’onore di famiglia, con efferrati omicidi, gli amanti fedifraghi delle mogli.

Il suo racconto riprese come se la pellicola dei ricordi, stendesse di nuovo, tra lui e la moglie, gli opachi veli del tempo.

“La matrigna omicida pensava che gli altri sentissero quelle parole ed era terrorizzata per le conseguenze. La donna stava ormai per uscire di testa, quell’uccellino continuava a farla disperare col suo tzuì—tzuìì tzuììì...Non ce la faceva più a sentirlo, si alzò dal letto dove si era cacciata sotto la trapunta, ancora tutta vestita, e uscì di casa.

Si recò a casa della sua vecchia madre, ma la cosa non cambiò. Si mischiò tra la gente al mercato della verdura, tra i tavoli di pietra sui quali gli ortolani mettevano i frutti del loro lavoro in vendita, ma dovunque lei andasse, u p'nzarill la seguiva saltellandole intorno e continuando a cantare.

Quella persecuzione continuò fino a tarda sera, poi sembrò che terminasse col crepuscolo. Il mattino seguente però, prima ancora che le prime luci dell'alba schiarissero completamente il buio della notte, il friguellino ricominciò a cantare davanti alla sua porta.

Lei risentiva quell’accusa che la perseguitava ed aveva paura a guardare gli altri che ormai, dovevano sapere la cosa, datesi che lo sentivano ben anche loro, quel fringuello che l’accusava di aver ucciso il figlio e, come temeva l'assassina, il tormento continuò per tutta la mattinata esasperandola, fino a quando, disperata ormai per essere stata scoperta, la donna si recò al pozzo dove aveva gettato il cadavere del figlio e si buttò giù.

‘Ntoniuccio tacque di colpo e fu come se la sua voce si fosse spenta col sordo tonfo dell’acqua in quell’antico pozzo davanti alla chiesa di Sant’Antonio.

“Dio mio che storia cruenta!” la moglie di Antonio aveva la pelle d'oca “ ma la tua nonna non aveva qualcosa di più allegro da raccontarti?

“Mia Nonna mi raccontava questa storia quando il fringuello cantava per annunciare la fine dell'inverno...”

Come finiva poi la storia?” chiese ormai rassegnata Ioana e col sospetto che qualche altro decesso avrebbe compiuto il racconto.

“Accorse della gente intorno al pozzo e qualcuno fu calato legato con delle corde per vedere se c'era ancora qualcosa da fare per la poveretta...”

“Quella disgraziata era morta?”

No...era finita si sott'acqua dopo la caduta, ma le grosse e pesanti gonne avevano trattenuta l'aria come un paracadute e così la legarono e la tirarono su, ma l'uomo che l'aveva soccorsa, trovò il berretto di un bambino sull'acqua e così perlustrarono il pozzo, ed alla fine fu trovato il cadavere del figliastro della donna.

I carabinieri la interrogarono per diverse ore e alla fine lei ammise il delitto e finì in galera.”

“E l'uccellino?”

Oh...era scomparso, non si sentiva più cantare. Per questo la gente disse che quell'uccellino, che canta pochi giorni all’anno, altro non era che lo spirito del bambino, che appena aveva ritrovato la pace era volato via.

“Ed era così?”

Ma no! I fringuelli cantano per pochi giorni all’anno. Cantano quando vogliono attirare l'attenzione della femmina per la quale hanno preparato il nido poi, appena la trovano, smettono di cantare, per non attirare i predatori di uova o di piccoli. Un po' come fanno gli uomini...” la moglie ci mise un po' a realizzare il sottinteso nascosto, ma poi trasalì.

“Cosa vuoi dire con questo?”

“Niente, eheheeh niente, solo che anche noi cantiamo fino a quando non troviamo una femmina e poi...”

“...e poi?..”

“Ehh...e poi...smettiamo di cantare...prdiamo la fantasia...la voglia...”

Ma va...fringuello, e tu cosa vorresti cantare tutta la vita, vero?” lo prese a pizzicotti dalle guance come si fa coi bimbi e gli schioccò un bacino sul naso.

“Il mio fringuello non canta più lui...poverino...pensare che la mio paese il nome di quell’uccellino ha un significato così romantico...

“Come si chiama da voi?”

“Ohhh.” fece un gesto con la mano come a dire che era meglio lasciar perdere “....nella mia lingua non riusciresti di certo a dirlo…”

“Ma in italiano...in italiano ce l’ha una traduzione?”

“Si...si direbbe…” la donna fece una lunga sospensione come a cercare la parola che più si avvicinasse a risolverle l’inghippo e poi sbottò in una risata ”...si direbbe...il pensierino!”

“Ma come fai tanto cine e poi...alla fine si chiama come da noi?”

“Si ma a me non veniva in mente prima. Me lo ha ricordato il tuo racconto. Da noi però vuol dire tutta un’altra cosa.”

“E cioè?..”

“In Romania, è un pensiero dolce, d’amore. Si dice che gli innamorati mandano quell’uccellino a cantare all’alba, sulla finestra della loro amata, per darle il loro buongiorno”.

“Ma tu pensa…” il marito sembrava invidioso di quella tenerezza, che sicuramente era più appropriata per il piccolo fringuello, al posto di quella macabra storia della quale l’avevano fatto carico i vecchi del suo paese.

“Che c’è?”

“Nel paese dei santi, marinai e poeti si lega il fringuello ad un fatto di sangue, in quello di Dracula ad un atto d’amore…incredibile.”

“Ma và i-n-c-r-e-d-i-bb-i-l-e-e-e-e, scimmiottò la moglie che ripizzicò le guance piene del marito e gli schioccò un nuovo bacio sulla punta del naso a patata del povero ‘Ntonuccio, il quale si beava di quelle gratifiche.

“E tu hai questa storia in quel raccoglitore che ti porti appresso come un ciuccetto?”

“La storia non credo, ma qui dentro ci dovrebbero essere le canzoni antiche del mio paese, e magari te ne canterò qualcuna”,

“Oh Madonna!..” fece finta di disperarsi la donna mettendosi le mani tra i capelli ”… tutta a me doveva toccare questa pena?















































Capitolo sesto





Caccia al tesoro



















Antonio Fortinterra aveva cercato con tutte le cure possibili, le canzoni che il professore di musica del suo paese, gli aveva affidato nelle vacanze del duemila. Ma di quelle fotocopie, in quel contenitore rosso, non c’era alcuna traccia.

Incredulo, lo aveva esaminato più volte, aveva tirato fuori i fogli dalle buste leggere e trasparenti di plastica, li aveva sfogliati uno ad uno ma, per quanto li avesse girati e rigirati, alla fine dovette ammettere che, dei fogli del musicista, lì dentro, proprio non c’era proprio nessuna traccia. Sapeva che doveva averli messi in un posto assolutamente sicuro. Un posto dove nessuno li avrebbe potuto toccare o spostare. Faceva sempre così:poneva le sue cose preziose in posti certi, dove solo lui poteva metterci le mani e poi scordava quel suo posto segreto e non ritrovava mai niente. Almeno non quando lui li cercava. Poi, prima o poi, quello che cercava veniva fuori casualmente. Sarebbe andata così anche questa volta? Forse, ma lui aveva urgenza di ritrovarli, ora.

Non gli rimaneva che capitolare, si arrese e capì che, il lavoro di ricerca gli avrebbe preso altro tempo.

La grande casa aveva un numero infinito di posti in cui poteva averli messi, altri raccoglitori da cui ripartire ma, la certezza iniziale, con la quale aveva abbracciato quella scatola di cartone, gli aveva lasciato ora, molti dubbi sull’idea che fossero in uno di questi. Lì dentro conservava bollette e fatture pagate, vecchie fotografie e molti articoli di giornali che lo interessavano, tra quelli sperava di trovare anche quelli che ora cercava.

Cominciò però a temere che per ritrovarli, ammesso che davvero li avesse conservati, avrebbe dovuto gettare all’aria tutta la libreria e i cassetti degli armadi. Chissà dove li aveva messi.

Antonio era un uomo maturo ormai, aveva attraversato una vita dura, la quale lo aveva temprato al controllo delle sue emozioni e lo aveva dotato di buone capacità manuali e culturali. Era diventato insomma, quello che si dice un uomo equilibrato e capace, ma conservava dentro di se, molto di quel vivace ‘Ntoniuccio, mai completamente cresciuto.

La sua curiosità naturale, si moltiplicava all’infinito quando l’oggetto dei suoi desideri, riguardava le cose che lo legavano alla sua terra.

Nei giorni che seguirono la storia del fringuello, spese molto del suo tempo a cercare quei fogli in ogni scatola, libro e cassetto della casa, ma dei suoi fogli non riusciva a trovare traccia. La sua mente si era ormai messa in moto e cercava con caparbietà quelle vecchie canzoni del paese, come se ritrovandole, le avrebbe sentito cantate dalla voce della nonna.

Sapeva con certezza di non aver mai buttato via quei fogli, non l’avrebbe mai fatto, però loro intanto, sembravano nascondersi ad ogni suo tentativo di riappropriarsi di loro, del suo tesoro nascosto chissà dove.

Non riusciva più a trovare pace, ogni giorno dedicava parte della giornata alla sua ricerca. Ogni volta partiva con la sensazione che era proprio sulla pista giusta, quello dove stava cercando gli sembrava il posto dove sicuramente aveva messo i suoi fogli, ma ogni giorno doveva rimandare alla volta successiva.

Gli capitava spesso di dover lasciare quello che stava facendo, con la netta sensazione di aver capito dov’erano, ma poi, come se giocassero a rimpiattino, non ne trovava traccia.

Ad ogni ricerca però, gli tornava alla mente qualche parola di qualcuno di quelle antiche romanze popolane o qualche aria sulla quale la nonna gliele cantava. Quello che gli stava capitando era strano: lasciava di dipingere o di scrivere, a volte di riparare un abatjour o di riparare la bicicletta del nipote, per precipitarsi a cercare il suo tesoro nascosto, ed ogni volta, pur non trovando traccia dei suoi fogli, quando tornava alle sue faccende lasciate, aveva comunque ritrovato un pezzetto di ricordo in più.

Appena un’arietta gli si affacciava alla memoria, lui cominciava a fischiettarla per acchiapparla tutta, ed insieme all’aria, tornavano a galla a pezzetti anche le parole.

Ce n’era una in particolare che lui aveva intercettata da qualche giorno, ne stava raccattando pezzetti quotidianamente, era come se i ricordi tornassero in mente sotto forma di pezzetti di legno che, dopo essere marcito nel fondo sotto l’acqua oscura di un lago, ora, sbriciolandosi, risalivano la fredda coltre del tempo e tornavano a galla.

Lui raccattava quei resti e li ricomponeva in un mosaico che assumeva le sue forme originali, man mano che ne aggiungeva i pezzi. Fischiettarne l’aria serviva ad arricchirla con una nota in più o diversa, era come ripercorrere i suoi vecchi tratturi dove non passava da tanto tempo e l’erba ne aveva ricoperti il passaggio, bastava incamminarsi sul vecchio cammino che i ricordi riaffioravano come perle di una collana ancora ben attaccate a quel filo della memoria.

“Tutti voi paesani che sentite

Che brutta condanna ci hanno dato

Mio padre a vent’anni e noi in galera a vita…”


La canzone gli stava tornando alla memoria, mentre vedeva che le oscure acque che l’avevano conservata nel loro profondo, si andavano lentamente schiarendo .

A volte gli sembrava di guardarne i riflessi verdi smeraldo, mentre inginocchiato per terra era in attesa di vedere affiorare altri pezzi.

Ci vollero parecchi giorni, passati come in preda ad una febbre, una sorta di stato di malessere piretico nel quale ci fosse nascosto un godimento estenuante e soporifero, prima che tra i pezzi affiorati, ce ne fosse uno che dava senso al resto e che gli permise, piano piano, la ricostruzione del testo e della musica.

“ Lucia si chiamava, era innocente

due fratelli scellerati e senza cuore

senza pietà l’hanno uccisa

e tolto l’onore…”



Ecco! Aveva finalmente preso un altro pezzo, ed insieme alla musica e alle parole, aveva ritrovato le immagini di sua nonna. La sua figura alta e magra, molto elegante nelle sue vesti lunghe e camicette di cotonina blu dai fiorellini bianchi, che gliela cantava. Era praticamente innamorato di sua nonna: alta ed elegante, con degli occhi verdi chiari e la sua nuvola di capelli bianche che le incorniciavano il volto così fine per la vecchia contadina. Quella donna aveva un passato duro alle spalle e la vita l’aveva forgiata, attraverso tante dure prove.

Lui la rammentava forte e decisa, da giovane doveva essere stata una bellissima donna, di quelle che facevano sognare quegli uomini forti dell’inizio del secolo che aveva segnati il passaggio definitivo del Regno delle due Sicilie, sotto il dominio dei piemontesi, dopo che avevano completamento debellata la resistenza dei “Briganti”, dei quali lei continuava a cantargli le ballate mentre, nelle calde primavere, sarchiavano il cotone.

Lei la cantava sempre, mentre legavano i tralci nuovi della vigna, o passavano tra le piante verde scuro raccogliendo i fiocchi grandi e bianchi del cotone nella lunga estate pugliese.

Altre diapositive, gli furono proiettate dal cervello, con quella colonna sonora e lui rivide la madre vestita di nero che cantava le stesse parole, ignaro del fatto che lei le cantava quando ripensava al marito che l’aveva lasciata vedova da poco. Sembrava quasi che le donne seguissero il ciclo delle stagioni per riportare alla mente alcune ballate: in primavera cantavano di Lucia, in estate le ballate delle giovani contadine in cerca di amori giovanili, nelle vendemmie e durante la raccolta del cotone c’erano i canti dei Briganti, storie che loro cantavano rappresentando quegli oscuri personaggi che i libri di storia citavano come sanguinari e feroci banditi. come eroi capaci di grandi imprese e che sempre le donne più belle del sud amavano al punto di seguirli nelle battaglie e diventare loro stesse Brigantesse ed eroine. Durante la raccolta delle olive invece si cantavano storie di tradimenti e gelosie tra mariti e mogli. Uxoricidi e vendette degli uomini traditi sugli amanti e sulle fedifraghe colte in fragrante. Quello era il modo in cui gli era arrivata, da bambino, la storia della gente dalla quale lui proveniva. Aveva imparato nei campi e intorno alle trebbie la storia di Nicola Morra e di Cicognitto, di Crocco e dei bastardi piemontesi. Lui ci credeva a quei testi delle canzoni della nonna come ad una bibbia, glielo confermavano anche i cantastorie che girvano i paesi con i loro manifesti disegnate a mano cantando delle geste epiche di valorosi capibande di briganti.

Ne parlò al telefono con il suo amico professore del paese. Appassionato ricercatore di storie antiche della loro frantumata comunità. Un giorno lo chiamò e gliela accennò, cantò quelle parole che era riuscito a ricordare fino ad allora, ma tanto bastò al suo amico per lasciarlo a bocca aperta. Di qualche anno più giovane di lui, non l’aveva mai sentita cantare, ma ne conosceva bene la storia.

“Come si chiama questa canzone?”

“Non lo so. La chiamavano ‘a canzone di Cenzinella.”

“Ma come Cenzinella...la canzone dice di una ... Lucia si chiamava era innocente...chi era quindi questa Cenzinella? E chi era questa Lucia?”

“Non lo so, non so niente di più, che poche parole di questa storia…” ll professore arricchì ’Ntoniuccio con i particolari che erano di sua conoscenza, anche se non chiariva molto di più di quello che lui già conosceva.

Antonio Fortinterra cominciò a cantare quella canzone continuamente anche se non riusciva ad intonarla bene dall’inizio.

Spesso era costretto a cominciare dal ritornello per poi tornare alle prime parole ma la canzone sembrava aver impregnato il suo cervello con la sua arietta e non c’era modo di toglierselo di mente.

………..

Tutto è finito tutto per noi è cambiato

da quando abbiamo ucciso il primo amore

Io maledico il giorno quando è stato…

…………….

Aveva la necessità di trovare quei benedetti fogli, sapeva benissimo che aveva guardato dappertutto ormai, ma era convinto che da qualche parte dovevano essere. Intanto cominciò a parlare di Cenzinella con qualche amico compaesano, questi però erano completamente ignari, nessuno sapeva come aiutarlo in quella ricerca, avevano più o meno la sua età ma non avevano mai sentito parlare di questa Cenzinella.

“Sei sicuro che sia successo davvero al paese? Magari era una leggenda.” gli dicevano quelli con cui parlava, dopo che erano stati incantati ad ascoltare questa sua storia così tragica e affascinante.

Ma nessuno pareva sapere o ricordare niente.

















































Capitolo settimo



S’alza la nebbia





















Al supermercato nuovo c’era l’inaugurazione. La mattinata si era presentata immersa in una nebbia bianchissima come l’ovatta che riduceva la vista a qualche decina di metri e molte casalinghe avevano forse per questo, mancato la festa programmata nel grosso centro commerciale. Intimidite da quelle folate di nuvole scese al livello delle strade. Poi però, appena il sole salì oltre la coltre che copriva Torino e scaldò un poco l’aria, quel cotone bianco si disciolse come per incanto, lasciando al suo posto una mattinata dolce e tiepida. Antonio era partito da casa presto, appena si era alzato ed ora, dopo qualche acquisto, se ne stava tornando.

Mentre risaliva verso Giaveno in macchina sulla strada del ritorno, a Trana, davanti ad una porta, proprio sulla salita, duecento metri prima del bivio di Avigliana, vide un vecchio compaesano che toglieva la polvere dal portoncino.

Un Lampo gli attraversò la mente, quell’uomo aveva oltre gli ottanta anni, poteva darsi che sapesse qualcosa. Aveva conosciuto quell’anziano concittadino tramite un nipote del suo ospite, suo amico, decise di fermarsi e vedere cosa potesse dirgli. Parcheggiò la sua auto a destra e scese per fare due chiacchiere. Il suono dell’antifurto che si inseriva con la chiusura centralizzata delle porte, fece voltare l’anziano sulla scaletta.

“ Mi scusi ma quel posteggio è privato! Deve togliere quella macchina da lì.” Il signor Chironti era fisicamente minuto, una vasta calvizie gli aveva lasciato poche tracce di capelli solo lungo i confini basso del cuoio capelluto, tagliati corti ed ordinati, come i baffetti alla Clark Gable scolpiti, retaggio dei tempi di una gioventù da conquistatore, che se pur lontana, il vecchio emigrante pugliese aveva cercato di prolungare e non l’aveva ancora del tutto dismessa, neppure dopo gli ottanta.

“ Buon giorno giovanotto” lo salutò Antonio, non ti ricordi di me?”

L’omino si tenne con una mano all’arcata metallica della scala e aguzzò lo sguardo per vedere meglio fuori, ma stava cercando nella memoria. Posò il pennello sul ripiano dell’ultimo gradino e scese, sempre guardando acutamente l’intruso, mise da parte la scala di alluminio e si avvicinò verso il nuovo venuto.

“No...Quello...mi scusi sa...le dicevo della macchina...Quello...tra un po’ arriva mio genero e deve parcheggiare…” Antonio Fortinterra sorrise dell’intercalare dell’uomo che ripeteva “quello” ogni due secondi, denunciando un suo stato di incertezza, capì che per quanto cercasse, il compaesano non poteva riconoscerlo e cercò di aiutarlo prima di tutto rassicurandolo riguardo al parcheggio, per il quale il suo amico si stava agitando e distraendo a causa della preoccupazione.

“ Bongiorn, song ‘Ntonio Fortinterra, n-n t r’curd d me?” La parlata dialettale disarmò immediatamente il grintoso zio del suo amico, il nuovo venuto gli aveva chiesto se si ricordava di lui, ma pareva proprio di no.

“ Parli il mio dialetto...tu sì paisèn mijh?” Un sorriso sostituì immediatamente lo sguardo accigliato dalla preoccupazione del suo parcheggio occupato da un forestiero “Sei di...un compaesano?...e chi sei? Tu mi devi scusare ma io non avevo intenzione…sai quel posto...Quello...se non faccio così è sempre occupato da altri e poi, quando viene mio figlio o mio genero, non trovano … e...”

“ Non ti devi scusare e non ti devi neppure preoccupare. Io vado via subito.”

“ Si si, ma volevo dire…Quello...”

“ Ti ho detto di non preoccuparti capisco. Mi sono fermato solo per farti una saluto.”

“ No, io volevo dirti che non ti avevo riconosciuto…Mò...ora tu pensi sempre al posto...L’ho capito che te ne vai subito...ma non è il caso...tanto ora loro sono al lavoro. Quello è stasera che tornano e non lo devono trovare occupato che ...Quello... poi non sa dove andare a parcheggiare”

“ Va bene, ma ora hai capito chi sono, ti ricordi di me?”

“Ehe-e-e certo che mi ricordo...quill...sei l’unico compaesano che abita qui vicino…” l’intercalare si tradusse simultaneamente in dialetto. L’omino sorrideva ma il suo intercalare faceva comprendere all’ospite che la tensione non si era ancora sciolta del tutto.

“ Non sono l’unico che sta su da queste parti. Ci sono almeno altri cinque sei nuclei familiari di nostri concittadini qui intorno...Ma non è di questo che dobbiamo parlare.” Antonio sorrise, il modo di fare del Chironti, gli ricordava il vecchio ebreo del film Il banco dei pegni.

“ Ah no no!..” Confermò l’ospite “ ...e di cosa sei venuto a parlare?” si accigliò poi, di nuovo preoccupato che il compaesano potesse essere un venditore ambulante o un rappresentante di chissà quale prodotto, mise le mani avanti “.Quill...sai, io qui non conto niente...Quello...non è che posso comprare qualcosa...fa tutto mia figlia…” sottolineò le distanze tornando alla lingua nazionale, sostituendo il confidenziale dialetto immediatamente.

“ Stai tranquillo, non sono un venditore porta a porta.”

“ No?...Ah, meno male, quill...vabbè, dimmi allora dimmi, di cosa mi vuoi parlare?”

“ Sai qualcosa di una vecchia canzone paesana, una canzone che parlava di una certa Lucia?”

“ Nooo…E io che ne so a che canzone ti riferisci?...No...non l’ho mai sentita. Quill...ce ne stavano tante...A quel tempo, quando uno combinava qualcosa, nel bene e nel male, qualcuno subito ti faceva una canzone...” Ora sorrideva l’anziano, si vedeva bene che stava ripescando vecchi ricordi “Quello...Anche se non facevi niente ti facevano la canzone.”

“Anche se non facevi niente, come mai?”

“No...quill...magari avevi una bella figlia, una sorella...e quelli ti facevano subito la canzone.”

“ Ah! C’erano tutti questi poeti in paese…”

“ A ufa ne aveva!” il modo di dire era antico dialetto del paese, il giovane neppure se lo ricordava più, ufa stava per sovrabbondanza-soprannumero. Sorrise a quella rimembranza.

“ Ma io mi riferivo solo alla canzone di Lucia.”

“ Cantamela un po’…” ‘Ntoniuccio accennò appena poche parole che sulle sottili labbra del suo ospite si disegno un sorriso, l’aveva già riconosciuta.

“ Hhhhh si certo...Ma questa la chiamavano la canzone di Cenzinella, non di Lucia...quella storia di quella ragazza...Si ma è una cosa di tanto tempo fa...tu sei giovane, come fai a conoscerla tu?”

“ ‘Mbehh...non sono poi tanto giovane, mezzo secolo fa c’ero anch’io..”

“Ehhhe! Quello...è successo un secolo fa!”

“ Ti ricordi l’anno?...Mi racconti?”

“ Era il...io avevo sette anni, ne ho ora ottantasei...che anno era? Quill...Fai tu il conto...”ogni tanto il suo intercalare si esprimeva in dialetto.

“ Di che classe sei tu?”

“ Del diciannove.”

“ Ah sei un coscritto di mia madre, se avevi sette anni doveva essere per forza il millenovecentoventisei...”

“ Ah, si, era il ventisei hai ragione...era del diciannove tua madre?” Chironti conosceva benissimo la madre, era una vecchia volpe intrigante, anche se non più tanto brillante per via dell’età. Sapeva tutto del paese e se lo ricordava molto bene.

“Si, ma parlami della canzone...Di Cenzinella dici? Ma allora perché dice: ...Lucia si chiamava, era innocente... Lucia ...chi era?

“ Ah, si! Lucia era...e sì...la ragazza che uccisero. Ehhh...quello...Vieni andiamo dentro. Ti faccio fare un caffè mentre ti racconto.”

Salirono al primo piano, dove una signora moldava stava facendo le pulizie, le chiese di fare un caffè al suo ospite e lo fece accomodare vicino al tavolo. Poi, senza che ci fosse più bisogno di chiederglielo, cominciò con un tono vivace ed emozionato il suo racconto.

“ Questa Lucia ..” disse, ”... era una bella ragazza di diciotto anni. La guagliola amoreggiava con un giovane del paese di qualche anno più vecchio di lei. Il ragazzo era il terzo maschio di una famiglia che aveva solo un figlia femmina della stessa età di Lucia e sei o sette figli maschi, quella sorella fu la causa di tutto. La famiglia...li chiamavano…”

“ I Cenz’nell.” suggerì l’ospite.

“ Ah sì...I Cenzìnell. Ma questo era un sopranome, il cognome era...Miri o Miro mi pare, no no... Miro ecco sì, si chiamavano proprio così, Miro. Quelli erano uhhh...tanti fratelli, accudivano gli animali in una fattoria, una masseria sul Fortore, sul fianco verso Serracapriola della Fiumara, lì c’era una masseria, la masseria del Rocchione, così la chiamavano...uno di questi fratelli faceva il porcaro in quella masseria, badava ai porci...si chiamava Vincenzo. Mentre il ragazzo fidanzato con Lucia era...anche lui si chiamava Antonio (come te).

In quel cavolo di paese tre su cinque ci chiamiamo Antonio.”

“ Ehh si...per via del santo patrono…Comunque…” continuò il racconto.

“...Quelli si incontravano di nascosto...Ehhhh...allora non era come oggi, non ti potevi avvicinare a una ragazza, prima ti dovevi fidanzare in casa…” l’uomo si lasciava facilmente trascinare dai ricordi che affioravano nella mente

“Perché lui era l’amico del cognato di lei, il marito della sorella maggiore, si chiamava Pasquale...Pasquale Torvino”. Chironti riprese un attimo il fiato “...Il padre e la sorella del giovanotto non volevano assolutamente sentire parlare di questo amore e volevano che il ragazzo interrompesse questo rapporto con Lucia, lui invece, ne era innamorato, così una sera, disse alla nipotina della giovane di andarla a chiamare che le doveva parlare.” si passò un dito sui baffi e continuò “...Si incontrò con la sua fidanzata in un stalletta vicino la casa della ragazza, lei abitava in una stradina stretta e buia del centro vecchio del paese, quel vicolo che si apre a destra della macelleria di Fascina e dopo un gomito finisce in via Umberto I, davanti al tabacchino. Hai capito?”

“Si, ho capito. Continua, ti prego.”

“ Si, ma bevi il caffè che quello si fredda...in quel vicolo, proprio nel gomito, c’era la stalla del mezzadro di Corlando, ci metteva il cavallo e d’inverno c’era un certo tepore, quel figlio di...se la portava lì a fare i suoi comodi…” il Fortinterra lo ascoltava rapito, mentre la sua mente annotava tutto, era come se stava prendendo la medicina contro quella febbre che lo teneva eccitato da parecchi giorni ormai. Non lo interruppe per paura che l’anziano scordasse il filo e divagasse.

“ ...e quella sera fece i suoi comodi e poi si portò via la ragazza, la portò via col cavallo del massaro e della ragazza non si seppe più niente!”

“ Ma come la portò via dal centro del paese, nessuno li vide?”

“ Il paese allora era poco e niente illuminato…”

“ Non c’erano le luci?”

Ehhhe… le luci...allora c’erano quattro lampade a gas agli angoli della piazza...solo al centro del paese...le luci...eppoi era quasi ancora inverno, la gente stava in casa e la sera poi...si stava intorno al braciere al caldo…dove volevi andare? Quill non c’era niente...che c’era in paese allora, niente c’era...a cantin Pompeo e quella di Pizzichillo...dove andavano a bere vino e ubriacarsi i nullafacenti...quello c’era.”

“E il cavallo? Nessuno sentì il rumore del cavallo, nessuno vide due persone sul cavallo?”

“Ma che vuoi che uno si meravigliasse se per strada passava un cavallo...allora c’era un cavallo in ogni casa...chi vuoi che si incuriosisse se passava un cavallo per strada…” Ntonio si rese conto che doveva fare uno sforzo per comprendere che il paese di un secolo prima non era quello che lui conosceva. “ ...Già dovette ammettere soprapensiero…” cercò di immaginare; un agglomerato di povere case con strade di terra appena fuori dalla piazza lastricata di pietra.

“ Mi ricordo che c’era un vecchio che faceva il lampionaro, andava accendendo le lampade a gas la sera…mi pare che fosse di Sannicandro...faceva anche l’arrotino...lo chiamavano ‘U molafruvece...” Chironti aveva ripreso ad inseguire i suoi pensieri.

Appena all’anziano veniva data l’occasione, il suo cervello inseguiva delle diramazioni dei ricordi che lo portavano lontano. Il Fortinterra lo riportava immediatamente al centro del suo interesse, anche se sentirgli raccontare di com’era il paese lo attirava molto.

“Ma non si vedeva dalle porte, dalle finestre, dai vetri insomma, se qualcuno passava davanti alle case con un cavallo, anche se era sera?”

“ Ma che dici? Nel millenovecentoventisei, non c’erano porte e finestre coi vetri...e chi li aveva? Le porte di legno impedivano di vedere fuori e chi ce le aveva le finestre...i ricchi, ai piani alti, ma sotto...sotto c’erano solo le stalle e comunque...il passaggio di un cavallo era cosa normale per le strade del paese, non suscitava nessuna curiosità. Le strade in terra battuta, che vuoi che si sentisse...insomma la ragazza sparì e non se ne seppe più niente.” Tirò un sospiro e si fermò a guardare il suo ospite che sembrava sofferente, addolorato.

“Ti prego coninua!” lo esortò ’Ntonuccio

“ La sera stessa il fidanzato si fece una capatina alla casa del suo amico, il marito della sorella di Lucia, e parlò anche con lei. La donna era preoccupata per sua sorella e gli chiese se l’avesse vista, ma lui si disse all’oscuro di dove fosse, quella però non era fessa e gli chiese: Ma insomma tu hai intenzioni serie o no? Ehhh...quello tergiversò sulla questione dicendo che a Serra c’era una donna innamorata di lui che gli avrebbe portato una dote di ventimila lire…” il signor Chironti si alzò un attimo, si scusò con un gesto e scomparve nell’altra stanza, chiese qualcosa alla donna che continuava a fare lavori di casa di là e tornò con un piatto con dei biscotti.

“ Prendi, mangia qualche biscotto…”

“ Ma siediti, cosa vuoi che me ne...riprendi il racconto.” si accorse che discutere sui biscotti rubava del tempo al racconto e si ammutolì.

“ Si si...ma che cos’hai…” Il vecchio si era completamente dimenticato del posteggio occupato, della scala col pennello fuori. Ormai era coinvolto dai suoi ricordi di infanzia e li stava raccontando con passione a quel suo compaesano che gli pareva malato di qualcosa, senza comprendere di cosa. Lo vide muto, poco disposto al dialogo, in attesa di sentirlo raccontare e si rassegnò. Spostò il vaso dal centro del tavolo rotondo, sistemò il piatto col tovagliolo ed i biscotti sulla tovaglia blu piena di fiori bianchi piccolissimi, si accomodò di nuovo dall’altra parte del tavolo, guardò il suo ospite senza comprendere bene quella sua sete di sapere una storia che ormai non ricordava di sicuro più nessuno, ma rinunciò a chiedere ancora una volta il motivo, tirò un bel fiato e riprese.

” ...le ventimila lire servivano alla famiglia Miro per dare la dote alla figlia femmina, per questo lei caldeggiava il matrimonio con la forestiera insieme al padre, che per quella figlia femmina stravedeva. La sorella di Lucia gli disse che anche lei aveva portato al marito una dote simile, pensava forse che la sorella minore non avesse dote? Il giovane chiuse la faccenda con una battuta oscura e se ne andò.”

“ Cosa disse di oscuro?” ‘Ntonuccio aveva deciso di non interrompere ma non voleva farsi scappare nessun particolare.

“ La sorella di Lucia ( si chiamava Gisella o...Ninetta...mi pare) pensava che i fidanzati avevano fatto la fuitina, come si usava allora, si metteva così tutti di fronte al fatto compiuto e si era costretti a far sposare i giovani. Quindi supponeva che il giovanotto avesse portato la ragazza da qualche parte per riportarla tra qualche giorno.”

“Quindi si sentiva abbastanza tranquilla, no?” L’anziano narratore tirò un po’ il fiato, mise a posto un angolo del centro tavola “ Quello...è ricamato a mano...mia moglie ( la buonanima...pace all’anima sua…),era una insegnante, ma appena tornava a casa...era sempre con l’ago in mano. Prendeva un pezzo di stoffa qualsiasi e ricamava...sempre...quella non l’ho vista mai una volta ferma...Ehhh.”

“Va bene, pace all’anima sua.” ripetè l’ospite “ ...ma lascia stare la poveretta dove si trova e continua a raccontare! La sorella di Lucia non doveva sentirsi tranquilla, visto che pensava alla fuitina?”

L’uomo sospirò e riprese il racconto da dove lo aveva lasciato, ‘Ntonuccio lo sapeva rimettere al punto in cui lui aveva deviato.

“Ehhh...così avrebbe dovuto essere. Ma tu le conosci le donne no?” un cenno con la testa assentì “ Ma che c’entra?”

“ E come che c’entra...quella si era fissata che si sentiva agitata (era molto attaccata alla sorella, specie da quando era morto il padre ed era rimasta la vecchia madre con una coda di orfanelle). Non mi ricordo quante ne aveva, ma erano cinque o sei;tutte femmine e…”

“Va bene, ma ti prego ritorna al racconto. Era convinta che fosse una fuitina, ma si sentiva agitata…”

“ Si. Diceva che aveva un brutto presentimento…Insomma lei la sorella la voleva subito a casa! Anche se pensava che quelli, qualche giorno dopo si sarebbero presentati a casa dai Miro per potersi poi sposare, ma intanto invitò il giovane: cammina va, vammi a riprendere mia sorella e portamela qua.”

“ E lui cosa rispose?” incalzò l’ospite.

“ ...e l’uomo aveva risposto con una sorta di oscuro indovinello: Ninetta, tua sorella la riporterà in bocca un cane. La poveretta non aveva capito il senso di quel suo dire ed era rimasta impressionata da quella immagine, non le era piaciuta ed era rimasta più preoccupata di prima. Da quando si era sposata, la sorella viveva più tempo con lei che con la vecchia madre.

Quando l’uomo si congedò, lei cercò prima di far capire al marito che il suo amico non la convinceva per niente anzi, le sue parole non le erano proprio piaciute. Poi, visto che il marito cercava solo di rassicurarla, corse dalla madre e la convinse ad andare, con lei, dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Dai carabinieri però ricevettero solo assicurazioni sul fatto che erano passate solo poche ore da quando la ragazza mancava ed era forte la possibilità che fosse nascosta da qualche parte col fidanzato. Anche loro erano convinti che quella fosse una fuitina. Dovevano lasciar passare qualche giorno prima di capire come si dovevano muovere, ma ora era troppo presto. E non avevano tutti i torti, perché Lucia era stata portata dal fidanzato alla masseria che ti ho detto prima, quella oltre la fiumara che chiamavano la masseria del Rocchione. La ragazza era felice di quella situazione, lui gli aveva promesso che tra un paio di giorni l’avrebbe riportata a casa e sposata, lei era al settimo cielo, amava il suo Amedeo e in quella masseria stava con il prossimo cognato Vincenzo, la moglie di Castelnuovo Dauno e i loro cinque figli. Si sentiva già in famiglia.

Era primavera e ormai, era passata da poco la Pasqua e la festa della Madonna del Ponte. Lei era lì vicino al santuario. Si vedeva già sposata, il giorno della festa del prossimo anno, a far baldoria sul prato con la famiglia e con la sorella e tutti gli altri del paese. E la felicità sembrava farla scoppiare, e così se ne stava tranquilla ad aspettare che il suo fidanzato tornasse dal paese.”

Mentre l’uomo raccontava, ‘Ntonuccio immaginò i campi di grano nella bassa valle del Fortore, conosceva bene il posto, ci era stato, da piccolo, a tagliare legna con il padre. La valle del Fortore diventava a primavera una grande coperta verde brillante, punteggiata del giallo dei fiorellini della senape selvatica e da grandi macchie di meravigliosi rossi papaveri. Immaginò che Lucia ne avesse sempre uno fresco tra i capelli e facesse piccole gite fino agli argini del fiume con le bambine del futuro cognato. A primavera inoltrata si respirava lungo il fiume il profumo delle piante della liquirizia, che cresceva in folte macchie di verde scuro, lungo gli argini sabbiosi. Lo disse al suo narratore.

“ Eh Eh! Proprio così sono quei campi a primavera...si capisce che lei, così giovane, contenta che si stava per sposare…facesse dei giochi coi bambini del cognato. Quello...a quei tempi le comitive dei ragazzi ci andavamo a piedi, passando tra le rovine, lungo le coppe a scavare per prendere la liquirizia…..”

“Vabbè...ma ogni volta mi devi raccontare cosa facevate voi? Parlami di Lucia”

“Quello...che non ti posso dire una oparola…Lucia si...Ma non si allontanava tanto dalla masseria, il fidanzato le aveva raccomandato di non farsi vedere, che una fuitina è una cosa segreta tra loro due. Gli altri non avrebbero dovuto conoscere il nascondiglio, se no si perde quella magia del loro segreto.”

“ E allora?”

“E allora...quella sera, quando lui tornò a casa e disse alla sua famiglia che lui aveva rapito la sua ragazza, la sorella lo assalì con la rabbia di una tigre, se lo voleva mangiare e istigò il padre contro il figlio. L’uomo, un burbero violento, grande e grosso, più abituato a domare animali selvatici che crescere figli. Prese il suo rampollo per il collo e lo attaccò al divisorio che divideva la casa, con un ceffone fece volare via il figlio che si ritrovò a terra con tutta la parete di legno: Tu hai combinato ’sto casino e tu te lo risolvi, lo minacciò!”

“ Io la porto qua e me la sposo!” tentò di imporsi il giovane. Il padre aveva ormai il sangue agli occhi “Tu qui non porti proprio nessuno! Quella puttana non la voglio vedere qui, e domani tu vai a Serra a firmare un contratto matrimoniale con Salvina, di al notaio che ti mando io.”

“ Ed io come faccio con Lucia?”

Il ragazzo voleva bene alla sua giovane fidanzata e non voleva cedere a quel matrimonio d’interesse combinato dal padre.

“Non hai ancora capito cosa ti ha detto papà?” La sorella era una jena con la bava alla bocca “… uccidila, fa quello che cavolo vuoi, falla a mille pezzi e gettala in un pozzo, nel fiume, ma non la devi neppure nominare più!” Chironti modulava le voci e la concitazione a seconda del personaggio, all’ospite pareva di assistere alla scena. Intanto il narratore riprese il suo racconto.

“Così mentre la giovane coltivava il suo sogno giocando tra i papaveri coi nipotini, il suo fidanzato era a Serra a firmare il contratto di matrimonio. Quando tornò da Serra si fermò col fratello maggiore che l’aveva accompagnato alla Rocchione, mentre Antonio andava a prendere la fidanzata, Michele nascose il cavallo ed il carro dietro una fratta, il giovane fece tenere i bambini dentro dalla cognata dicendogli di non farli uscire. Prese Lucia e fece una passeggiata verso la fiumara, una volta giunti là, dove c’era pure Vincenzo con i maiali e le mucche, cominciò a sbaciucchiare e coccolare la fidanzata, si stesero nel grano alto, dove erano più folti i papaveri e la senape ed in questa stupenda tavolozza di gialli, rossi e bianchi, su quello sfondo verde, Lucia fece l’amore per la prima volta con l’uomo che, tempo qualche giorno, sarebbe diventato suo marito per sempre.

La poveretta non poteva accorgersi che mentre lei stava navigando su cieli fantastici, nascosti dal grano, per terra due vermi stavano strisciando verso di loro, i fratelli del ragazzo, ambedue sposati e con sette figli il primo e cinque il secondo, si erano avvicinati a loro e prima che Antonio si togliesse da sopra la ragazza, le legarono i piedi e le mani con dei fasci del grano verde e la violentarono ripetutamente.”

“Cristo!” non era un’imprecazione. Dalle labbra del l’uomo era uscita come un’esortazione, come se in quel momento il figlio di Dio, avesse dovuto intervenire a fermare lo scempio che si andava svolgendo sotto i suoi occhi. “ ti chiedo scusa… continua per favore.” Il vecchio riprese.

“Dall’altro argine del fiume, molto più alto del grano, una donna stava passando sul tratturo. S’avvide di quello che stava succedendo e gridò: “Ohè disgraziati, cosa state facendo? Fermatevi!” Ma quelli si girarono minacciosi dicendole di andare via e stare zitta se non voleva fare la stessa fine. Poi, uno dei due che stava in quel momento sulla ragazza, per non farla gridare, le strinse le grosse mani intorno al collo e la uccise.”

Antonio Fortinterra aveva le lacrime agli occhi, la donna delle pulizie era andata via da poco ed in casa dell’anziano del suo paese c’era un silenzio pesante ora. Voleva sapere tutto di quella ragazza che da qualche mese lo tormentava, ma per quanto avesse intuito cosa le fosse successo, dal testo della canzone, il racconto di quell’uomo che a sette anni fu testimone diretto dell’accaduto lo aveva stravolto. Lo confessò al suo ospite e l’anziano annuì.

“ Questa storia stravolse tutto un paese, devi sentire ancora… Vuoi che smetta? Devi andare via?”

“ No no...se hai voglia continua, voglio sentire tutto… però dopo, ora posso andare un attimo in bagno?”

“ Certo ...ma devi scendere al piano di sotto, qui non è per gli ospiti.”

“Grazie.” scese le scale con le gambe pesanti. Non si era accorto di essere così teso mentre ascoltava il racconto. In bagno si accorse di avere un colore spaventoso, si sentiva bloccato e gli facevano male le mascelle. Mise i polsi sotto l’acqua fredda e sentì il sangue che riprendeva il circolo. Si rinfrescò gli occhi sciacquandosi la faccia poi risalì le scale.

“Grazie...ne avevo bisogno…”

“Che grazie...ne avevo bisogno anch’io. Sono andato qui.” il padrone di casa indicò la porta sul corridoio. “ Si, però è quasi ora di pranzo…ti fermi qui? “ Chiese senza grande convinzione.

“No no...continua, quando finisci mangi. Io vado via…”

“ Come vuoi...è ancora lunga però…”

“ E tu non perdere tempo, vai avanti.”

“Quei tre delinquenti, dopo aver commesso l’omicidio, non seppero più che fare...il più grande;Michele, prese il cavallo col carro e caricarono il cadavere della giovane lungo sul pianale poi, falciarono erba fresca par il cavallo e lo coprirono con quella e col carro pieno d’erba che ricopriva il corpo della povera ragazza, lui e Antonio tornarono in paese, mentre l’altro:Vincenzo, il guardiano dei porci, tornò al suo lavoro e alla masseria.”

“ Col cadavere della poveretta sotto l’erba? Ma questi non erano solo delle bestie, erano forse pazzi? Ma come portano il cadavere di Lucia in paese?”

“Noooo, quelli hanno fatto un casino…ma non erano pazzi…quelli hanno fatto di tutto per farsi dichiarare incapaci di intendere e volere, ma non ci sono tiusciti.”

“Volevano farsi dichiarare pazzi?”

“Sapevano che così avrebbero preso poca galera...hanno portato delle false testimonianze di loro amici per dire che erano solo dei poveri cretini...ma il giudice non gli diede retta...per niente proprio!.”

“ E poi?..” ormai Antonio Fortinterra aveva lo stomaco chiuso che premeva sotto la gola.

Il suo narratore riprese.

“ E poi... una volta arrivati in paese, tolsero il cavallo da sotto il carro e lo lasciarono davanti alla porta di casa, abitavano subito dopo l’arco della pescheria. Sai dov’è no?..”

Un muto cenno di assenso con la testa lo convinse ad andare avanti, il giovane era diventato bianco come un cencio, il suo stato febbrile sembrava tornato ed ora lo stava sfiancando.

“ La sera il fidanzato si fece vedere in piazza a passeggio con un suo amico, un macellaio del paese col quale erano in rapporti molto stretti, ad un certo punto, gli andò incontro il suo amico Pasquale Torvino, Il marito di Ninetta”. Lo sguardo interrogativo verso il suo ascoltatore ricevette un cenno di assenso, poteva continuare.

“ L’uomo non capiva come il suo amico potesse essere il responsabile della scomparsa della cognata, visto che lo vedeva passeggiare tranquillo in paese con l’amico. Per Antonio Miro fu facile convincere Pasquale del fatto che lui non sapeva niente di dove fosse finita Lucia, insinuò perfino che lei fosse andata a casa di un uomo sposato con cui pareva avesse una tresca. L’amico lo guardò allibito per quelle insinuazioni, ma non poté fare altro che tornare a casa dalla moglie senza sapere cosa altro fare. Ninetta però non voleva saperne di calmarsi, lei continuava a sostenere che sentiva che la sorella gliela avevano uccisa e non voleva sentire ragioni di aspettare.”

“ Ma quello con cui stava parlando Antonio Miro non ne sapeva niente?” ’Ntonuccio aveva l’urgenza e la commozione che gli stringevano la gola, come se coi suoi suggerimenti potesse ancora fare qualcosa per salvare la ragazza uccisa più di ottanta anni prima.

“ Non so...non possiamo dire di cosa stessero parlando quei due. Ti posso solo dire che quando ci fu il processo, quell’uomo era stato chiamato a testimoniare, ma lui non si presentò. Tre giorni prima era emigrato da qualche parte ma nessuno sapeva dove. Aveva lasciato la moglie e sette figli in paese, regalato via un negozio di macelleria e partito in tutta corsa.”

“ Partito...era scappato, non partito...il bastardo!”

“ Non lo sappiamo e non possiamo dirlo, anche se tutto il paese diceva proprio quello che dici tu.”

“ Beh, vai avanti per favore…” Il giovane sembrava rassegnarsi come se l’uomo fosse partito solo da poco, quasi che lui avesse potuto fermarlo se solo avesse capito prima le cose.

“ Beh la sera non si fece niente e neppure il giorno dopo, tutti si aspettavano di veder comparire da un momento all’altro la ragazza scomparsa. I due fratelli assassini invece, il mattino seguente si misero in moto molto prima dell’alba e ripreso il cammino col carretto dove tenevano nascosto il cadavere, si recarono al pozzo della chiusa Leccesi, appena fuori del paese, quella dietro la villa comunale...” si interruppe per verificare che il suo ospite avesse capito “...forse tu non sai dov’era, vero? Quella non c’è più da un sacco di tempo…”

“So benissimo dov’era, quando ero ragazzo io c’era ancora…ho cinquant’anni anni, non sono nato ieri.Vai avanti...”

“ Ah…’mbé sei giovane....allora...quegli scemi si fermarono vicino al grande pozzo e gettarono il cadavere della povera ragazza. Poi scaricarono l’erba che l’aveva ricoperta in una cunetta di fianco alla strada e se ne andarono al lavoro nei campi.

“ Cristo!” gli uscì dalle labbra secco come un chicco di grandine espulso da un colpo di tosse, Il vecchio si girò a guardarlo accigliato, quella era una casa timorata di Dio e il nome di Gesù sparato in quel modo non era una cosa delicata nei confronti dei padroni di casa.

” Scusami, non volevo...non era un’imprecazione anzi...Ma la gente non beveva l’acqua di quel pozzo…”

“Certo che sì!”

“...Che schifo!”

“Oh...ma a quel tempo ce n’erano di cadaveri nei pozzi…e chi poteva dire dove finivano tutte le persone scomparse? Solo ogni tanti anni( quando si puliva un pozzo) si ritrovavano le ossa di persone ed anche animali…ci buttavano dentro tanta di quella calce viva per disinfettare che l’acqua non si poteva bere per parecchie settimane...”

“Ma l’acqua?...Non puzzava l’acqua...non si sentiva il fetore?”

“Ehhh, a volte si, l’acqua si guastava, ma con tutta quella che tiravano fuori per abbeverare gli animali...dopo un po’ uno ci faceva l’abitudine al sapore dell’acqua e pensava che non era granché buona, ma…quella c’era...”

“ Madonna che tempi…” ‘Ntonio aveva perle di sudore sulla fonte e le mani sudate.

” Riprendi per favore.”

Chironti tirò un sospiro, come si ricaricasse pazienza ed energia e riprese dal punto interrotto. L’ anziano, una volta ripreso il filo, stava dimostrando una mente lucidissima sugli avvenimenti di tanti anni prima, pareva che i ricordi gli sfilassero davanti agli occhi come un film limpido. Muoveva gli occhi azzurri e scaltri. Come ne seguisse le immagini.

“...Lucia aveva un cagnolino che la seguiva dappertutto...quello...sembrava impazzito da quando la ragazza era sparita, non si ritirava più a casa, continuava a cercarla per il paese e la sera si era nascosto sotto il carro sotto l’arco della pescheria. Ehhh...quello aveva trovato la sua padrona, s’era accucciato sotto il carro e lì era stato tutta la notte.. Il mattino dopo, quando i due fratelli presero il carro lo cacciarono via, quello...all’alba tornò a casa da Ninetta...quella lo vide macchiato di sangue e pensando che il cane aveva litigato con altri animali lo lavò. Ma quando lo ebbe asciugato, si accorse che il cane non era ferito e cominciò a gridare che quello era il sangue della sorella.”

“ ma Lucia non era stata soffocata?”

“Si...ma...quella si era ferita sulle tavole del carro e...il sangue colava dalle tavole...qualche goccia, mica chissà cosa…”

“ E proprio quello si era messo sotto il carro…che se non ci fosse stato il cane, quello...il sangue si sarebbe visto per terra,sulle pietre...ma non c’era niente...”

“ E lei l’aveva lavato...aveva lavato il sangue della sorella…”

“...Ahhh ragazzo, quella aveva capito tutto...poi Gisella e la vecchia madre, non aspettarono un minuto. Passarono tutta la giornata in caserma cercando di convincere i carabinieri ad intervenire, ma non riuscirono ad ottenere niente, quelli erano convinti della fuitina della ragazza. Alla fine (ormai il cielo andava scurendo) si recarono dal cugino della madre, zio in seconda di Lucia.

“ Chi era questo “ chiese ‘Ntonio. Ogni tanto il racconto dello vecchietto, si arricchiva di una nuova figura e lui doveva incassellarlo in quel puzzle disarticolato dai tanti anni passati.

“ Non so se lo conosci...quello era già di una certa età allora...tu ti ricordi di Collerosso?”

“ Chi...quello con il negozio di…”

“Sì, proprio quello col negozio di fronte al Mulino ...quello che aveva sempre i caciocavalli appesi fuori. Te lo ricordi?

“ Si, certo…” come distaccato per un momento Antonio mise a posto il nuovo arrivato e si concesse un sospiro “Ho capito…”

“ Il padre del negoziante era da anni il comandante delle guardie campestri del paese e, le due donne, riuscirono ad ottenere il suo intervento presso la caserma dei carabinieri. Il mattino dopo il maresciallo finì col cedere alle insistenze dell’amico e consentì a mandare una coppia di carabinieri con il carro da cacciatori, fino alla masseria del Rocchione. Forte della sua amicizia coi militi, anche allo zio fu consentito di andare a cercare la nipote. Alla masseria. Sai dove si trova?

“ Si”

” ...e però non trovarono nessun altro che il porcaro e la sua famiglia. Vincenzo Miro affermò con forza che lui non sapeva niente della ragazza, non l’aveva vista per niente, ma una delle bambine disse che lei aveva giocato la mattina prima con la zia, poi era venuto zio Antonio a prenderla. Ma Vincenzo, dopo aver lanciato una occhiata che aveva ammutolita la bambina, continuava a dire che era una donna di Serra che lo zio aveva portato, probabilmente la sua fidanzata, ma di Lucia lui non ne sapeva niente. I due carabinieri (erano due giovani del nord, uno era Trentino e uno...non so di dove, mi pare fosse di Faenza...) si fecero convincere dalla guardia campestre (...quello era una autorità in paese...aveva due baffoni alla Vittorio ’Manuele…) a condurre il porcaro in caserma e, lungo il viaggio verso il paese, fecero finta di non accorgersi che il comandante delle guardie campestri continuava ad intimidire il sospettato con la possibilità di un grave reato se non confessava. Ad un certo punto gli tese la trappola: disse che i suoi fratelli; Antonio e Michele, avevano già detto tutto, che Lucia l’aveva uccisa lui.

Gli diceva pensaci, pensa ai tuoi bambini, hai cinque figli piccoli, tua moglie...come fai tu, tu finisci in galera a vita e loro si salvano.

Lo zio di Lucia non aveva dato all’uomo un secondo per riflettere, ma ora si andava convincendo che non avrebbe ottenuto nessun risultato poi, proprio quando stavano arrivando al paese e il capo delle guardie campestri aveva ormai perso la speranza di cavare un ragno dal buco, il porcaro scoppiò a piangere e confessò l’omicidio.

Disse che non era stato lui ad ucciderla, ma spiegò tra le lacrime come fosse avvenuto. Disse tutto tutto, anche della violenza carnale e del fatto che i due, Antonio e Michele avevano portato via il cadavere e che lui però non sapeva dove l’avessero nascosto.

Chironti continuò: “Nel paese, dove la voce dell’arresto li aveva preceduti, la gente si era riversata fuori dalle case ed ora il calesse dei carabinieri era costretto a rallentare attraversando un fiume di persone di tutte le età che tentavano di dare l’assalto al carro e di mettere la mani addosso al disgraziato. Il percorso fino alla caserma fu un vero calvario…” il vecchio sorrise al ricordo che gli si schiariva sempre di più, come se rivedesse la scena ”...C’era tutto il paese! Quello...uno degli zii della ragazza (il fratello della guardia campestre) mi diede un calcio nel sedere…”

“Peché?”

“...Ehh perché... perché quello... io gli stavo tra i piedi e lui voleva assaltare il carro...E mentre correva verso il carro, era inciampato su di me. Quello sembrava fuori dalla grazia di Dio...una furia… I Collerosso erano tutti rossi, lentigginosi di pelle e avevano i capelli come fili di rame, agitato come era, quello era diventato come un tizzone...faceva paura. Io avevo sette anni, che volevi...ero curioso, volevo vedere il porcaro, che...quello non smise un attimo di piangere. Era Terrorizzato!

Lì non si capiva niente...le grida delle donne, i giovani...e dai tentativi dei parenti di Lucia di mettergli le mani addosso, fu un brutto quarto d’ora per lui...per lui e per tutto il paese.” disse con aria mesta.

“ Quando finalmente fu al chiuso, nella cella di sicurezza della caserma, l’uomo smise di piangere. Poi terminò la sua confessione.”

“Disse tutto?”

Disse tutto….disse tutto quello che lui sapeva. D’altronde, dove fosse il corpo della ragazza, quel disgraziato non lo sapeva davvero. I militi dovettero fare non pochi sforzi per impedire allo zio della ragazza di uccidere quel disgraziato con le sue mani.”

“ Avrebbero dovuto lasciarlo fare…”

“ Ehhh...quello lo avrebbe ucciso davvero. Chiunque lo avrebbe ucciso in quel momento.”

“ Dovevano consegnarlo alle donne.”

“ Oddio...quelle lo avrebbero lapidato!”

“Avrebbe dovuto andare proprio così!”

Il sole si era girato e si andava nascondendo dietro i castani che circondavano il campanile del Santuario di rana. Le ombre della collina cominciarono a regalare un poco di frescura. La giornata stava volgendo al crepuscolo. Antonio si rese conto che era meglio se avesse lasciato raccontare senza interrompere continuamente il suo amico.

“Poi?”

“ Una volta messo in cella Vincenzo, i carabinieri si recarono a casa dei Miro per cercare gli altri due fratelli. Gli uomini però non c’erano, al loro posto trovarono la figlia femmina che era un vipera, gridò un sacco di improperi contro i militi. Ignara della confessione del fratello assalì i gendarmi a male parole e maledizioni, gli disse che quella ragazza era un poco di buono e chissà nel letto di quale uomo del paese si era ficcata. Che se le avessero fatta la pelle per lei se l’era andata a cercare. I carabinieri le avrebbero volentieri chiuso il cielo fuori da una cella anche a lei, ma la signorina era ancora minorenne e loro non poterono dar corso alla loro voglia. Michele e Antonio intanto, dopo aver gettato la ragazza nel pozzo, se ne erano andati in campagna a lavorare la vigna, in contrada Pietre cipolle, (un posto che era il grato secco di un torrente asciutto pieno di pietre tonde e bianche come ossa sbiancate dal sole).

Tornarono la sera tardi e quando furono a casa, informati del fatto che erano venuti a cercarli i carabinieri, dissero di non temerli affatto, che loro non ne sapevano niente e potevano stare tranquilli, i due assassini erano all’oscuro del fatto che i carabinieri avevano preso il fratello e che questi aveva confessato, i gendarmi intanto si erano convinti che avevano ragione la sorella e la madre della ragazza. Dovevano chiamare i sommozzatori per ispezionare i pozzi del paese, ma da quale avrebbero dovuto cominciare? Le case del paese avevano quasi tutte un pozzo interno e tutto intorno al paese stesso, le campagne erano piene di cisterne per la raccolta delle acque. Le masserie poi ne avevano di quelli molto grandi e profondi da dove cominciare quindi? “

Antonio rimase in silenzio come sfinito, ormai arreso al dolore di una constatazione di morte che solo il ritrovamento del cadavere poteva dargli. Come se non avesse ancora la certezza (quasi un secolo dopo) della crudele morta di Lucia.

“ ...I Carabinieri passarono tutta la giornata seguente alla ricerca di qualche traccia da seguire, vennero anche i militi dei paesi vicini, cercarono tutto il giorno, ma senza trovare il cadavere e senza il cadavere, non avrebbero potuto eseguire l’arresto dei due accusati solo dalla confessione del fratello, se si fosse rimangiato le parole dette non avrebbero potuto trattenerli in cella.

Il mattino dopo però, i militari furono allértati ben presto dal comandante delle guardie campestri, il quale aveva chiesto a tutti i suoi subalterni di fare un giro di ispezione appena si sarebbero alzate le prime luci dell’alba.

Una delle guardie scoprì un carico di erba falciata per le bestie, gettata proprio vicino ad un pozzo, appena fuori del paese, nella aia chiusa di una fattoria abbandonata che veniva usata solo d’estate per trebbiare il grano.

Quell’erba era strana, non sembrava crescere in quel posto pieno di cardi, di fratte di ginestre e di canneti. Chiamarono immediatamente i sommozzatori dell’arma e li guidarono a quel pozzo.

Come doveva essere, trovarono il cadavere della ragazza e mentre i sommozzatori dei pompieri lo tiravano fuori dalla cisterna, i carabinieri si recarono a casa dei Miro, sotto l’arco della pescheria, e li arrestarono.”

L’anziano andava avanti per sommi capi ormai, l’ora di pranzo era stata superata e i due non avevano più molte energie da spendere su una storia che sembrava concludersi col ritrovamento del corpo della ragazza. Il racconto diventava più scarno ma per Antonio Fortinterra conservava ancora tante sorprese, il suo ospite riprese .

“...La gente del paese aveva saputo della cosa e si era radunata tutta sulla piazza, intorno alla fosse comunali del grano. Avevano il fuoco negli occhi ed aspettavano di poter vedere portar via i due assassini. Il fatto che avessero violentata la ragazza, specie per il più grande dei due, Michele, sposato e con sette figli (i primi quasi coetanei della povera fanciulla) li aveva resi furiosi, li volevano uccidere loro stessi, con le loro mani.

E lo avrebbero fatto davvero! “ sorrideva cinico mentre lo diceva, si capiva che ci credeva ancora oggi alla determinazione dei suoi concittadini. Continuò senza bisogno di incoraggiamenti.

“I carabinieri capirono che non fossero riusciti a proteggere i due assassini fino alla caserma, i paesani li avrebbero fatti a pezzi.

Per arrivare in caserma, avrebbero dovuto per forza attraversare la piazza. Allora chiamarono il custode del macello del paese, legarono il cavallo al carro col quale i macellai trasportavano le bestie da macellare e la carne alle macellerie e lo portarono davanti alla casa dei Miro, poi fecero li fecero salire sul rimorchio insieme al padre (accusato di aver indotto i figli all’assassinio e di complicità nella loro copertura dopo l’omicidio) e li portarono in caserma.

Per quanto difesi dalle pareti che chiudevano il carro del carro, i tre furono maltrattati da qualsiasi cittadino del paese, specie dalle donne. Perfino i famigliari della moglie di Michele erano tra la gente a gridare la fame di vendetta.

Gli tirarono sassi, sputi, calci e cazzotti, gli graffiarono la faccia e gli morsero le mani, i due tremavano davvero per la loro sorte. La moglie quella...Funzenella...maledì il marito per aver trascinata tutta la famiglia nella vergogna e alla rovina, fece lo stesso con i figli, nel vederli trasportare via con la certezza di quella accusa, li maledisse e gli gridò piangendo che non avrebbe mai voluto partorire animali così, che loro non avrebbero mai più uscire di prigione e se fossero scampati alla galera non si osassero mai più tornare a casa.”

Antonio si sentiva smunto. Aveva ascoltato inorridito il racconto fino al ritrovamento del cadavere della ragazza, ora stringeva i pugni e le mascelle come se stesse in piazza in mezzo agli altri, pronto a colpire quei delinquenti con la stessa rabbia di tutti i suoi concittadini.

Era sicuro di come si dovevano sentire i suoi compaesani in quel momento.

Quella tragedia li aveva sconvolti tutti, offesi fino in fondo all’anima.

La brutalità di tre uomini, due dei quali sposati con figlie dell’età della giovane violentata ed uccisa praticamente dall’intera famiglia, poiché la fine di quella ragazza era stata pianificata in casa, e i lupi avevano agito in branco contro un agnello innocente, al quale era stato fatto credere che era partita per coronare il suo sogno.

La gente del paese si era sentita tradita come fossero una persona sola!”

L’anziano Ghironti, sorseggiò un poco d’acqua da un bicchiere, ne porse uno anche al suo ospite, Antonio lo guardò per un lungo attimo, con lo sguardo perso nel vuoto poi lo prese come fosse intontito. Lo portò alle labbra come un automa, solo quando l’acqua gli scivolò fresca in gola, si accorse che le labbra erano dure e la gola, arida, bruciava.

Le tempie erano perlate di sudore freddo.

“ Come è finita? “

“Ragazzo ma tu stai male, sei sicuro che questa storia, morta e seppellita un secolo fa tu devi per forza saperla tutta?”

“ Già, proprio così: per forza . Ho cinquant’anni e continui a chiamarmi ragazzo?”

“ io ne ho ottantatre...tu sei un ragazzo...e allora che ti devo dire ancora?”

“ La gente che li assediava, ti ricordi se c’era tanta gente, se c’era qualcuno schierato dalla loro parte? Chi c’era?Ti ricordi qualcosa che è successo in quel trambusto?”

“ Ehhhe, che vuoi che ti devo dire...avevo solo sette anni, mi ero ficcato tra le gambe della gente per vedere. Lo zio di Lucia, Collerosso, quello che aveva un negozio sulla via Mucedola, mi ha preso e mandato via perché voleva arrivare al carro, li voleva uccidere colle sue mani…la gente...c’era tutto il paese, tutto! Le donne i bambini. Le donne se li volevano mangiare se li volevano. Poi avessi visto al processo...la fine del mondo…”

“Sono stati condannati?”

“Eccome se sono stati condannati, hanno dato l’ergastolo a i figli e vent’anni al padre.” tacquero entrambi esausti. Dopo un minuto interminabile Antonio realizzò che il racconto era finito.

“ Sono usciti di prigione?”

“No, questo io non lo so, quando io sono emigrato dal paese quelli stavano ancora in prigione, dopo qualche anno, qualcuno di loro era pure morto, non so chi…l’ho saputo quando tornavo in ferie al paese...poi non ho più saputo niente. Se non venivi tu fuori con questa storia, neppure me la ricordavo più. Ma tu, a te come ti è venuta in mente questa cosa? Che sei parente di Lucia? Ho visto che ingoiavi le lacrime...che cavolo quello è successo quasi un secolo fa…”

“ Era il millenovecentoventisei…ottanta anni fa.” Antonio Fortinterra si era alzato e stava per congedarsi “...era il venticinque di aprile...Tu sai dove é finita la famiglia di Lucia?”

“Ehhh quella era una famiglia grande imparentata con altre famiglie grandi, erano una marea di figli, una di persone erano...poi c’è stata l’emigrazione, siamo andati via tutti…”

“Anche loro?”

“Che ne so io? Io suppongo di sì...si partiva tutti allora...ma io sono partito uno dei primi dal paese, dopo di me non posso sapere cosa avvenne. “

“ E quando tornasti?”

“ Quando tornai...dopo tanti anni, io non trovai mai più nessuno di questi. Non ho mai più sentito parlare di loro.”

“Pensi che siano partiti?”

“Certo anche loro, come tutti, prima di tutti!”

“ E tu sai dove possono essere andati?”

“ E dove vuoi che siano andati? Qui! A Torino!”

Antonio sembrò svegliarsi d’un botto, una sferzata sulla schiena avrebbe ottenuto sicuramente un effetto più blando.

“ La famiglia di Lucia é qui a Torino?”

“ La famiglia di Lucia e la famiglia di chi l’ha uccisa!”

“ Anche i Miro sono qui a Torino? Pazzesco!”

“ Quello…” prese fiato come se un nodo alla gola le impedisse di proseguire un percorso doloroso.

“...quando siamo emigrati, tutti qua a Torino venivamo dal paese, riempivamo il treno che saliva dal sud, tutti a lavorare alla Fiat, poi qualcuno s’è spostato da altre parti, ma prima tutti qui eravamo. Tutti intorno alla Fiat.”

“ Dove li posso trovare, dove devo cercare?” si erano mossi lentamente, continuando a parlare ed ora erano sulla porta, la mano tesa, pronta per salutarsi.”

“Ehhh...Dove li vuoi trovare, avevo sette anni io e loro avevano figli più grandi di me, saranno morti da tempo…”

Antonio salutò il vecchio compaesano chiedendogli scusa per il tempo che gli aveva fatto perdere.

Davanti al portoncino dell’ingresso c’era ancora la scala col pennello appoggiato sul gradino.

“ Non te l’hanno nemmeno rubato.” scherzò l’uomo col suo anziano amico.

“ Sehhh, stai fresco...sono attrezzi di lavoro...chi te li ruba?” Il vecchio volpone aveva di nuovo il ghigno da faina, da marinaio di lungo corso che ne aveva viste di tutti i colori nella vita, quel ghigno lo aveva difeso da un sacco di temporali.

“ Ciao guaglione, vienimi a trovare quando vuoi. Mi fa piacere se mi vieni a trovare.”

“ Si, tornerò a trovarti presto. E parcheggerò lontano, non temere per il tuo parcheggio.” Scherzò.

Salvatore Chironti si aspettava la sottile battuta sulla difesa del suo spazio con la quale aveva accolto il compaesano, salutò con una mano senza rispondere, sorrise al suo ospite, e ondeggiò la mano in un cenno eloquente che lo invitava ad andare scherzosamente al suo paese.

Lungo la strada, ‘Ntoniuccio si ritrovò a cercare di cantare la Canzone di Lucia, così l’aveva ribattezzata. La canzone gli ritornò sulle labbra con un filo di voce e lui se ne accorse solo dopo che le parole, automaticamente gli vennero fuori con voce più alta, capì che le stava cantando solo quando l’abitacolo della macchina gliele restituì alle orecchie in modo cosciente. Si rese conto di essere stato come in un stato incosciente fino a quell’istante.

Tutto é f’inito, tutto per noi é cambiato

da quando abbiamo ucciso il primo amore

io maledico il giorno quando è stato

e Dio non mi perdona questo pensiero

addio Lucia addio muoio in galera…

Trasalì spaventato, un brivido lo fece ritornare in sè, come aveva guidato in quello stato?

Non si ricordava niente della strada percorsa, non sapeva se era passato col rosso al semaforo, sperò di non averlo fatto, non ricordava suoni di clackson di protesta, ma questo non significava niente. Un lampo gelido gli attraverso la schiena e le mani diventarono appiccicose sul volante mentre gli tornava quel sudore freddo sulla fronte. La canzone continuava ad uscirgli da sola dalle labbra secche, mentre lui sapeva che la sua mente stava pregando.

Non aveva mai pregato coscientemente, la sua convinzione era che fosse completamente ateo, ma da un po’ di tempo si ritrovava a rivolgere delle preghiere molto sentite, senza sapere a chi si stesse rivolgendo. Quando una volta ci aveva pensato, gli sembrò di scrivere delle lettere e non sapendo a che indirizzo spedirle, di metterle in un baule in una soffitta segreta del cuore.

Sorrise di sé sentendosi un poco scemo.

Gli sembrava che quel muro fortificato a difesa del ragazzo ramingo che aveva passato una vita da solo, senza poter concedere a se stesso momenti di rilassamento, costretto com’era a non cedere al nemico.

Ma quale nemico lo stava assalendo che l’aveva costretto ad erigere una così massiccia difesa? Era riuscito nell’intento? O quel muro lo aveva semplicemente tenuto prigioniero, isolandolo dagli altri e da Dio, per tutti quegli anni?

Ora si accorgeva dello sbriciolamento della grande massicciata, in un posto che non era stato tenuto sotto l’occhio vigile della sua coscienza, un angolo del terreno si era mosso e molte pietre erano rotolate via aprendo una falla.

Era strano ma dall’interno della sua roccaforte, attraverso quella breccia, poteva vedere un prato ordinato, l’erba rasa, come se un giardiniere capace se ne stesse prendendo cura. Era d’un verde splendido, pulito e trapuntato di tante margheritine bianche e primule d’un viola cosi morbido che sembrava velluto. Il prato al di là del muro sembrava inondato di sole, mentre l’interno della sua fortezza era terra battuta, grigia, polverosa e arida, dura e consumata dai passaggi delle sentinelle di guardia. Ma chi aveva montato quei turni di guardia, se lui dentro quel maniero era sempre stato da solo? Era sicuro che non ci fossero altri? Ma si, ma certo che non c’era nessuno, era solo da sempre, questo lo sapeva.

Periodicamente aveva ricevuto delle visite, aveva la sensazione di aver passato anche momenti di allegre gozzoviglie, di scorribande di amici che, come una rimpatriata di pirati, avevano passato delle serate concedendosi copiose libagioni, cantando tutta la serata vecchi canti di battaglie sessantottine.

Ma appena si spegneva l’eco di quelle serate di sbronza, il silenzio della sua prigione lo aveva avvolto isolandolo di nuovo dal mondo. Era lo stesso quando a venirlo a trovare era qualche nuova avventura amorosa.

Appena saziata la solitudine del corpo con lunghe estenuanti battaglie di letto, alla fine restava da solo nelle lenzuola sudate che gli si freddavano addosso velocemente.

Poi però trovò strano essere finito in quei pensieri, come ci era arrivato? Non stava cantando Lucia?

Cercò di risalire la china riavvolgendo il nastro della memoria seguendo i suoi pensieri a ritroso, si ritrovò con una lettera in mano.

Ne riconobbe la caligrafìa, era la sua, ma a chi la doveva mandare? Ecco era arrivato all’origine di quella similitudine che l’aveva rapito, la preghiera che non sapeva a chi rivolgere. Si diede dello stupido. Stupido da molto più tempo, di quanto non ne fosse cosciente. Si rese conto che aveva scritto tante di quelle lettere da tanto tempo, da averne un baule immaginario quasi pieno dentro il suo cuore.Sorrise di sé. Si chiese perché mai l’avesse fatto, quello per lui era un terreno minato, territorio altrui, come lo aveva sempre definito, che c’entrava lui su quella strada? Ma poi, proprio mentre si stava ripromettendo di riparare quella breccia nel suo muro, si disse che sì, insomma, anche le e-mail che scriveva ad amici, lui le spediva dal suo computer senza sapere come succedeva, ma dall’altra parte quello a cui la indirizzava, inspiegabilmente, la riceveva, forse sarebbe stato così per quelle sue preghiere senza un indirizzo preciso a cui spedirle. Sorrise di nuovo, le pietre che aveva pronte per riparare la sua difesa gli caddero dalle mani, si arrese.

Non aveva capito neppure come fosse successo che Lucia si fosse impadronito di lui, attraverso quali strade fosse giunta nella sua testa e nel suo cuore, ma sentiva che riparare quel muro significava chiudere fuori anche lei e questo pensiero lo bloccò. Non avrebbe mai accettato di cacciare da sé quella ragazza che lo aveva cercato e scelto, decise che avrebbe lasciato quella breccia aperta in lui, in modo che il nuovo, quello che doveva arrivare, la vita, potesse raggiungerlo a suo piacere.

Non comprese come fosse avvenuto, non si era minimamente concentrato alla guida, ma ormai era nella curva del vecchio mulino ad acqua del suo paese, a trecento metri dalla sua borgata, dove la sua casa dipinta di giallo, di cui intravedeva i muri e il tetto, si rivelava da lontano tra le foglie dei faggi e i frassini. La strada era uno stupendo tunnel tra il verde dei prati coltivati a fieno e i rami penduli degli alberi. Quell’andare della stradina di campagna, seguendo le dolci curve dei crinali che seguivano sui fianchi le cunette colme d’acqua che scendeva dal Colle del Ferro, lo rilassò come ogni volta. L’acqua saltava e cantava allegra nei balzelli sui grossi massi che la costringevano immobili a gorgogliare tra loro.

Il volto ancora tirato col quale arrivò a casa, fece un po’ preoccupare la moglie, alla quale però bastò ascoltare per grandi linee, quello che aveva saputo il marito di Lucia, per commuoversi e sbiancare in volto anche lei.

“ Dio mio che animali! Povera ragazza. Cosa farai ora?”

“Devo trovare quei benedetti fogli, da qualche parte devono pur nascondersi!”

“ A cosa ti possono servire ormai quei fogli, sai tutto di Lucia ora, la canzone, le parole, tutto com’è che è andata la sua triste storia, cos’altro possono darti quei fogli?”

“Erano importanti per il professore di musica, me li affidati, non posso averli buttati via.”

“ Saranno nascosti in qualche posto per te sicuro, che ora non ricordi più, non fai sempre così? Vedrai che prima o poi verranno fuori.”

“ Quando?”

“ Quando avranno deciso di farsi trovare da te.”

“ Hhhhum...hanno una volontà loro?

“ Certo che ce l’hanno. Quando avranno deciso che è il momento usciranno fuori. Te li devi meritare...” La moglie di Antonio era fatalista. Fortemente credente, al contrario del marito, aveva sempre creduto che qualcosa di magico, un inafferrabile segreto, dominasse il tutto e combinava tra di loro le cose.

Lui rinunciò a cercare i fogli ora, era quasi ora di cena ormai. La donna stava già armeggiando in cucina.

“ Cosa dobbiamo preparare? C’è anche il ragazzo stasera?”

“ Certo che c’è, è giovedì, lo sai che c’è!” era stanco“...non so più nemmeno che giorno è, giovedì... Di già?” poi guardando nel vuoto davanti a lui chiese di nuovo “ cosa facciamo per cena?”

“ Non so, vuoi che vi faccia la pizza?

“ Noo! La pizza la facciamo sabato sera che viene a vedere le partite...lascia perdere la cucina tu, ci penso io.”

“ Sei sicuro? Sembri così...stanco. ”

“ No...va tutto bene, mi servirà a distrarmi…”

“ Come vuoi tu, io allora, vado a stirarmi un po’ di divise e delle tue camicie.”

“ Hhhh...va bene.”

La storia di Lucia aveva complicato non poco la sua vita e lui passava buona parte del giorno a cercare quei documenti bizzosi e buona parte della notte a prendere nota di ogni notizia che trovava su internet. Cercava i compaesani emigranti e ricostruiva i rapporti familiari per riuscire a capire in che modo risalire a Lucia.

Quella sera era arrivato ad individuare un gruppo di gente col cognome dei Miro, ma pareva che nessuno venisse dal suo paese, molti di loro, avevano detto al telefono di essere originari di Ancona, altri dicevano di provenire dalla Ciociaria, altri da vicino Salerno, nessuno di loro sembrava conoscere il suo paese nativo. Non era però ancora riuscito a trovare tracce della famiglia di Lucia. All’ora di andare a letto dovette arrendersi. Non aveva neppure un filo da seguire.

Il vento forte che scendeva dalle Alpi, muggiva tra i rami degli ontani e dei salici sul Sangone e il rumore arrivava fino a loro, attraverso le finestre che davano sul lato destro del fiume, appena ovattato e reso più cupo dalla distanza. Quel lugubre latrato notturno sembrava la colonna sonora dei suoi pensieri. Si addormentò senza accorgersene.



































































Capitolo ottavo





Ecco il tesoro



















Il sonno indotto dai farmaci lo faceva addormentare appena posava la testa sul cuscino. Sfogava il suo sonno più profondo in quattro/cinque ore al massimo, poi si svegliava ed era subito lucido. Negli ultimi anni di lavoro, aveva svolto un turno impossibile per ogni altro, ma lui non riusciva a dormire oltre le tre di notte ed il suo turno che iniziava alle quattro e venti, gli sembrava ideale per uno che non avrebbe mai accettato di rinunciare ad assistere al magico momento del sorgere del sole. Era estasiato dall’alba, quello spettacolo, qualsiasi fosse il vestito che il cielo avesse indossato, ogni mattino aveva su di lui, il potere di appagarlo di qualsiasi sacrificio. Anche ora, con gli anni molto avanti e con le energie che necessitavano di un più lungo riposo per ricaricarsi, lui non riusciva a non svegliarsi prima dell’alba per assistere a quello miracolo che, per quanto fosse una replica quotidiana, era diverso ogni giorno. Alle quattro meno un quarto si rigirò nel letto, si alzò per andare in bagno e, prima ancora che ne facesse ritorno sentì di nuovo quella febbre dei giorni passati, che l’assaliva. D’un tratto gli fu tutto chiaro! Come aveva fatto a non pensarci prima? Benedetto il signor Chironti e la sua bella età. Aveva avuto un bel colpo di fortuna ad incontrarlo. Però accidenti, ora era notte fonda e lui avrebbe dovuto aspettare che aprissero gli uffici per poter verificare la sua intuizione. Come poteva dormire più? Questo pensiero gli sembrò immediatamente fuori luogo, accese il suo computer portatile, rabbonì la povera moglie che protestava per quello sciagurato che la svegliava tutte le notti a quell’ora, si ricacciò seduto sotto le coperte e si collegò a internet. Dopo mezz’ora aveva salvato tutti i file riguardanti i cognomi della famiglia di Lucia e quelli dei Miro residenti in Torino e Provincia.

Poi passò al setaccio i file riguardanti i vari cimiteri della provincia e del capoluogo piemontese, si appuntò ogni numero di telefono utile, dopodiché aspettò che gli uffici aprissero.

Ora aveva un filo da seguire. Quell’incredibile intrigo gli aveva rapito dal sonno per molte delle notti degli ultimi mesi, lo aveva ubriacato pian piano, ma non gli aveva mai dato possibilità riprendersi, da quello stato febbrile che lo spingeva verso la ricerca di ogni particolare, lo condannava a percorrere una strada non scelta, lo faceva sentire preda di una volontà non sua ed ora, gli sembrava che in realtà lui non aveva cercato niente, qualcos’altro o qualcun’altro, lo aveva spinto ad andare avanti in quell’unica direzione che lo avrebbe portato (sperava) fino alla fine.

“Sono le nove. Non scendi dal letto stamattina?” la moglie aveva passato metà della notte sveglia per colpa sua, grazie a Dio era di turno nel pomeriggio e questo le aveva permesso di recuperare un pò di sonno, altra storia era quando lei si doveva alzare alle sei del mattino, per il primo turno in ospedale.

“È mai possibile che non si possa dormire tranquilli una notte da sei mesi?” lui era spiaciuto dello stress che procurava alla sua donna, ma fece finta di non udirla, sapeva che era pesante per lei sopportare quella sua passione per Lucia, ma non se ne preoccupò, la moglie lo amava e lo avrebbe sostenuto fino alla fine di quel percorso, come aveva sempre fatto.

” Lo sai cosa ho pensato di fare, stanotte? Le raccontò tutto il suo progetto.

“ Tu devi essere matto, questa storia ti sta facendo impazzire, ora ti metti a girare cimiteri? Non lasci in pace neppure i morti. Ma lascia perdere Lucia...la poveretta è morta quasi un secolo fa, lasciala riposare in pace e così lasci riposare in pace anche me…” sorrise “ sei come un bambino quando ti metti in testa qualcosa.” ‘Ntoniuccio le scivolò sotto le braccia che lo stavano per avvolgere, mentre sgusciava dal letto seminudo. Lo svincolarsi del marito la fece cadere bocconi sul letto.

“ Un bimbo ho detto? Un bimbo? Ne vali dieci, ma come te ne vai per casa nudo come un lombrico...Un uomo? Tu sei proprio un bambino!”

Lui borbottò uno sfottò dal bagno, facendole il verso.

Il gioco continuò anche mentre facevano colazione e risero.

Le fette di pane abbrustolito ricoperte di burro e marmellata fatta in casa, era un premio che la moglie, che lui chiamava, in quei frangenti, affettuosamente Mamma, amava fargli, sapendo che prima di mangiarle, il suo uomo si nutriva dell’odore del pane, rimembrando l’infanzia. Ogni mattina lui le raccontava un aneddoto della sua infanzia, ogni volta lei restava ad ascoltarlo contenta di conoscere un particolare in più della vita del suo uomo, poi , quasi sempre, raccontava qualcosa anche lei e pareggiava il conto.

Quel mattino lui era preso dalle cose pensate la notte e non abbreviò la colazione mangiando velocemente le sue fette e riempiendo di briciole e gocce di marmellata la tovaglia.

“Mamma ho sporcato qui…” il tono, volutamente piagnucoloso da bambino, per evitare rimproveri e per farla sorridere.

“ Tu hai un talento speciale per sporcare dappertutto...” si lamentò lei sorridendo “...non so proprio...ma come fai?” lui si schernì

“ Ci metto impegno.”

“Sì, credo proprio di sì. Nessuno riuscirebbe ad imitarti. Tanto a lavare ci devo pensare io.”

”Lascia che ci pensi io Mamma“

“Si?...ci vuoi pensare tu?”

“...si, ci posso pensare io, basta che poi lo fai tu!”

“ Ah ecco! Mi pareva...”

L’avrebbe stritolato volentieri in quel momento, ma lei era già di nuovo in cucina con le tazze sporche.

Antonio trascorse la mattinata al telefono, il giro dei municipi si rivelò però completamente infruttuoso. Le impiegate si rifiutavano di dare informazioni telefoniche ad uno sconosciuto, la legge sulla privacy le obbligava a non fornire informazioni sui vivi.

“ Mi scusi...Lei dice che non può darmi informazioni sui vivi, vuol dire che se io le chiedo informazioni sui morti, lei me le può dare?”

“ Certo signore, io e chiunque altro.”

“Allora mi dica qualcosa di questo Antonio Piro, può dirmi se è morto?”

“ Si, certo! Un attimo che controllo se ci sono omonimi...no, non ce ne sono, è solo lui. È morto a To

rino una ventina di anni fa.”

“Sa dove è seppellito?”

“No signore, questo non glielo so dire. Lei però può telefonare al cimitero centrale e gli daranno le altre informazioni” la signorina del Comune era stata molto gentile, ringraziò lei e la buona sorte per questo. A volte si incontrano impiegati così scorbutici che rispondono a monosillabi e finiscono solo per irritarti pensò. Sperava che gli andasse bene anche con la signorina del cimitero monumentale. Si prese il tempo di studiare le domande che avrebbe dovuto porre, le recitò un paio di volte per imporsi un tono gentile e si rilassò aspettando.



























































Capitolo nono



L’area dei Famosi





















Nel reparto dei famosi del cimitero monumentale di Torino, riposavano (non so quanto in pace) molti personaggi storici. Ed anche se non si erano fatti molti anni di scuola, ogni persona avrebbe voluto avere modo di incontrare nella vita. Se non altro li si erano visti scritti sulle lapidi delle strade e piazze delle città italiane. Le ossa di persone come Silvio Pellico, Dante Di Nanni, Camillo Benso di Cavour, la Bela Rosin (la mantenuta del re Savoia, nata figlia di un tamburino sardo, morta regina d’Italia, escort antelitteram) e tra questi molti altri nomi illustri della cultura e dell’industria piemontese, tra i monumenti marmorei c’era la tomba di Cesare Lombroso (lo psichiatra famoso per aver determinato che i meridionali d’Italia, proprio per le fattezze craniche, erano portati ad essere meno intelligenti dei nati nelle regioni del nord Italia e portati naturalmente alla delinquenza, dando ai Savoia la scusa per poter perseguire con ferocia, gli oppositori all’annessione al loro regno, etichettandoli come Briganti) davanti alla quale alla Antonio Manutella si fermò a riflettere un attimo. Gli uomini studiati da questo bel tizio erano i suoi eroi, gli uomini che avevano pagato con la vita la difesa della sua terra. Gli studi di quel medico riguardava anche il cretinismo dei popoli del nord Italia, ma furono i meridionali ad essere crocefissi nella cultura generale.

Il suo compagno d’esplorazione non si trovava a suo agio in mezzo a quelle celebrità.

“ Mò me lo vuoi spiegare che ci facciamo qua?”

“ Stiamo cercando la tomba di un assassino!”

“ Azz...e tu proprio qua, tra tutta la gente più famosa d’Italia te ne vieni a cercare un assassino?” L’amico napoletano che si era portato per compagnia stava passando controvoglia la mattina in un cimitero, ma il suo amico era venuto a trovarlo con la moglie e mentre le donne stavano facendo un giro nel mercato di Porta Palazzo, loro avevano fatto un salto nel cimitero di corso Novara.

“ Qua dentro c’è la più grande collezione di assassini che tu possa mettere insieme cercando nei cimiteri italiani.”

“ Neh… e tu proprio qua mi devi portare a passare la mattinata? Ma tu sei sicuro di quello che dici?”

“ Vedi questo Lombroso, stimato psichiatra e antropologo che sta sotto questa sorta di tempio? Questo è stato il più grande figlio di zoccola di tutto il mondo.”

“ Madonna mia, e che t’ha fatto sto grand’omm?”

Qualche tomba più in là, una signora sulla settantina, stava lucidando il marmo rossiccio di una monumentale tomba. La donna faceva andata e ritorno da una fontanina vicino alla tomba davanti alla quale erano fermi i due uomini, nella sua asciutta e dignitaria persona, l’anziana donna sembrava tutta concentrata sul suo lavoro, ma ad Antonio non sfuggì l’attenzione che lei metteva nell’ascoltare la loro conversazione.

“ Questo deficiente, studiava le teste dei meridionali che i soldati dei Savoia, scesi a conquistare il sud, per annetterlo al loro regno, mozzavano e spedivano quassù ed in base ai suoi studi, questo gentiluomo, stabilì che noi eravamo geneticamente portati a delinquere e, sicuramente meno intelligenti dei suoi compaesani.”

“ Hiii…vedi che galantuomo, sarà per questo che gli hanno messo tutto sto blocco di pietra addosso, per essere sicuri che non se ne uscisse fuori n’ata vota?”

“ Eh Carlo, se questo era qui ora, tu, cu quella capa che ti ritrovi, sai dove venivi andavi a finire? “

“ No non lo so. Dove?”

“Dritto al manicomio di Collegno!”

“ Quale Collegno, quello è stato chiuso tant’anni fa!”

“Lo so, lo so Carlo…” la signora aveva aumentato le sue andate e ritorno, dalla tomba che stava lucidando alla fontanina, con una brocca per l’acqua, Antonio notò che la bocca della signora si era leggermente increspata in un serico sorriso nell’ascoltare il loro dialogo.

“...ed è solo per questa fortunata combinazione che tu sei qui libero.”

“ Di quale fortunata combinazione parli, scusa?”

“ Quella per cui il manicomio è chiuso e questo delinquente è qui sotto.”

“ Eh che fortuna ho avuto neh?”

L’amico di Antonio era un omino alto intorno al metro e mezzo scarso, con la testa incrugnata nelle spalle come se, una mano pesante gliela avesse incuneata direttamente nella cassa toracica, fermandone la crescita. Il pover’uomo non aveva neppure l’idea di quanto il suo amico fosse serio.

La signora stava ancora lucidando il granito della tomba rossastra. Ad Antonio sembrava che quella donna, così eterea e di una eleganza antica, non avesse nessuna intenzione di finire quel lavoro. Quasi che fosse legata a quel suo compito da un invisibile obbligo. Quando furono alla sua altezza, lei alzò la testa ed incrociò lo sguardo dell’uomo.

“Buongiorno signora...vuole una mano?” la donna sembrò cogliere appieno lo scherno ludico nelle parole dell’uomo.

“ No grazie...è mio nonno…” spiegò con un cenno verso l’imponente blocco di marmo.

“ Suo nonno signora?..” Antonio si spostò di fronte al blocco dove poteva leggere le iscrizioni sulla facciata di marmo “... Ma ha un cognome napoletano signora…lei non mi pare…” la scritta diceva di un generale dei carabinieri nominato, dal re Vittorio, membro del primo parlamento dell’Italia unita.

“ Ma questo era napoletano, come faceva ad essere senatore del governo piemontese?”

“ Lui era un generale dell’esercito Borbonico, durante le battaglie per l’Italia unita, nel risorgimento, si schierò coi Savoia e venne a vivere a Torino, dove fu nominato senatore”

“ Hiiii, che bel nonno che aveva lei signora, un traditore del suo paese... e mi dica, lei è nata qua a Torino, che cosa ha fatto nella vita? Oltre a pulire la piramide del suo degno avo, si capisce…”

“ L’università...e poi sono stata per quarant’anni la direttrice della Gam.”

“Ah! Complimenti davvero signora.” il tono tra il serio ed il faceto rendeva il dialogo leggero ed interessante ma metteva, al contempo, la possibilità di comprendere del suo amico fuori gioco ”...e faceva la direttrice della Gam tra una lucidata e l’altra al mausoleo?”

“ Che cos’è la Gam guagliò, che lingua parlate?”

“ La galleria d’arte moderna di Torino…”

“Ah!”

“Stavate cercando qualcuno?” La donna chiese con gentilezza.

“ Si, veramente stavamo cercando un assassino, ma quello ha violentato e ucciso solo una ragazza, un po’ poco per avere l’onore di stare in mezzo a tanta celebrità. Eppure ci hanno detto di cercarlo in quest’area.”

“ Può darsi che sia sotto…”

“ Sotto signora? Sotto che cosa?”

“Qui sotto ci sono altri piani dove ci sono quelli meno importanti.”

“Ah… e già, questa è la crèm, la panna degli assassini. Quelli minori stanno sotto...nei piani bassi.” la signora assentiva seria, ora sembrava stanca di avere a che fare con due persone che stavano concedendosi troppa allegria in un posto imponente e serio come quello. Indicò ai due l’entrata del sotterraneo. Tre piani più sotto c’era una intera città di morti, con strade e viottoli che si incrociavano come un labirinto, in un cunicolo stretto e soffocante trovammo la tomba della donna che cercavamo. La sorella del fidanzato di Lucia era seppellita in una cella di quell’immenso vespaio. Una foto della donna era ancora attaccata al loculo, la faccia olivastra risultò immediatamente antipatica all’uomo che manifestava apertamente la sua soddisfazione di averle ritrovata in quel tugurio. Antonio disprezzava quella donna quasi più dei fratelli che avevano violentato e uccisa la ragazza, lei donna giovane non aveva avuto nessuna comprensione per una sua coetanea innamorata, né aveva provato pietà per il fratello che la voleva sposare, neppure come donna aveva manifestato il minimo ribrezzo per ciò che aveva spinto a fare ai fratelli. Avevano la stessa età, ma questa aveva potuto vivere libera la sua vita grazie al fatto che all’epoca era minorenne, anche se non sembrava finita meglio, seppellita in quel sotterraneo così infido e lontano dalla luce del giorno come dalla sua terra. Antonio fece un paio di scatti fotografici alla foto sulla tomba e si diresse immediatamente verso l’uscita. Di solito davanti alla tomba di un defunto si raccoglieva in un intimo pensiero che somigliava molto ad una preghiera per il defunto, in questa occasione aveva provato solo una grandissima indignazione con la quale avrebbe voluto ricoprire quello loculo degno di una simile ospite.

Che tu sia maledetta per sempre” il pensiero inespresso fece lo stesso rumore di un grido in quei bui ventricoli sotterranei. Gli stava per mancare il respiro, si affrettò verso l’uscita risalendo verso la luce, fu fuori prima ancora che l’eco di quel suo pensiero si spegnesse nella sua mente.

Il suo amico, dimenticato in quella strana visita, arrancava dietro di lui in silenzio. Aveva assistito in silenzio a quella trasformazione del suo amico, di solito scherzoso oltre il necessario, prima eccitato dalla ricerca e poi, una volta trovato l’oggetto del suo affannarsi, irrigidirsi in quel modo. Giunsero all’aperto ansimando,Carlo arrivò trafelato alle sue spalle.

“ Vuagliò, ma come, tenevi tanta fretta di trovarla e quando l’hai trovata te ne scappi così?” non ricevette nessuna risposta, ma una strana occhiata vuota che sembrava chiedere chi diavolo fosse,

“ Mi hai detto che cercavi uno che aveva ammazzato la fidanzata e qua abbiamo trovato una donna, chi era quella?”

“ La sorella era, ecco chi era quella ” avrebbe aggiunto qualche epiteto speciale per colei che lui riteneva la vipera che aveva segnato la sorte di una ragazza felice dei suoi diciotto anni e del suo amore.

“ La sorella di quello che ha accisa ‘a guagliola?

“ Si “

“ Hi…a che signora distinta siamo venuti a fare visita, ecco perché non ci ha neppure offerta una sedia, un caffè…” Carlo fece appello al suo spirito napoletano per far riprendere l’amico che sembrava aver perso il buon umore del mattino.

“Quella disgraziata era gelosa della felicità di quella che doveva diventare la cognata”

“ E solo per questo ha spinto i fratelli ad ucciderla?

“ No, non solo per questo, una donna di Serracapriola voleva sposare il fratello ed avrebbe portato in dote, oltre al corredo, ventimila lire in contanti. Quei soldi erano ambiti dal padre del giovanotto per poter fare la dote a quella disgraziata qua sotto, per quei soldi lei spinse il padre ad impedire al fratello di sposare con un matrimonio riparatore, la povera Lucia”.

“ Proprio una bella famiglia, neh? Per ventimila lire hann accisa na guagliola...che erano animali questi?”

“ Già…”

“Ed ora dove andiamo?”

“Al cimitero sud”

“ Nata vota? E no Antò! E tu mica mi puoi portare a fare il giro di tutti i cimiteri di Torino stamattina, abbi pazienza…”

“ Va bene, hai ragione, andiamo a riprendere le mogli e...è ora di pranzo.”

“ Meno male, anche se l’ambiente non era chissà quanto appetibile...io una certa fame ce l’ho, tutta quella strada…capiscimi a me...”

“ Si, si ti capisco, vieni che vi porto fuori a pranzo, ti và un ristorante cinese?

“ Mah…vogliamo andare a un ristorante cinese? E facciamo così, come vuoi tu. Quando uno paga…”

“ Che figlio di ‘ntrocchia che sei Carlo...va bene pago io, andiamo dai.”
















Capitolo decimo





L’album è pieno





















La canzone si andava ormai completando nella sua mente...

………..

Tutti i compaesani voi sentite

Che brutta condanna che ci hanno dato

Mio padre a vent’anni e noi in galera a vita

Questo pentimento tragico come non muore

Nessuno ha pietà di questo cuore



Vorrei che questo cuore si spezzasse

Quando io vedo questi infami cancelli

Vorrei che quell’anima mi perdonasse

Non mi perdona no! Son scellerato

Dentro queste mura piange, questo carcerato



Vorrei che un giorno mi apparisse

L’ombra di quell’anima adorata

Lucia si chiamava era innocente

Due fratelli scellerati e senza cuore

Senza pietà l’hanno uccisa e tolto l’onore

………..



La canzone, ritornava nella sua mente a bocconi, una frase alla volta, come se la mente gli fornisse degli anticipi della drammatica storia, una traccia da seguire su quella che ormai gli appariva come una strada in discesa, ormai sulla dirittura dell’arrivo. Alcuni giorni dopo aveva fatto visita anche al cimitero sud della città piemontese. In compagnia di un altro amico di infanzia emigrato: Carmine. Con il compaesano, aveva cercato tra le tombe del cimitero di strada del portone, ed in fondo al confino ovest, il più lontano dall’entrata, avevano trovato la tomba di quello che era stato il fidanzato di Lucia. Un vecchio coi baffoni bianchi, in stile col piccolo primo re italiano, alla moda di un secolo prima, su una foto ceramicata, era incollata sul marmo della lapide. Scattarono alcune foto anche del responsabile di quel truce omicidio e, per quanto lo ritenessero in parte vittima del padre e della sorella, Antonio non contenne il disprezzo per non aver saputo difendere il suo primo amore. L’amico era stato messo a conoscenza di molti particolari della storia e della rabbia di Antonio, sapeva per grandi linee della sua insonnia e di quando avesse cercato i suoi fogli. Da quando era iniziata quella ricerca, si erano visti parecchie volte e molte volte aveva assistito a quanta disperazione produceva la vana ricerca dei fogli del professore. Lucia era diventata una persona di famiglia in casa Fortinterra e, come amico di vecchia data, anche lui aveva dato, dentro di sé, un posto a quella ragazza.

“ Non ci sono anche le tombe degli altri?” chiese Carmine.

“ Gli altri chi?”

“ I fratelli, il padre, non mi avevi detto che erano morti anche loro?”

“ Si, certo che sono morti, ma non so dove sono seppelliti.”

“ Ah, non sei riuscito a rintracciarli?”

“ No, ho fatto parecchie telefonate ma nessuno parla volentieri di questa storia.”

“ Già...Io non l’avevo mai sentita raccontare prima che me ne parlassi tu.”

“ Lo so. La gente non ama ricordare questa storia. I parenti degli assassini vogliono cancellarne la memoria, quelli di Lucia ancora non sono in grado di parlarne senza provare un grande dolore, parlarne serve solo a resuscitare l’odio ed il rancore, non tutti riuscirebbero a dominarli.”

“ Ma in paese proprio non la sa proprio nessuno questa storia, io non ho mai sentito neppure un accenno all’accaduto. Neppure la canzone conoscevo”

“ Mia madre la cantava mentre raccoglievamo il cotone, o nelle vendemmie. Quand’ero piccolo sentivo cantare questa canzone, dalle donne che toglievano l’erba dai campi e ti giuro che era bellissimo starle a sentire mentre cantavano a più voci “

“ Io non le mai sentite…” la voce dell’amico, sembrava essere venata da commiserazione per se stesso, s’era perso nell’infanzia, cose che oggi, vissute attraverso i ricordi di Antonio, gli apparivano come grandi tesori. Li faceva suoi pretendendo ogni copia di foto o documenti che il Manutella riusciva a trovare nelle sue ricerche. Se li conservava per riempire i tasselli mancanti di quella sua infanzia. Lui l’aveva vissuta in un salone da barba, ad imparare quello che allora sembrava un buon mestiere, dove le persone passavano la mattinata a baccagliare di calcio e di politica spicciola.

Ora che ne parlava con l’amico d’infanzia, si accorgeva che, la vita di un paese agricolo del sud Italia, si svolgeva, soprattutto, in quegli anni della prima metà del ventesimo secolo, attorno i campi a primavera, nelle aie d’estate, nelle vigne in autunno e negli uliveti d’inverno. In una cadenza ripetitiva di lavori svolti manualmente da gruppi di uomini e donne. Lì le storie e le leggende del paese venivano ripetute e tramandate dagli adulti ai più piccoli, attraverso i racconti ed i canti. Una sorta di lettura di giornale o libro parlato, dove le favole e le tragedie si confondevano e diventavano un tutt’uno con la vita stessa. ‘Ntoniuccio ricordava ancora il peso del fango che gli si attaccava agli stivali di gomma, comprati di qualche misura più grandi perché ” il bambino deve ancora crescere, gli andranno bene anche l’anno prossimo” ma i calzari, pesanti e scomodi appena acquistati, si rompevano durante un anno di lavoro e quello dopo, si teneva quelli tagliati per non farsene comprare un paio nuovo si, ma ancora più grandi. Le sue giornate nei campi, erano rubate alla scuola, alla quale erano destinate le giornate invernali, quelle di pioggia o, quando nelle campagne, tra un raccolto e l’altro, non c’era molto da fare. Aveva sempre sentito la difficoltà di crescere con una istruzione limitata, come un pesante debito verso la comprensione delle cose della vita. Si sentiva come un meccanico che, con una dotazione limitata e arrugginita di attrezzi, non bastanti per fare bene il suo lavoro, era costretto ad operare su nuove auto moderne, con le quali necessariamente, doveva adoperare attrezzi fatti apposta, che lui non possedeva. Era perciò obbligato da questa mancanza, a prelevare dalle stanze segrete della mente, quei ricordi di insegnamento, limitati ed inadatti ma unici. Erano proprio questi, gli unici strumenti coi quali affrontava le sue giornate, così diverse nel mondo moderno che si era rivelato, a chi era nato contadino nelle campagne del sud, fu costretto all’emigrazione nelle città industriali del nord. Ora, quei ricordi erano diventati strumenti brillanti e basi forti della sua cultura e li adoperava con maestria per approfondire la ricerca della sue radici.

“ Però se non sai come sono finti gli altri membri della famiglia…di questa storia, alla fine non si capisce niente.”

“ Perché non si capisce niente? È tutta qui! Sappiamo come successe il fatto, chi lo ha commesso, come sono stati catturati, dove sono stati imprigionati e come sono morti…”

“Questi! Questi che hai trovato! Ma gli altri?” l’amico aveva un ruolo di pungolo verso Antonio, lo supportava come poteva nelle sue ricerche, ma lo metteva con le spalle al muro pretendendo sempre di più, a volte gli si rendeva antipatico, quando continuava ottusamente ad insistere per volere di più di quello che l’altro aveva, ma lui era convinto che se lo metteva sotto pressione, Antonio sarebbe stato capace di dare molto di più.

“ Gli altri sono morti in galera”

“ Ah! Ma allora li hai trovati? Non mi hai detto niente.”

“ i condannati furono tre, avevano avuto una condanna a vent’anni il padre, per istigazione e per complicità, trent’anni, l’ergastolo insomma per i due fratelli, uno, il più grande è morto in galera, l’altro, il fidanzato della ragazza, è uscito dopo ventisei anni per buona condotta.” l’amico lo guardava senza chiedere niente, sapeva che se c’era altro ‘Ntoniuccio glielo avrebbe detto.

“ I tre trovarono in galera un’accoglienza terribile, in quel periodo le prigioni erano piene di ladruncoli e di residuati umani incarcerati per diserzione nella prima guerra mondiale. Li trattarono come delle serve…”

“Servi!”

“No, proprio serve, anzi servette, li obbligarono a soddisfare i loro bisogni repressi in galera, gli tolsero ogni dignità, per loro era meglio una condanna a morte.”

“ Come hai saputo queste cose?”

“ I tre erano stati separati, il più grande dei fratelli era finito al Poggio Reale di Napoli, dove poi furono portati ( in un orfanotrofio vicino al carcere) i suoi cinque figli, ai quali intanto, era morta la madre.

Il padre fu rinchiuso nella casa circondariale di Ancona, il piccolo, quello che era il fidanzato della ragazza in quella di Frosinone.”

“ E poi…? Come si seppero queste cose?”

“Quando il piccolo uscì di prigione, nel cinquantadue, tornò al paese, ma la madre non lo volle più in casa. Due suoi fratelli più giovani erano emigrati a Torino qualche anno prima , così lui se ne andò su da loro. Nel millenovecentosessantasette, sposò una donna calabrese, non ebbero figli, è morto intorno agli anni ottanta.”

“Sai com’è morto?”

“Si. Viveva arrangiandosi a fare piccoli lavoretti saltuari e raccogliendo cartone dalle pattumiere, una mattina all’alba, intorno alle 5, fu travolto da un furgone e ucciso sul colpo, lo lasciarono lì sull’asfalto fino a quando i primi passanti non chiamarono la polizia.”

“ Ha fatto una brutta morte anche lui.”

“ Non aveva fatto neppure una bella vita.”

“ A Torino qualcuno dei nostri compaesani sa chi era?

“ Certo! I primi nostri compaesani emigrati erano suoi coetanei e compagni d’infanzia.”

“ Qualcuno lo frequentava?

“ A Torino erano arrivati i nipoti, figli di quel fratello morto in carcere, non so cosa gli sia mai stato raccontato, so che uno di loro, si chiamava Antonio come lui, lo frequentava assiduamente e dopo morto, si curava della sua tomba.”

“ Hai parlato con il nipote?”

“ E’ morto quattro mesi fa.” indovinando la prossima domanda Antonio Manutella anticipò l’amico.

“ Un incidente di moto.” Carmine lo guardò come a sottolineare la stranezza di due morti per incidenti nella stessa famiglia poi, forse rendendosi conto che quel tipo di morte, nell’era dell’automobile e delle moto erano diffusissime, cambiò la sua domanda in corsa.

“ Sai dov’è seppellito?” l’amico si aspettava quella domanda da tempo, si spostò di lato, girò sui tacchi dando le spalle al suo accompagnatore e allungò una mano a spostare un mazzo di fiori nel vaso che copriva una foto e una scritta:

“Qui!”disse trionfante per quella scoperta, casuale.

“ Tu lo sapevi!” l’amico sorrise gustando finalmente tutta la pandomina messa in atto davanti a quella tomba, coperta, sospettava, ad arte dal suo interlocutore.

“ No ti giuro, sapevo che era stato seppellito in questo cimitero, ma non che fosse di fianco allo zio.”

Il carniere era quasi del tutto pieno quel giorno, alcune fotografie degli attori di quella triste storia colmarono la misura.

Lungo la strada dissertarono del più e del meno, di calcio e di donne. Il loro argomento preferito da sempre: l’Inter , della quale erano ambedue tifosi e del loro primo amore, le ragazze del paese che erano rimaste nel loro cuore migrante, padrone di un posto speciale. La cappa grigia che occupava la mente di ‘Ntoniuccio sembrava essersi allentata, aveva riportato alla luce una storia drammatica, avvenuta quasi un secolo prima, nel paese dove erano nati e che era stata sepolta sotto la polvere del tempo o forse, cancellata volutamente in parte dal silenzio nel quale l’avevano lasciata cadere coloro che l’avevano subita per riuscire a sopravvivere, in parte da coloro che erano stati parte della famiglia dei carnefici, vittime a loro volta, travolti dal disprezzo e dal disonore nel quale era caduta la famiglia; in parte dimenticata per colpa dell’emigrazione, che aveva tranciato quel filo conduttore che fa tramandare dai vecchi ai giovani, una cultura che passa attraverso le parole dette.

Erano emigrati quando avevano 15 anni e ora, ultrasessantenni ambedue, sentivano, forse per la prima volta di conoscere più a fondo il loro paese, un paese dove i loro padri, erano arrivati da Ischitella; paesino garganico dov’erano nati.

Emigranti figli di emigranti, ma con una conoscenza del paese che li aveva visti nascere, più profonda di molti di quelli che ci vivevano da sempre, ignari e sordi alla storia che le pietre che calpestavano, avevano da raccontare. E la loro l’Inter era in testa al campionato di calcio da tre settimane.









































































Capitolo undicesimo





La spinta



















Il giorno dopo si svegliò tardi.

Di solito dormiva poche ore a notte.

Quando si attardava a letto, concedendo qualche ora in più di sonno al suo corpo, si svegliava di buon umore e pieno di energie, come fosse primavera.

Quella era da sempre stata, la sua stagione preferita.

Dopo l’inverno, in cui concedeva pause al suo iper attivismo abituale, quella era la stagione in cui si buttava fuori dal letto e da casa, ed invadeva la vita degli altri con una riserva di energia, che faceva venire il fiatone a chi gli stava vicino.

La moglie, che aveva sentito i suoi rumori dal piano di sotto, arrivò dopo poco con la colazione.

“Ma cosa stai combinando?…” la poveretta per poco non diede il giro al vassoio dalla sorpresa.

Il letto matrimoniale era ancora disfatto, era pieno di roba sua tirata fuori dall’armadio.

“Cosa succede adesso?” gli chiese la poveretta “Ti sei svegliato male?

“No cara…mi sono svegliato benissimo.” Antonio le sorrise.

“Ed hai deciso di fare il cambio di stagione?”

“Vado al paese!” disse senza fronzoli l’uomo. Non aveva mai amato i giri di parole intorno alle cose anzi, spesso era così diretto che diventava sconcertante.

“Vai dove?!…” lo guardò come se non riuscisse a metterlo a fuoco. Sapeva che il marito aveva dei momenti in cui agiva con la stessa incoscienza ed impetuosità di un bambino. In quei frangenti sapeva anche che non c’era molto da fare per fargli cambiare idea. Pareva un bue che aveva determinata una certa direzione e a nulla sarebbe valso ogni tentativo di fargliela cambiare.

“Vado al paese!” concesse una ripetizione dello spartito e si capiva che quella era una concessione senza altre repliche.”

“ Va bene. Ora metti le corna sul cuscino e fai colazione.” il modo di rivolgersi al marito poteva sembrare duro solo a chi non la conosceva. In realtà era uno dei modi teneri di rivolgersi al suo bambino, nella loro intimità. Sapeva benissimo che se lui aveva deciso che doveva andare al paese, lei non avrebbe cambiato quella decisione, lei doveva solo capire perché ci voleva andare.

Quando si erano conosciuti lei gli faceva un sacco di domande su come era fatto lui. Lo voleva imparare. E lui gli ripeteva di se stesso un solo concetto:la pratica dell’obbiettivo.

“ Cos’è? “ le aveva chiesto.

“Quando tu hai un obbiettivo, un sogno da realizzare, un desiderio...devi decidere da che parte attaccarlo per riuscire ad ottenere quello che vuoi. Poi scegli la tattica e ci provi. Se però non ci riesci al primo tentativo, devi riprogrammare un nuovo piano, fino al raggiungimento del tuo obbiettivo.”

“ E se non ci riesci?”

“Devi provarci con convinzione...se un desiderio è forte e tu sei motivato, la tua determinazione ti farà raggiungere lo scopo.”

“ Allora com’è che io non riesco ad appagare il mio sogno?” lei non stava mirando a niente in quel momento, voleva solo suggerirgli la domanda successiva.

“ E qual’è il tuo sogno che non realizzi?”

“ Quello di veder crescere un uomo che continua a comportarsi come un bambino.” gli appoggiò il vassoio sulle gambe e bloccò la sua reazione probabile. Le sarebbe saltato addosso per giocare. L’aveva fregato.

“ Buna diminiaţa” gli disse con un leggero bacio.

“ Buna diminiaţa” le rispose.

Il buongiorno nella lingua madre di lei era una tradizione tra loro che durava ormai dal primo giorno del loro incontro. Lui le aveva chiesto espressamente quel gesto per crearle un momento iniziale della giornata, in cui a lei arrivasse il saluto della mattina con il quale cominciava le sue giornate nella casa della madre, prima di emigrare.

A lei piaceva molto quel loro primo momento ed aveva aderito con gioia. Ci tenevano tanto ad iniziare sempre così la giornata, che lei non vedeva l’ora di alzarsi a preparargli le fette di pane abbrustolito e spalmargli il burro, ricoprirlo di marmellata fatta con le sue mani e portargli a letto il suo tazzone di caffelatte fumante. E lui pure.

“Allora vai al paese?”

“Si!”

“ E me lo dici così? Se non venivo su con la colazione eri già partito, vero? Hai sentito tua sorella?

“ E come te lo dovrei dire...no che non ero partito, mi devi fare la valigia…”

“ Ah! Solo per questo vero?

“ No...dovevo aspettare anche la colazione...eh eh eh.” lei sorrise. Come si poteva resistere a quel modo fanciullesco recitato per lei dal suo uomo?

“ Eh, già...la colazione...non la puoi perdere vero una colazione così.”

“ Lo faccio per te. Per la buona diminiaţa...mica me ne andrei senza darti il buongiorno…”

“Ah...ehh, certo che buongiorno sarebbe per me se non avessi da lavorare mezz’ora al mattino per prepararti la colazione? Ne morrei!”

“ Eh già!”

“ Vuoi andare a trovare tua sorella?”

“No. Non c’entra lei, non l’ho neppure sentita…”

“ Non l’hai chiamata ieri?”

“ No...si, ma non c’entra lei. Devo andare al paese per un’altra cosa. Lei neppure lo sa.”

“ Ed allora cosa ci devi andare a fare al paese, non mi hai parlato di questo tuo progetto. Com’è nato, tutto così all’improvviso?”

“Si. Devo andare.”

“ Devi proprio…? Dovresti avere un buon motivo per andarci in questo momento...mi lasci sola…sai non è che i soldi...”

“ Si lo so. Maledizione...non riusciamo a mettere da parte un centesimo. Ma io devo andarci!”

“ Beh...se ci devi proprio andare ci vai. Che vuoi che faccia, vai a passare qualche giorno con tua sorella, tra i tuoi amici. Che fa…ti farà solo bene.”

“ Ma io non vado a trovare gli amici o mia sorella...ci devo andare e basta!”

“ La pratica dell’obiettivo?”

“Già!”

“va bene, mi arrendo!” cominciò a prendere il vassoio della colazione.

“ Dove andrai a stare...quanti giorni?”

“ Dove vado a stare...da mia sorella, dove vuoi che vada a stare?”

“ Ed io che avevo detto?” fece spallucce la moglie. Sapeva quando il marito era attaccato alla sorella maggiore che l’aveva in balia quando lui era piccolo, mentre la madre lavorava.

“ Ma no ti dico! Lei non sa niente...vado solo a darle fastidio.”

“ E allora non ci andare…”

“Devo!”

“ Come mai devi...tutto a un tratto?”

“Si...Lucia…”

“Ancora lei?” Antonio stava per provocare alla moglie una crisi di nervi e se ne rendeva conto. Ma non sapeva che farci.

“ Devo andare. Non lo so perché, non me lo chiedere, io D-E-V-O A-N-D-A-R-E A-L- P-A-E-S-E, capito mamma?”

“ Si.” lo fisso negli occhi “ Devi. Ti preparo la valigia.”

“Grazie, mamma.”

“ Quando andrai?”

“Stasera.”

“ Non fare guai...ti prego.”

“ Non temere...non succederà niente.”

“ Quanti giorni?”

“ Non lo so...non molti...spero.”

Il lungo viaggio sul Pullman lo passò in uno stato di incessante dormiveglia. Non riuscì a dormire che piccoli tratti della notte, anche se non fu mai completamente sveglio. Il grande autobus sembrava cullare i passeggeri, costretti tutto il viaggio nel loro posto con le ginocchia contro quello davanti.

L’autobus lo aveva sfinito col suo dondolio. Aveva trovato un posto vuoto solo sull’assale delle ruote, dove le vibrazione della corriera sono più forti ed è impossibile perdersi neppure un sussulto in tutto il viaggio. Ogni ruga dell’asfalto della strada si ripercuote senza filtro sulla schiena del viaggiatore e alla fine si scende con la sensazione di essere stati tutto il tempo in un frullatore.

Il mattino dopo arrivò al paese che era ancora buio. Alla fine del viaggio sei costretto a riconnettere tutte le giunture prima di poter riprendere il controllo del corpo. Il Bar di fronte alla fermata era aperto, alcune persone stavano fumandosi una sigaretta fuori dal bar. Decise che era meglio prendere un caffè.

Un paio di persone lo riconobbero appena entrò nel bar. Scambiò qualche saluto e poche battute.

Il barista lo conosceva da sempre.

“Tu Antonio...prendi ancora il latte macchiato?” gli chiese dopo uno sforzo mnemmonico durato meno di un secondo.

“Si certo, Gino...il mio latte macchiato.” si sentì compiaciuto del fatto che il barista si ricordasse così bene di lui. La sensazione piacevole era come un benvenuto.

“Prendi un cannolo alla crema. Sono freschi, buoni. Li ho appena sfornati.” non era un ordine, ma sarebbe stato difficile rifiutare il consiglio.

Preferì prendere il cannolo. Uno degli avventori notò la sua titubanza.

“Ma tu guarda questo.” Si avvicinò al bancone di fronte alla macchina del caffè dove il barista stava sfumando il latte, facendo soffiare il vapore nel bricco del latte.

“Ma se uno non lo vuole il tuo cannolo, deve per forza prenderlo?”

“Embè...E allora cosa torna a fare al paese se non per il cannolo ed il mio caffelatte?” Che ne capisci tu, cammina va, vai a lavorare che s’è fatto giorno.”

“ Ah uno viene al paese per prendere il tuo caffelatte e cannolo? Eh sì, mica ce l’hanno a Torino il latte e la crema, no?” Il giovanotto alzava la voce di quel tanto che bastava a coinvolgere gli altri nel gioco. Stava montando su una scena per poter scherzare e trascinare tutti in una risata. Gli astantii si girarono tutti verso il barista ed uno di loro, ignaro di chi fosse il nuovo arrivato con la valigia...

“Che ne sai tu se arriva da Torino, non può venire da Milano?”

“Il barista ne aveva fritti di polpetti come quei due ragazzoni.

“Andate a lavorare vi ho detto. Conosco quel signore da quando è nato. L’ho cresciuto con i miei cannoli alla crema.” la risata collettiva riempì il locale.

“Ah! Tu hai cresciuto lui a cannoli e caffelatte, o lui ha mantenuto te coi suoi soldi e ti ha fatto comprare l’insegna nuova?”

Antonio aveva finito di fare colazione, dopo aver pagato uscì dal locale salutando tutti con un sorriso.

“Vedo che non avete perso il buon’umore…” ammiccò uscendo dal bar.

Appena sulla strada un auto gli si piantò davanti. “Ehi Lei, dove crede di andare. Vuole stare attento alla strada? Che qui non siamo mica a Torino, qui le stiriamo i pantaloni...”.

“Michele...a quest’ora? L’amico era sceso dall’auto per salutarlo.

Michele era un professore di scuola che insegnava alle medie. Grande appassionato della storia del loro paese, gli era stato molto di aiuto nel cercare notizie su quella vecchia storia.

“Dove vai, andiamoci a prendere un caffè”.

“ Veramente l’ho già preso. Sto appena uscendo dal bar …” aveva tentato di glissare una nuova colazione, ma non ci sarebbe stato verso, lo sapeva. La pratica dell’obbiettivo non doveva essere una cosa che aveva imparato su al nord.

“Come mai questa visita improvvisa? “

“Non so...dovevo venire.”

“E’ successo qualcosa su? Gli altri stanno bene?”

“Si, stanno bene...No, non è successo niente…”

“E come mai allora…stai ancora cercando qualcosa su quella storia di cui mi hai parlato tempo fa? Sali andiamo a casa!”

“Andiamo a svegliare i tuoi?”

“Figurati! Purtroppo no. Ci siamo separati, vivo da solo da parecchi mesi.”

“Come mai non mi hai fatto sapere niente?”

“Pensavo che le cose si sarebbero sistemate dopo un po’...”

“Ed invece?…”

“Ed invece...niente. Ormai siamo andati anche dall’avvocato.”

“Mi spiace…” Antonio Fortinterra era sinceramente colpito, ma l’amico ci scherzò su.

“Si...ci debbo proprio credere. Tu sei spiaciuto della mia separazione? Ma se tu sei un pluridecorato in questo campo…Quante volte hai divorziato, tre?”

“Una. Una sola volta.” erano giunti a casa dell’amico. L’ultima volta che ci era stato era una casa piena di rumori, la voce della giovane moglie ed il figlio che giocava ...stavolta era tutto buio e silenzioso.

“Allora...sei venuto a cercare nuove cose su quella storia che ti tormenta?”

“No...su quello ho trovato tutto...Tutto, proprio fino alla fine…”

“Non vedo l’ora che mi racconti.”

“Si, dopo però. Ora ho volgia di lavarmi e di uscire. Tu non hai scuola stamattina?”

“ Si, la terza ora...Dove vuoi andare?”

“Non so. In campagna magari…voglio respirare.”

“Perché, in Piemonte non avete più aria? Proprio dove stai tu, sulle Alpi…l’ultima volta che sono venuto a trovarti mi pare che si respirava ancora bene...meglio di qua...”

“Devo uscire a fare una passeggiata.” si diresse al bagno dal quale tornò dopo essersi rinfrescato.

“Lei dov’è?”

“Dove vuoi che sia...al suo paese, dal padre, da quando è andata via.”

“Non riesci ad aggiustare le cose?”

“No. Ci ho provato, lei sta bene, ha il figlio Lo prendi un caffè?”

“Un altro caffè’ No...Non ce la faccio più...usciamo. Lo prendiamo dopo.”

“Dove pranzi?”

“Non lo so...tu fai come se non ci fossi. Non so cosa farò.”

In quel momento una macchina si fermò davanti alla porta il padre del professore entrò in casa.

“Huèè….e questo che ci fa qui, quando é arrivato?”

“Quando è arrivato, poco prima è arrivato, quando se no, ieri?

“Aspetta, dove vai. Che stai già per uscire? Aspetta che ci pigliamo un caffè!”

“Ma no...non voglio più prendere caffè...voglio andare fuori...in campagna.”

“E aspetta che ti porto io. Stai calmo un minuto, prendo un caffè ed andiamo.”

“Ma tu hai le tue cose da fare, io voglio bighellonare in giro...non so cosa voglio fare.”

“E che ho da fare io, sono in pensione da una vita. Aspetta che quello che devi fare, lo facciamo insieme.”

Non c’era verso. Era meglio rinunciare all’idea di uscire da solo.

Una volta in macchina però, Antonio fu contento di aver atteso che il padre del professore facesse colazione, poiché gli piaceva molto stare con gli anziani del paese. C’era sempre qualcosa da imparare con loro.

La tranquillità con la quale gli anziani affrontavano le cose, gli fornivano una mediazione positiva con i suoi modi decisi e forti. Si diressero verso la piazza.

“Ma io voglio andare fuori, non in piazza!”

“Dimmi...dimmi dove vuoi andare. Io dovrei andare al Mercato di Serra, tu?”

“Va bene per Serra, vengo volentieri da quella parte. Lasciami al Ponte di ferro. Magari mi riprendi al ritorno.

Sul Fiume ritrovava molta della sua gioia infantile, persa nei ricordi della festa della Madonna del ponte. Il chiasso dei suoi giochi con gli amici, proprio in quei giorni di metà aprile, lo riportava a tanti anni indietro, quando dal paese arrivavano a piedi frotte di ragazzini, che attraversavano le rovine della città romanica lungo le pieghe delle bionde colline di argilla.

Si ritrovò a seguire il corso dei suoi pensieri a ritroso quasi senza accorgersene.

Cominciò a camminare sul tratturo che dalle spalle della chiesetta del santuario, seguiva il dorso della fiumara.

L’ombra degli ontani e dei salici giocava nelle pozzanghere d’acqua grigia, stagnante dentro i solchi delle ruote dei trattori passati di là prima dell’ultima pioggia.

Non si rese conto di dov’era arrivato neppure quando una sbarra di ferro gli tagliò la strada. Un lucchetto teneva chiusa la proprietà privata di un coltivatore. Scavalcò la sbarra e continuò il cammino lungo quel segreto viottolo di campagna.

Laggiù non si sentiva altro rumore che quello dolce del vento che frusciava tra i rami e qualche rana gracidare nei pantani delle anse del fiume.

Dopo un filare di vigna, la piega pianeggiante del terreno, prese ad alzarsi in una piccola collina di terreno bruciato. Una cupola naturale che sovrastava la cima degli alberi. Il terriccio giallognolo era ricoperto di rovi, basse piante di bosso e di pungente asparagina.

Il passaggio di animali selvatici aveva creato un corridoio che tagliava quasi netta la fratta.

Il percorso non era molto comodo e le sua scarpe, non proprio adatto alle escursioni campali, lo facevano scivolare spesso su quell’erba che conservava ancora un poco di quella rugiada mattutina sotto la quale l’argilla diventava liscia come il sapone.

Mentre risaliva la china, si attaccava con le mani a qualsiasi pianta trovasse sul lato destro del selvaggio percorso e, alla fine, riuscì ad arrivare sulla cima della collina.

Lassù l’erba era più rasa, e l’esposizione al sole e al vento aveva asciugato meglio il terreno. Ne risalì per una decina di metri il crinale e poi, girando le spalle alla collina, si sedette a guardare il fiume.

In quel punto il rivolo di acqua, si inabissava giù, quasi come un orrido. Le cime degli alberi erano all’altezza dei suoi piedi ornai e lui poteva ammirare la pianura che dal fiume si estendeva fino ai piedi di Serra, ultimo comune del confine pugliese verso le montagne del Molise.

La pianura era un manto verde bandiera che brillava al sole, appena mosso da un alito dal fresco venticciolo di metà aprile. Nel grano, alcune macchie di papaveri e di fiorellini gialli di senape, coloravano la pianura come un quadro di Monèt.

Di là dei rami più alti dei saliconi , un piccolo casale bianco, quasi del tutto diroccato, sembrava affogare tra il verde del grano. Rimase a guardarlo a lungo come inebetito.

Poi girò lo sguardo verso la strada di asfalto e notò una piega più scura del grano. Sembrava un filo di orizzonte tra male e cielo, dove non si capisce la fine dell’uno e l’inizio dell’altro elemento.

Intuì, più che vedere, che quella era una strada.una strada che dalla nazionale portava alla masseria. Una sorta di agitazione lo catturò. Si alzò per vedere meglio oltre le frasche e capì: Quella era la masseria del Rocchione.

Quella era la masseria dove era stata tenuta prigioniera Lucia. Anche il periodo era quello, il giorno...ah, sì...il venticinque aprile. Pochi giorni mancavano a quella data e lui si rese conto che il posto non era cambiato molto. Forse il fiume era più grosso una volta e ci dovevano essere sicuramente più alberi, ma non poteva essere cambiato molto, terreni agricoli erano e terreni agricoli erano rimasti. Si sentì mancare le gambe. Di sedette di nuovo tra l’erba.

Ora gli sembrava che gli alberi e l’acqua del fiume avessero alzato di un tono il loro lamento.

Dal basso della roggia, si elevava fino a lui come un pianto soffocato.

I suoi sensi persero pian piano la lucidità e a lui sembrò di sentire delle voci. Qualcuno stava cercando di chiamare, si dimenava per sfuggire alla costrizione, una voce di donna ansava per liberarsi.

Qualcun altro stava bloccando i polsi della ragazza intrecciano il giovane grano e le fibrose piante della senape.

Le macchie di papaveri ondeggiavano sul grano come se una macchia di sangue affiorasse dal verde. L’ululato muto di quel campo di grano sembrava essergli scoppiato nella testa come un urlo.

Non vedeva più niente, un velo umido gli riempiva gli occhi, mentre le grida soffocate di richiesta di aiuto si andava affievolendo. Stava piangendo.

D’un tratto sentì l’agitazione che lo comprendeva tutto senza dargli tregua, si sentiva soffocare.

Quel posto era a pochi metri da dove, due sciagurati fratelli, avevano abusato violentemente e poi ucciso Lucia.

Quello era il dosso da dove una donna, passando aveva assistito a quella vile violenza.

In quel momento si chiese che cosa ci faceva lì, mille chilometri lontano dalla protezione della moglie, dalle sue fette e marmellata e dalla sua vita.

Ora voleva alzarsi, andare via. Mise la destra a terra per aiutarsi e...la sua mano si posò su quella di qualcun altro. Spaventato si girò di colpo a destra.

Avrebbe avuto voglia di gridare, avrebbe dovuto sentirsi...si accorse invece che la sua agitazione si era chetata adesso, si sentiva tranquillo, in pace.

“Quando sei tornato?” Sembrava che la ragazza l’avesse aspettato a lungo in quel posto. Non le rispose. A quella domanda aveva giù dato troppe volte risposta per quel giorno.

“Tu...tu sei quella Lucia?La Lucia di questa storia?” indicò il grano dall’altra parte del fiume come se quello doveva spiegare tutto. Quasi un grido gli uscì dalla gola, un grido che non era né una domanda né una affermazione, solo un modo per prendere coscienza di un dato di fatto ora, finalmente, chiaro.

“Si...“ lei non lo guardava, sembrava attratta da una macchia di grano dove più folti erano i fiorellini gialli e i papaveri. ”

“...e tu sei il piccolo Antonio, ’Ntoniuccio”

“Ti ricordi di me?”

“Certo...sei cresciuto...”

“Si...si certo, ma io ti ricordavo molto più grande.”

Avrebbe voluto raccontarle di quanto aveva cercato di lei, di quanti giorni aveva passato a chiedere ad ognuno dei suoi compaesani, di quante notti insonni il suo pensiero gli aveva tenuto compagnia.

Ma si rendeva conto di quanto fosse inutile, lei sembrava conoscerle queste cose.

“Eri tu che eri più piccolo…”

“ Ho trovato Antonio...quell’Antonio…”

Lei lo guardò senza dire niente, forse sapeva anche questo.

“Anche la sorella. L’ho vista….vipera! La sua rabbia era vera, gli occhi sembravano volergli scoppiare.

“Ah...hai conosciuto anche lei…” una piega della bocca sembrò disegnare un leggero sorriso sul viso della ragazza, ad Antonio pareva che lei fosse curiosa di sapere cosa ne pensasse lui. Poi capì che lo sapeva. Lei non comunicava attraverso le parole, quello era il modo dei corpi. Le anime non hanno quella necessità.

Lei sapeva.

“Si certo...e ora...io cosa devo fare?” lo chiese come se non volesse la risposta. Non capiva neppure se lo avesse chiesto a se stesso o veramente a lei. Questa volta anche lui aveva la sensazione di conoscerla già. Lei distolse lo sguardo dal grano e lui poté finalmente guardarla alla luce del giorno. Era bella. Giovane e bella.

Non sentiva la sua ma voce, le sue parole gli riempirono la mente lo stesso. Lo stordimento lo sconvolse.

“Torna a casa. Da tanto tempo non c’è più niente da fare per me...Torna alla tua vita,. Non mi scordare. Non permettere che mi dimentichino.”

“Basta così? Basterà questo per sempre?”

“Dove sono io, da tanto tempo...basta molto meno...per sempre.”

Un suono lontano di clacson lo distrasse un attimo. Il suo accompagnatore era tornato da Serra e lo stava cercando intorno al ponte e al santuario.

“Devo andare…” disse girandosi verso di lei.

La collina era vuota.

Si girò istintivamente a cercarla nel grano.

La macchia di papaveri che prima ondeggiava inquieta nel grano, ora era ferma.

Al centro della macchia, qualcosa aveva spezzato il grano e i fiori. Come se qualche grosso animale, si fosse rotolato rompendolo.

Cinghiali! “ Pensò. “Un danno così sembra il risultato di diversi maiali selvatici!

Oltre quella macchia, il campo intero era una distesa di verde puntellata di giallo e di nuvole di un magnifico rosso che mirava dritto verso i raggi del sole che sembrava sorto per dar loro il calore di un amore vitale. Come a voler sottolineare che una parte di quel raccolto era andato perso per colpa dei facoceri, ma il resto era un inno alla vita che continuava.

Discese dalla collinetta di argilla, ormai troppo calda per poter respirare bene e si avviò per il selvatico tratturo senza vederlo.

La testa sembrava volesse scoppiargli. Non riusciva ancora a capire come fare a calmare quel tormento poi, da lontano cominciò adagio ad arrivargli una voce. La melodia si impose nel vuoto assoluto dei suoi pensieri.

………..

Tutti i compaesani voi sentite

Che brutta condanna che ci hanno dato

Mio padre a vent’anni e noi in galera a vita

Questo pentimento tragico come non muore

Nessuno ha pietà di questo povero cuore



Vorrei che questo cuore si spezzasse

Quando io vedo questi infami cancelli

Vorrei che quell’anima mi perdonasse

Non mi perdona no! Son scellerato

Dentro queste mura piange, questo carcerato



Vorrei che un giorno mi apparisse

L’ombra di quell’anima adorata

Lucia si chiamava era innocente

Due fratelli scellerati e senza cuore

Senza pietà l’hanno uccisa e tolto l’onore



Tutto é finito tutto per noi é cambiato

Addio a mamma bella e alla gioventù

Io maledico il giorno quando è stato

E Dio non mi perdona per questa bufera

Addio Lucia addio, muoio in galera.



Addio a tutto il mondo e a mamma bella

Addio giovani che fate l’amore

Questo è l’esempio che lascia Cenz’nell

Vorrei che questa vita poco durasse

Io prego a Dio che mi faccia morire



Non posso più soffrire di questo dolore

Il cuore sempre piange notte e giorno

Da quando abbiamo ucciso il primo amore.

E Dio non mi castiga per questa bufera

Addio Lucia addio, muoio in galera.

………..

Copiose, le lacrime calde, riempivano gli occhi di quel bambino che non sopportava gli addii.

Questa volta era lui che doveva andare.

Si diresse verso il suono del clacson.



Per la prima volta l’aveva cantata tutta.

E cantandola l’aveva rivissuta con lo stesso dolore di ogni giorno, da quando quella storia lo aveva catturato.

Quel pomeriggio fece una passeggiata con una ragazza del paese che non conosceva prima. La figlia di un suo amico, anche lei viveva fuori dal paese e di quella storia non conosceva niente.

Sembrava quasi che avesse bisogno di passare il testimone a qualcuno più giovane di lui, affinché nessuno dimenticasse Lucia.

La portò dove la ragazza abitava con la vecchia madre, dove abitava la sorella, moglie di Pasquale Torvino, sotto l’arco della pescheria dove Lucia era stata una notte da morta, nel carro sotto l’erba e poi al pozzo dove la giovane era stata gettata.

La compagna di quella passeggiata, Valeria, era stravolta da quello che sentiva per la prima volta. L’uomo stava alleggerendo il suo fardello condividendola con una nuova persona, completamente estranea a quei fatti.

Proprio come il professore di musica l’aveva consegnata a lui e Valeria accolse Lucia dentro di sé proprio come l’aveva fatto lui. Lucia era diventata una storia che univa due persone estranee e li faceva sentire più vicini di prima. Prima o poi sarebbe accaduto che tutti in paese avrebbero saputo. Lucia li avrebbe legati tutti.

Ripartì dal paese quella sera stessa. Aveva evitato di salutare gli amici. Se ne andò dal paese con una grande pace dentro.










































Capitolo dodicesimo



La sorpresa























Dopo essere tornato a casa, Antonio non parlò più di Lucia. Non raccontò a nessuno di quello che era successo al paese. Ogni tanto sembrava che un rigurgito mentale gli riportasse a galla qualche particolare di quella visita giù. Un giorno raccontò alla moglie della separazione del suo amico dalla moglie. Lei aveva chiesto come mai solo ora, due mesi dopo, le raccontasse certe cose.

“Non so...non me lo ricordavo neppure più…” Lunghi periodi di silenzio scandivano i ritorni di qualche pezzo di ricordo di quell’esperienza. Antonio sembrava invecchiato molto durante quella breve assenza da casa. La vita aveva ripreso il suo ritmo, e un domenica dopo il pranzo...

“Mi fai vedere qualche foto di quando lui era piccolo?” la fidanzata del figlio aveva ripetuto quella richiesta da alcuni mesi, ma le loro brevi visite, rade nel tempo, non avevano mai permesso di trovare l’occasione giusta.

Quel pomeriggio lui si sentiva più tranquillo, non rispose neppure, si alzò e sparì nelle camere del piano di sopra. Lì il suo ragazzo ci era cresciuto, prima che, dopo i diciasette anni, volle andare a vivere con la madre, al centro del paese. Il padre aveva conservato intatta quella che era da sempre, la stanza del figlio, tutto ciò che lo riguardava, insieme agli albumi piene di foto di quando lui giocava a calcio.

Quando tornò nella tavernetta i ragazzi stavano finendo di sparecchiare la tavola, mentre la moglie era già al lavandino con le mani nell’acqua a lavare le stoviglie.

“Ecco qua!” disse appoggiando sul massiccio fratino , una pila di album fotografici “ qui ci trovi tutto il tuo ragazzo, dalla prima all’ultima foto”.

“Vado solo un attimo a lavarmi un attimo, ho mangiato la pizza con le mani e non vorrei rovinare qualche foto.” fu di ritorno dopo qualche minuto e cominciarono ad aprire i faldoni foderati di cuoio.

“Quello colorato, si, quello con il carillon, proprio quello...è quello delle foto appena nato.”

La ragazza lo prese da sotto alla pila celiando divertita il fidanzato.

“Voglio vedere quella nudo sul letto che fanno a tutti i bambini!” si girò a guardare il giovane che si scherniva imbarazzato.

“Spero proprio che non me l’abbiano fatta!”

“E come no! “ Antonio si era alleato alla giovane ospite “...eri pure carino…” In quel momento i primi voluminosi contenitori scivolarono dalla pila e finirono sul pavimento. Dal loro interno sgusciarono sparpagliandosi una ventina di fogli e qualche fotografia.

“Tu badassi a quello che fai, invece di cercare foto ignude di uomini.” il giovane si vendicò dello sfottò della fidanzata.

“Scusatemi…spero di non avere provocato danni”.

“Oh nooo...che guaio…!”

“Ma dai…” il ragazzo cercava di sdrammatizzare “ “ ...sono solo fogli sparsi dappertutto...”

“Lascia perdere, non è successo niente…” la tranquillizzò Antonio, poi rivolto al figlio.

”...Per favore, raccoglimi quei fogli. Fammi vedere cosa sono…” il figlio raccattò i fogli ed una foto in bianco e nero.

“Questo non sono io…”

“Fai vedere, aspetta, fai vedere anche a me…” la ragazza diede uno sguardo alla foto e ricominciò.

“Nooo...non sei tu, a meno che tu non fossi nata bambina…o meglio saresti stata già una bella signorina...” prese la foto dalle mani del fidanzato e gliela porse al padre.

Antonio rigirò la foto, il suo sguardo rimase vitreo, il suo colorito collassò verso il bianco livido di un cadavere mentre il cervello in tumulto correva all’indietro impazzito e...un flash gli riportò alla mente un angolo buio ed un odore di terriccio fresco. Poi sentì il colpo argentino di una biglia di vetro che colpiva il suo bersaglio colorato vicino ad un sacco di grano. Gli apparvero le punte delle scarpe di vernice nera, alzò gli occhi e la vide lì, davanti a sé. Un gesto involontario delle braccia come se volesse alzarsi dalla poltrona...sul bracciolo la sua mano toccò un’altra mano, ed il profumo della primavera arrivò alle sue narici come quel giorno sulla collinetta tra l’erba. Lucia!...Quella Lucia!! Lei era la Lucia della canzone di Funzenella.

Nei suoi occhi sfumò veloce una macchia di papaveri rossi e di fiorellini gialli. Un sottile alito di vento gli sfiorò le guance.

Tutto durò solo un secondo. In casa era sceso un silenzio irreale che sembrò inquietare il ragazzo, la fidanzata lo guardava sorpresa a bocca aperta.

“ Papà, papà...che succede...stai bene?”

Si scosse da quello smarrimento e vide il figlio e la sua giovane amica chini su di lui.

Gli occhi gli si riempirono di lagrime calde che si riversarono lungo le guance

“Si...si stò bene...ora,” si lasciò cadere pesantemente di nuovo nella poltrona “...da dove l’avete presa questa?”

“ Era qui tra questi fogli.” gli porsero tre o quattro fogli pinzati insieme, su uno di questi una clips vuota stava ad indicare il foglio sul quale era stato fermata la foto. Il titolo scritto a mano da una grafìa elegante era: ‘A canzon d’ Cenz’nella

“ Chi è quella ragazza? Sembra una foto molto vecchia.” Il figlio si accorse che il padre era sbiancato e rimasto senza parola da quando aveva visto quell’immagine “ Papà, sicuro che stai bene? Chi è quella donna?”

“ Si. Non ti preoccupare...sto...sto bene.

L’ho incontrata una volta, da piccolo...mi aveva detto di chiamarsi...Lucia.” non disse ai due ragazzi del secondo incontro.

Non si chiese il perché, sapeva che qualcosa di quella storia doveva appartenere solo a lui.

Il giovane prese la foto dalle sue mani, la girò. Sulla carta ingrigita dal tempo, appena leggibile, una scritta a matita d’una grafia incerta...Lucia P.










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Proprio quando il soffione esplode in mille pezzetti e sembra morire, il pappo vola lontano a fecondare nuova vita.

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